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lunedì 23 luglio 2018

Gaspare Morfino: Dopo il 4 aprile. Racconto contemporaneo.

Dopo il 4 aprile di Gaspare Morfino vide la luce a Palermo nel 1861, l'anno della proclamazione dell'Unità d'Italia, a pochi mesi di distanza dalla vittoriosa conclusioen della spedizione dei Mille in Sicilia; di qui la scelta di presentarlo ai lettori come racconto contemporaneo, narrazione quasi in presa diretta degli eventi memorabili che avevano portato alla liberazione della città di Palermo e dell'Isola. All'indomani di quei fatti che avevano infiammato il popolo siciliano e l'avevano visto attivamente partecipare alla cacciata del Borbone, al fianco delle camicie rosse, il processo unitario era tutt'altro che concluso, mancando ancora all'appello Roma e le Tre Venezie, che restavano rispettivamente sotto il controllo pontificio e austriaco: la rievocazione per via narrativa di quei momenti gloriosi era così funzionale a tenere vivo e anzi ad alimentare l'ardore patriottico, in vista delle nuove battaglie da combattere per il completamento dell'Unità. 
Secono una prassi al tempo diffusa, nel racconto di Morfino la storia s'intreccia a elementi che appartengono all'universo del popolare. L'autore evita opportunamente di cedere al patetismo tipico di molta letteratura sentimentale ottocentesca e propone una lingua viva, ricca di coloriture lessicali e gergali, che si sostiene su un periodare breve, agile, minimalista nella punteggiatura, scegliendo la chiave dell'ironia per rinsaldare il patto narrativo con lettori e lettrici che presumeva fossero stati testimoni diretti dell'impresa garibaldina. 

Rosario Atria 

Dottore di ricerca dell'Università di Palermo, italianista, è autore di studi sulla poesia del Due-Trecento, sulla narrativa storico-popolare dell'Ottocento, sulla lirica leopardiana, sulla narrativa del secondo Novecento. Si interessa anche di storia e letteratura archeologica di Sicilia. 

Gaspare Morfino: Dopo il 4 aprile. Racconto contemporaneo sulla rivoluzione siciliana del 1860. 
Riproduzione del rarissimo romanzo pubblicato nel 1861. 
Pagine 102 - Prezzo di copertina € 12,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 15% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Copertina di Niccolò Pizzorno. 


lunedì 9 luglio 2018

G.E. Nuccio: Viva Santa Rosalia e Viva la Talia! - Tratto da: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico sulla rivoluzione del 1859-60

