Colà, i prigionieri, al contrario, adagiano l’animo in una dolce, secreta speranza di prossimi, buoni eventi; come se lassù, perché più in alto, il vento urga forte sulle mura ad annunziar il suo urto violento, che spezzerà le nubi della tirannide e farà l’Italia una e grande. Colà si vive più sicuri del domani. E gli è forse perché ci troviamo al cospetto di quegli uomini imperterriti che quel domani preparano fervidamente. Io ne ho conosciuto qualcuno; ma è bastato per raffigurare tutti quelli che, da un quarantennio, continuano la marcia verso la libertà.
Uno di questi uomini – continuò Rocco – è Salvatore Cappello. Lo conobbi alla Vicarìa! Apprendete la sua vita! Congiura con Nicolò Garzilli, lo arrestano e lo serrano nelle carceri di Messina. Quivi lo separano dagli uomini un cerchio di mura e il mare; gli sono compagni carcerieri e soldati, anime vendute al Borbone. Che importa! Egli scorge oltre le mura, oltre il mare, un’altra anima di cospiratore: Giacomo Agresta; ed è a lui che deve comunicare i suoi propositi, perchè quegli, libero, possa comunicarli ai fratelli, e preparare un’altra sommossa più fortunata di quella del povero Garzilli. E Salvatore Cappello e Giacomo Agresta, dubbiosi di affidarsi agli uomini, trovano in un cane intelligente il mezzo di riannodare il filo che la polizia aveva rotto cerchiando di mura il prigioniero. E va quel cane con la lettera nel collare, dal Bigliardo della Marina, dove è l’Agresta, e attraversando vie popolose o deserte, dritto, difilato, come se abbia coscienza dell’opera sua; entra nella cittadella e nella prigione, oltrepassando posti di guardia, attraverso soldati, sentinelle, carcerieri, e trova Cappello e lo ricongiunge alla catena di fuoco che cerchia mezza l’Europa: da Palermo a Messina a Malta a Genova a Marsiglia a Parigi a Londra. Così, per più di cinque anni, Cappello vive fervidamente la sua vita d’ardore dentro le mura spesse della prigione; e non un attimo del suo tempo trascorre invano. Sì che, quando la polizia borbonica lo accompagna a Palermo, perch’egli è ammalato, e lo tien fuori di prigione, sebbene sotto i suoi occhi vigilanti, Salvatore Cappello stringe meglio le fila e ricostituisce, ora fanno quattro anni, il Comitato insieme con Onofrio Di Benedetto, Tommaso Lo Cascio, Giacomo Lo Forte, Salvatore Buccheri, mentre, per tutto, i fratelli La Russa e Mario Palazzolo in Trapani, i Candullo e l’Amato in Catania, gli Agresta in Messina e Tamaio e Fabrizi in Malta, e Bagnasco in Marsiglia, gli Orlando in Genova, e Crispi e Rosolino Pilo e Mazzini aiutano, preparano, sospingono, perchè, appena vibri nell’aria un grido o un colpo di fucile, o una voce di campana, tutte le anime si rizzino e le mani corrano alle armi. E Francesco Bentivegna è colui che dà per primo il grido, e vibra la prima fucilata. Ma il governo borbonico aveva già, coi suoi mille occhi foschi, affissato nell’oscurità e scoperto e prevenuto; sì che – come già Garzilli – Bentivegna e Spinuzza, che lo seguono nella sommossa, son fucilati. Ed ecco allora che a Cappello tocca di viver nascosto, libero per un poco, finchè è ricacciato in prigione. Ma due anni di poi eccolo di nuovo a preparar un altro tentativo con Giuseppe Campo. E in compagnia di Raffaele e Pasquale Di Benedetto, apprende, da Francesco Crispi, venuto nascostamente per intesa col Mazzini e con Rosolino Pilo, il modo di fabbricar le bombe all’Orsini. Ed ecco pronta la sollevazione per il quattro ottobre; ma nuovamente la polizia, nel settembre scorso, ghermisce Salvatore Cappello e lo serra nella Vicarìa. Colà io lo trovai. Ma che fa egli per ora, serrato nella prigione? Ha già ricominciato; e nella prigione ritesse, insieme col Comitato, la rete fitta, meglio di quelli che son fuori. Il Borbone sarà cacciato; non c’è alcun dubbio per Cappello, non c’è alcun dubbio! Lo vedete, gli parlate e v’entra nell’animo la stessa fede cieca nell’imminente vittoria. Cappello non vi dice come mai ciò che non è potuto ancora avvenire accadrà indubbiamente. Non vi dice nulla, sorride; ma quel sorriso è tutto una luce che vi rischiara l’animo e ve lo fa caldo e luminoso della stessa fede; sì che non gli chiedete più nulla, perchè non v’importa di sapere; poichè ormai siete anche voi, come lui, sicuri. E se voialtri – concludeva Rocco con quella sua voce vibrante e quel fuoco negli occhi – se voialtri l’aveste veduto, come io lo vidi, anche nel vostro animo lucerebbe la luce di quella fede.
Ma sì, che ormai le anime delle donne vibravano della stessa fede: avevano esse ascoltata con trepida ansia e con vivissima gioia la parola di Rocco, che narrava la breve storia di quell’uomo, tenace come l’onda del mare; la quale batte continuamente, senza mai posa, sullo scoglio immane e per quante volte rotta, scompigliata, infranta, si ricompone e torna all’assalto, sempre, sempre, sempre.
Ma sì, che ormai le anime delle donne vibravano della stessa fede: avevano esse ascoltata con trepida ansia e con vivissima gioia la parola di Rocco, che narrava la breve storia di quell’uomo, tenace come l’onda del mare; la quale batte continuamente, senza mai posa, sullo scoglio immane e per quante volte rotta, scompigliata, infranta, si ricompone e torna all’assalto, sempre, sempre, sempre.
E in quel pomeriggio, nella piccola stanza bianca, dove Rocco aveva accesa la luce della fede, il tramonto, che raggiava nel cielo d’occidente incendiato da fiamme purpuree, venne a far più roggia la luce delle loro anime.
Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1911. Impreziosito dai disegni dell'epoca di Alberto della Valle e dalla copertina di Niccolò Pizzorno.
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Nella foto: disegno di Alberto della Valle (1917)
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