La nuova Costituzione,
sanzionata dal Re nel febbraio del 1813, dopo affermata che religione di Stato
era cattolica, distingueva i tre poteri: il legislativo, esercitato
esclusivamente dal Parlamento, l’esecutivo dal Re per mezzo dei ministri, il
giudiziario indipendente dall’uno e dall’altro. Il Parlamento era composto di
due Camere, quella dei Pari e quella dei Comuni: quella dei Pari era formata di
centottantacinque deputati, di cui sessantuno spirituali; quella dei Comuni di
centocinquantaquattro deputati eletti dai collegi, e non vi potevano avere voto
gli analfabeti. Il Re aveva facoltà di convocare o di sciogliere il Parlamento,
però doveva convocarlo ogni anno. La successione era regolata secondo la legge
salica.
La stampa libera, salvo
che in materia religiosa doveva ottenere il permesso dell’autorità
ecclesiastica. Aboliti i feudi e le angherie introdotte d’autorità dai feudatari,
gli usi civici introdotti dai Comuni e dai privati; riformato il codice penale
e la relativa procedura, e questi scritti in italiano: abolita la tortura,
riordinata la magistratura, creata una corte d’Appello una Cassazione, abolite
le dogane interne, ecc. Ma due cose vogliamo rilevare particolarmente, perché
in appresso diventano oggetto di controversia insanabile: il divieto di tenere
in Sicilia le milizie napoletane e straniere senza consenso del Parlamento, e
all’art. 8 l’aggiunta che, se il Re avesse riconquistato il regno di Napoli,
doveva mandare o lasciare in Sicilia il suo primogenito, cedendogliene “il
regno indipendente da quello di Napoli o da qualunque altro in provincia”. Il
che era sanzionato dal Re col decreto del 25 maggio 1813, ed era patto fondamentale,
che giustificò le rivoluzioni di poi. Comunque era questo il primo statuto costituzionale
che appariva in Italia.
Così stavano le cose
quando a un tratto, il 9 marzo, il Re, per suggerimento della Regina, lasciata
la Ficuzza, comparve alla Favorita, per rientrare in Palermo, e riprendere il
potere.
La caduta di Napoleone
mutava l’indirizzo della politica generale. Lord Bentik fu richiamato in
Inghilterra.
Si apriva intanto il
Congresso di Vienna: il principe di Belmonte, temendo per la Costituzione,
partì per perorare la causa siciliana, ma a Parigi morì. E in quel momento fu
una grave perdita, perché la Sicilia non venne difesa a quel Congresso. Il 18
luglio il Re mutato il Ministaro riaprì il Parlamento; Ministero e Pari si
unirono per domandare al Re lo scioglimento della Camera dei Comuni:
l’ottennero, e furono eletti deputati reazionari. Nulla fece la nuova Camera,
destinata a seppellire senza onori la Costituzione.
Gli avvenimenti europei
incalzavano; la fuga di Napoleone dall’isola d’Elba, i Cento giorni, Waterloo,
la caduta irreparabile del Colosso, si succedettero rapidamente. I vecchi
governi assoluti, liberi oramai da ogni minaccia, si posero a rifare la carta
d’Europa, illudendosi di cancellare quelle che erano le conquiste della
coscienza civile. Ferdinando, prevedendo la catastrofe, il 30 aprile 1815
convocato il Parlamento e pronunciatovi un discorso minaccioso per la
Costituzione, fece votare considerevoli somme per una spedizione nel
Napoletano. Indi, prorogato sine die
il Parlamento, sciolta la Camera, nominato il principe ereditario luogotenente
generale, partì dalla Sicilia ed entrò in Napoli il 4 giugno. Nello stesso
tempo scelse una commissione di diciotto membri, alla quale diede nuove
istruzioni in trenta articoli, per riformare la Costituzione. Cominciarono i
decreti di unificazione, che mostrarono chiaramente a che cosa il Re mirasse.
Allora si ricorse alla protezione inglese. Qui apparve quanto sia illusorio e
pericoloso fidare nella protezione degli stranieri, e quanta ironica sia la
loro amicizia. Caduto Napoleone, il Gabinetto inglese non aveva più bisogno
della Sicilia e di essa si disinteressò completamente.
Il Congresso di Vienna
intanto riconfermava Ferdinando “Re del Regno delle due Sicilia”, ed egli col
decreto dell’8 dicembre 1816 unificava i due regni in uno solo, e prendeva nome
Ferdinando I. Egli era logico, e capiva che non poteva essere re assoluto in
Napoli e costituzionale in Sicilia. Ma i Siciliani che per dieci anni lo avevano
alloggiato e mantenuto, videro che erano spogliati dei loro diritti, per fare
della Sicilia una provincia.
Ferdinando, col decreto
del 14 ottobre, divise la Sicilia in sette provincie, e tolse ogni privilegio
che aveva questa o quella città, volle amministrata ogni provincia da un
intendente che corrisponderebbe al nostro prefetto, con un consiglio di cinque
membri; suddivise ogni provincia in distretti con a capo un sotto-intendente;
ogni comune, aboliti i consigli civici, era amministrato da un decurionato, da
un sindaco e da due eletti, eccettuate Palermo, Messina e Catania, che
conservarono ancora il loro senato, oltre i decurioni. Tutti questi funzionari
erano di nomina regia.
La rivoluzione del 1812
era stata parlamentare e aristocratica, perché vi mancò il concorso di una
borghesia fortemente organizzata: le classi medie, che v’entrarono per
rappresentare i Comuni, non costituirono una maggioranza; parte, per ragioni di
clientela, seguì il baronaggio, parte per combatterlo si appoggiò alla Corte.
Il popolo vi fu estraneo. Le maestranze avevano coscienza di corporazioni
gelose dei propri privilegi, non visione politica: il solo punto in cui s’incontravano
con la borghesia era l’indipendenza dell’Isola, per forza di tradizione.
Tuttavia, qualcosa era
penetrata negli animi...
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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