Se c’era don Ciccio Riso voleva dire che quella notte avrebbero deciso la data della sommossa. Da mille segni Pispisedda aveva capito che don Ciccio Riso si spazientiva ad aspettare; lo irritava certamente quel discutere continuo, quell’andarsi radunando di qua e di là perdendo del tempo. Pispisedda lo aveva capito non dalle parole, ma dai gesti. Don Ciccio Riso taciturno com’egli era, usava parlare con se stesso e agire, non poteva soffrir quelle continue discussioni dove si disperdeva inutilmente tanto calor d’entusiasmo. Bisognava cominciar presto, facea capir sempre, perchè, da un momento all’altro, Maniscalco poteva scoprir quei preparativi, arrestar tutti e sequestrar le armi.
Dunque, certamente, quella notte, avrebbero presa una decisione definitiva, tanto più che Pispisedda aveva sentito raccontar dall’Indovino al Marchese, misteriosamente, che da Messina avevano annunziato, per i primi di aprile, lo sbarco di due famosi capi siciliani rivoluzionari del ‘48.
Oh se egli avesse potuto trovarsi, piuttosto che accovacciato come un cane nel cortile, framezzo a quegli uomini che stavano per dire: “Il tal giorno comincerà la guerra!”.
Pareva a Pispisedda che in quello studiolo basso, angusto, pulsasse il cuore della città tutta; che da quello studiolo, dove s’erano radunati quei pochi uomini audaci, stesse per partire un alto palpito che squasserebbe tutta la città e tutta l’isola. Li intravedeva oltre gli scuri, perplessi, accigliati, attorno al tavolino sul quale luceva il lume ad olio, stretti in un breve cerchio, con un sol palpito nei cuori fermi e saldi.
“Il tal giorno comincerà la guerra!” pareva dicessero in quel momento; e Pispisedda penava a contenersi.
Voleva correr fuori all’impazzata e chiamare a gran voce, non soltanto i suoi picciotti, ma tutti i picciotti della città, tutti quei figliuoli della strada, i quali pareva avessero maggior bisogno di libertà che gli altri cittadini, e, radunatili là, al Foro Borbonico, gridar ad altissima voce: “Oh picciotti! Il tal giorno si fa la guerra! Avanti, i primi dobbiamo esser noi!... Viva Santa Rosalia e la Talia!”.
E gli pareva che un urlo incomposto rispondesse al suo grido, e gli pareva che un esercito immenso, infinito di picciotti, brulicasse per tutto il Foro Borbonico e si stendesse interminatamente per tutta la via Romagnolo e continuasse sempre, sempre, fino a Messina fino al mare come un fiume immenso, procelloso.
Quanto stette in quel dormiveglia?
A un tratto, vide che i congiurati sgusciavano l’un dietro l’altro come ombre e tosto il silenzio completo e l’ombra incombevano nella via. Allora Pispisedda licenziò i compagni.


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919. Impreziosito dai disegni dell'epoca di Alberto della Valle e dalla copertina di Niccolò Pizzorno. 
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Giuseppe Ernesto Nuccio: Rocco narra di Salvatore Cappello - Tratto da: Picciotti e Garibaldini.




Colà, i prigionieri, al contrario, adagiano l’animo in una dolce, secreta speranza di prossimi, buoni eventi; come se lassù, perché più in alto, il vento urga forte sulle mura ad annunziar il suo urto violento, che spezzerà le nubi della tirannide e farà l’Italia una e grande. Colà si vive più sicuri del domani. E gli è forse perché ci troviamo al cospetto di quegli uomini imperterriti che quel domani preparano fervidamente. Io ne ho conosciuto qualcuno; ma è bastato per raffigurare tutti quelli che, da un quarantennio, continuano la marcia verso la libertà.
Uno di questi uomini – continuò Rocco – è Salvatore Cappello. Lo conobbi alla Vicarìa! Apprendete la sua vita! Congiura con Nicolò Garzilli, lo arrestano e lo serrano nelle carceri di Messina. Quivi lo separano dagli uomini un cerchio di mura e il mare; gli sono compagni carcerieri e soldati, anime vendute al Borbone. Che importa! Egli scorge oltre le mura, oltre il mare, un’altra anima di cospiratore: Giacomo Agresta; ed è a lui che deve comunicare i suoi propositi, perchè quegli, libero, possa comunicarli ai fratelli, e preparare un’altra sommossa più fortunata di quella del povero Garzilli. E Salvatore Cappello e Giacomo Agresta, dubbiosi di affidarsi agli uomini, trovano in un cane intelligente il mezzo di riannodare il filo che la polizia aveva rotto cerchiando di mura il prigioniero. E va quel cane con la lettera nel collare, dal Bigliardo della Marina, dove è l’Agresta, e attraversando vie popolose o deserte, dritto, difilato, come se abbia coscienza dell’opera sua; entra nella cittadella e nella prigione, oltrepassando posti di guardia, attraverso soldati, sentinelle, carcerieri, e trova Cappello e lo ricongiunge alla catena di fuoco che cerchia mezza l’Europa: da Palermo a Messina a Malta a Genova a Marsiglia a Parigi a Londra. Così, per più di cinque anni, Cappello vive fervidamente la sua vita d’ardore dentro le mura spesse della prigione; e non un attimo del suo tempo trascorre invano. Sì che, quando la polizia borbonica lo accompagna a Palermo, perch’egli è ammalato, e lo tien fuori di prigione, sebbene sotto i suoi occhi vigilanti, Salvatore Cappello stringe meglio le fila e ricostituisce, ora fanno quattro anni, il Comitato insieme con Onofrio Di Benedetto, Tommaso Lo Cascio, Giacomo Lo Forte, Salvatore Buccheri, mentre, per tutto, i fratelli La Russa e Mario Palazzolo in Trapani, i Candullo e l’Amato in Catania, gli Agresta in Messina e Tamaio e Fabrizi in Malta, e Bagnasco in Marsiglia, gli Orlando in Genova, e Crispi e Rosolino Pilo e Mazzini aiutano, preparano, sospingono, perchè, appena vibri nell’aria un grido o un colpo di fucile, o una voce di campana, tutte le anime si rizzino e le mani corrano alle armi. E Francesco Bentivegna è colui che dà per primo il grido, e vibra la prima fucilata. Ma il governo borbonico aveva già, coi suoi mille occhi foschi, affissato nell’oscurità e scoperto e prevenuto; sì che – come già Garzilli – Bentivegna e Spinuzza, che lo seguono nella sommossa, son fucilati. Ed ecco allora che a Cappello tocca di viver nascosto, libero per un poco, finchè è ricacciato in prigione. Ma due anni di poi eccolo di nuovo a preparar un altro tentativo con Giuseppe Campo. E in compagnia di Raffaele e Pasquale Di Benedetto, apprende, da Francesco Crispi, venuto nascostamente per intesa col Mazzini e con Rosolino Pilo, il modo di fabbricar le bombe all’Orsini. Ed ecco pronta la sollevazione per il quattro ottobre; ma nuovamente la polizia, nel settembre scorso, ghermisce Salvatore Cappello e lo serra nella Vicarìa. Colà io lo trovai. Ma che fa egli per ora, serrato nella prigione? Ha già ricominciato; e nella prigione ritesse, insieme col Comitato, la rete fitta, meglio di quelli che son fuori. Il Borbone sarà cacciato; non c’è alcun dubbio per Cappello, non c’è alcun dubbio! Lo vedete, gli parlate e v’entra nell’animo la stessa fede cieca nell’imminente vittoria. Cappello non vi dice come mai ciò che non è potuto ancora avvenire accadrà indubbiamente. Non vi dice nulla, sorride; ma quel sorriso è tutto una luce che vi rischiara l’animo e ve lo fa caldo e luminoso della stessa fede; sì che non gli chiedete più nulla, perchè non v’importa di sapere; poichè ormai siete anche voi, come lui, sicuri. E se voialtri – concludeva Rocco con quella sua voce vibrante e quel fuoco negli occhi – se voialtri  l’aveste veduto, come io lo vidi, anche nel vostro animo lucerebbe la luce di quella fede. 
Ma sì, che ormai le anime delle donne vibravano della stessa fede: avevano esse ascoltata con trepida ansia e con vivissima gioia la parola di Rocco, che narrava la breve storia di quell’uomo, tenace come l’onda del mare; la quale batte continuamente, senza mai posa, sullo scoglio immane e per quante volte rotta, scompigliata, infranta, si ricompone e torna all’assalto, sempre, sempre, sempre.
E in quel pomeriggio, nella piccola stanza bianca, dove Rocco aveva accesa la luce della fede, il tramonto, che raggiava nel cielo d’occidente incendiato da fiamme purpuree, venne a far più roggia la luce delle loro anime.


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1911. Impreziosito dai disegni dell'epoca di Alberto della Valle e dalla copertina di Niccolò Pizzorno. 
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Nella foto: disegno di Alberto della Valle (1917) 


Giuseppe Ernesto Nuccio: Garibaldi "discendente di Santa Rosalia". Dalla prefazione del dott. R. Atria in Picciotti e Garibaldini

Garibaldi (o «Canibardu», come lo chiamavano in Sicilia), nella mente dei picciotti, non era semplicemente il condottiero dei Mille. All’inizio del romanzo (siamo ancora nel 1859), in questi termini ne aveva parlato Rocco, preannunciando a Fedele l’intervento nell’Isola dell’eroe che aveva combattuto per l’indipendenza dei popoli sudamericani e per la Repubblica romana: «Chi è Garibaldi? […] Egli è come un San Giorgio con la spada fatata e nessuna spada può ferirlo e nessuna palla ucciderlo». E, subito dopo, gli erano tornate alla mente le parole dell’Indovino: «Santa Rosalia, la vergine palermitana, salvò Palermo dal colera e la salverà dalla schiavitù e manderà un guerriero fatato».
Nuccio recepisce qui la credenza che voleva Garibaldi consanguineo della patrona di Palermo, Santa Rosalia: un guerriero invincibile chiamato a riscattare il popolo da secoli di oppressione, come la santuzza l’aveva salvato dal colera. L’origine di tale credenza, largamente diffusa nei canti e nelle leggende popolari dell’Isola, è probabilmente da ricondursi all’assonanza del cognome del generale con quello della Santa (Sinibaldi). In forza di ciò, la figura del nizzardo fu ammantata d’un’aura di santità, come si evince dalla variante di una leggenda riportata da Salvatore Salomone Marino:
Garibaldi, discendente al solito da Rosalia Sinibaldi la Santa patrona di Palermo, e però sotto la protezione immediata di lei, ebbe da lei in dono, durante il tragitto da Quarto a Marsala, quel rozzo cinturino di cuoio bianco che portava sempre e col quale, agitandolo in mano, si cacciava d’attorno le palle e le bombe che a lui dirigevansi ne’ momenti terribili del combattimento. Ei si ritraeva ogni sera in luogo appartato, anzi scompariva addirittura, perché ogni sera conferiva con la Santa, la quale lo ammaestrava su le mosse e le imprese da fare e gli dettava quelle accese parole con cui egli eccitava il fanatismo dei suoi e atterriva i nemici.
Del formarsi di un sentimento popolare tendente a caricare la figura di Garibaldi di qualità soprannaturali legate alla discendenza da Santa Rosalia e ad attribuire all’eroe il possesso di un corpo taumaturgico, troviamo riscontro anche in alcuni versi di Francesco Dall’Ongaro e nella Storia dei Mille lasciataci da Giuseppe Cesare Abba:
Cominciava così a formarsi intorno a lui la leggenda che pigliò poi tante forme; da quella che un angelo gli parasse le schioppettate, a quell’altra che fosse parente di Santa Rosalia e fin suo fratello.
La figura di Garibaldi al popolo siciliano, appariva non solo invincibile, ma addirittura divina. Attribuzione, quest’ultima, invero particolare per un uomo che non aveva mancato di gridare il suo fiero anticlericalismo, ma che tuttavia – come ha rilevato Denis Mack Smith –, giunto a Palermo dopo la vittoria di Calatafimi, con grande pragmatismo, ritenne opportuno alimentare la leggenda popolare sul suo conto: «Malgrado le sue idee religiose fu abbastanza realistico per celebrare la festa locale di santa Rosalia visitando in pellegrinaggio la grotta della santa. Al pontificale nel Duomo giunse al punto di sedere sul trono reale in camicia rossa, rivendicando il legato apostolico tradizionalmente tenuto dai governanti di Sicilia. Quel miscredente notorio se ne stette là come difensore della fede, con la spada nuda mentre veniva letto il vangelo. Non c’è da meravigliarsi che il popolino gli attribuisse i magici poteri di chi è in diretta comunione con Dio».



Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. 
Pagine 511 - Prezzo di copertina € 22,00
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919. Impreziosito dalle immagini dell'epoca di Alberto della Valle e dalla copertina di Niccolò Pizzorno. 
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
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Luigi Natoli: L'eccidio di Bronte. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Il Radice sine ira, senza attenuare, ma senza esagerare, con serena obbiettività, fa la storia di quel moto, risalendo alle origini, seguendone le vicende, dalla preparazione allo scoppio e alle stragi che ne seguirono; le quali si sarebbero potute evitare, se le autorità di Catania fossero state meno insipienti e irresolute, e più sollecite. Con la scorta delle testimonianze citate, dei documenti ufficiali, del diario inedito di Nino Bixio, il Radice non soltanto corregge il giudizio degli storici, ma anche i particolari narrativi. 
Non è infatti vero quello che, per amore del gesto eroico, narrarono tutti, che cioè Bixio abbia quasi espugnato Bronte, impadronendosene a baionetta calata; vi entrò invece tranquillamente, e quando già il moto era stato sedato dall’intervento, purtroppo tardivo, di ottanta militi della guardia nazionale, venuti da Catania, sotto gli ordini del Poulet, vecchio e provato patriota nostro. 
Il governatore di Catania spediva quella truppa quando il Lombardo e gli altri, capi del movimento, che chiedevano la divisione delle terre del comune al popolo, come invano era stato deliberato, non potevan più contenere il moto della plebe sfrenata. Le rapine, gli incendi, le uccisioni di quelli che erano ritenuti nemici della divisione, erano già avvenute. Tuttavia la presenza del Poulet e delle guardie nazionali bastò a impedire altre stragi; e l’opera sua volgeva, forse debolmente, a indagare i colpevoli, e a pacificare gli animi, quando giunse il Bixio; che occupato il paese militarmente, con la sua abituale irruenza, rimandò via il Poulet senza ascoltarlo; e fuorviato dalle istigazioni altrui, e forse anche dalle sollecitazioni dell’amministrazione inglese della ducea, procedette agli arresti. 
Nicolò Lombardo, presidente del municipio e come capo dei divisionisti, ritenuto fautore delle stragi, si presentò al Bixio spontaneamente, per dare schiarimenti; ma il Bixio lo fece arrestare. Il processo contro i capi fu sbrigato in quattr’ore, e – doloroso a dirsi, – fu condotto con metodi non dissimili da quelli usati pochi mesi innanzi dai consigli di guerra borbonici. 
Gli accusati non ebbero tempo e modo di scolparsi. Invitati a presentar le loro difese entro il termine di un’ora, pel solo fatto di averle presentate un’ora dopo quel termine, se le videro respinte: procedimento indegno di uomini liberi, né giustificabile con le necessità dei tempi. Ai parenti del Lombardo fu dal Bixio negato di abbracciare il condannato nell’ora estrema; e il garzone che gli portava delle uova, ultimo desinare, fu respinto dal fiero generale con dure parole: – “Non di uova ha bisogno. Domani avrà due palle in fronte”.
I cinque condannati a morte furono fucilati il 10 agosto nella piazzetta di S. Vito; fra loro era uno scimunito. 
Questa è la verità del moto di Bronte e di quella che si suol chiamare la missione del Bixio. Non è una bella pagina del grande italiano; ma la storia è storia, e non si deve tradire mai né per simpatie né per antipatie. 

Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 24,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online.
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Luigi Natoli: Lo schiaffo di Nino Bixio a Carmelo Agnetta. Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.


Carmelo Agnetta, esule a Parigi, accorso a Genova poco dopo che ne era partito Garibaldi, raccolti settanta altri ritardatari imbarcò sull’Utile, con gli aiuti del conte Michele Amari e di Giuseppe La Farina; e non ostante i dubbi e i timori di Giacomo Medici, che ne lo sconsigliava, come aveva sconsigliato Garibaldi. Partito il 25 maggio, seguendo la stessa rotta già percorsa dai Mille, e sbarcato a Marsala, di lì per Vita, Calatafimi, Alcamo, Partinico, giunse il 7 giugno a Monreale, dove lo incontrò un corriere speditogli incontro da Garibaldi, con un biglietto di saluti e di congratulazioni e l’audace navigazione; onde il piccolo corpo fu detto giustamente la retroguardia dei Mille. 
L’Agnetta si affrettò quella stessa mattina a calare in Palermo; e sebbene i suoi militi fossero stanchi e desiderosi di riposarsi dalla lunga marcia, li condusse difilato nella piazza Pretoria, perché Garibaldi li passasse in rassegna. Aspettava appunto il Generale, che glielo aveva già fatto sapere, quando il Bixio, sceso giù in piazza, domandato che uomini fossero quelli, senza altro ordinò all’Agnetta di condurli ai funerali del prode Tukory, che stavano ordinandosi. 
Carmelo Agnetta non conosceva il Bixio, il quale per altro era in vesti borghesi. Rispose che aspettava il Generale; Bixio allora ripetè l’ordine con maggior imperiosità: l’Agnetta, che senza essere più impetuoso di Bixio, come leggermente dice il Lazzarini, non era tale da tollerare sopraffazioni, ribattè che egli non riceveva ordini se non dai superiori. 
Alle quali parole il Bixio, invece di farsi conoscere, lasciandosi trasportare dal suo naturale, rispose con uno schiaffo; l’Agnetta sguainò la sciabola. Se non era pel pronto accorrere e l’efficace intromettersi di autorevoli ufficiali dei Mille, l’Italia avrebbe pianto quel giorno la perdita immatura di uno dei suoi più illustri figli. 
Al rumore corse anche Garibaldi; udì il fatto, e divenne pallido per la collera; fulminò con gli occhi il Bixio, e gli ordinò gli arresti in casa; e tentando il Bixio giustificarsi, ripetè l’ordine con fiero cipiglio. 
L’Agnetta affidò a due amici l’incarico di sfidare Nino Bixio; ma Garibaldi, durando la guerra, non poteva consentire che due valorosi di quella tempra esponessero per una quistione personale, la vita sacra alla patria; e per suo desiderio e consiglio fu convocato un giurì d’onore, che rimandò la partita alla fine della campagna, salvo restando l’onore e il diritto dei due avversari. 
Essi promisero di attenersi a quel verdetto, e lealmente mantennero la parola per tutto il resto della campagna, conducendosi come se nulla fosse avvenuto fra loro. 
Sciolto l’esercito meridionale, ridiventati liberi, l’Agnetta ricordò al Bixio che gli doveva una riparazione; ma il Bixio si rifiutò, adducendo ragioni di indegnità, che, veramente, anche se fossero state vere, non era più il caso, dopo il giurì, di sollevare. E allora l’Agnetta scrisse e stampò un foglietto volante, divenuto rarissimo, ma di cui un esemplare fu esposto nella Mostra del risorgimento del 1902 a Palermo; nel quale fieramente ribattendo le calunniose accuse, le chiamava comodi pretesti per non battersi. 
Il duello avvenne in seguito a questa pubblicazione: e dati gli uomini, il loro coraggio, la loro valentia, nel maneggio delle armi, e l’arma scelta: la pistola, destò apprensioni e mise in moto tutti i liberali e i vecchi commilitoni. L’Agnetta promise che non avrebbe mirato per uccidere: ma avrebbe punito la mano che lo aveva insultato. E così avvenne. Avvenuto lo scontro presso Cannobio in Svizzera, Bixio fu ferito alla mano destra. Dopo il duello essi divennero amici, chè erano ambedue d’indole generosa e leale. 


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 24,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Nella foto: Nino Bixio.