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mercoledì 27 gennaio 2021

Luigi Natoli: Nicolò Garzilli e l'insurrezione del 27 gennaio. Tratto da: La rivoluzione siciliana del 1860.

 
Nicolò Garzilli, aquilano d’origine, palermitano d’adozione, studente dell’università, di soli diciannove anni aveva fatto concepire alte speranze di sé, per un suo scritto filosofico. Scoppiata la rivoluzione aveva lasciato la penna pel fucile, combattuto da prode, preso parte alla spedizione Ribotti nelle Calabrie: fatto prigioniero con gli altri, era stato chiuso nelle fortezze borboniche. La prigione non spense la sua fede: uscitone, prese attivamente a cospirare con altri animosi. Illudendosi che le violenze poliziesche avessero negli animi acceso tanto sdegno, che bastasse rinnovare le audacie del 12 gennaio, per far divampare l’incendio della rivoluzione, sebbene sconsigliato dal Lomonaco, divisò co’ suoi compagni d’insorgere pel 27 gennaio 1850. Ma traditi da un Santamarina, che era dei loro, scesi il giorno designato nella piazza della Fieravecchia, al grido di Viva la Costituzione, trovarono le vie occupate dalle milizie regie, e si sbandarono. Il Garzilli poco dopo, preso con altri cinque, e condotto al Castello, vi fu giudicato da un Consiglio di guerra, al quale il Satriano scriveva in precedenza, che sentenziasse per tutti e sei quei giovani la morte, da eseguirsi la stessa giornata. La sera stessa del 28, condannati senza alcuna prova legale, condotti nella piazza Fieravecchia, vi furono moschettati. Un marmo tramanda alla memoria dei posteri i loro nomi: furono Nicolò Garzilli, Giuseppe Caldara, Giuseppe Garofalo, Vincenzo Mondino, Paolo De Luca e Rosario Aiello.
Al supplizio seguì un processo contro sessantacinque presunti rei di cospirazione, dei quali oltre la metà la­titanti, e fra essi il Bentivegna. Contro gli arrestati la polizia incrudelì; il tribunale prosciolse ben trentasei dall’imputazione, gli altri condannò a pene ben gravi.




La rivoluzione siciliana del 1860 fa parte di: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 525 - Prezzo di copertina € 24,00
Il volume raccoglie gli scritti più importanti dell'autore sul Risorgimento, nelle versioni originali ovvero:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935, oggi edita I Buoni Cugini editori
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)  
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927) 

Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (spedizioni in tutta Italia a mezzo corriere). Si può prenotare alla mail ibuonicugini@libero.it o con messaggio whatsapp al 3894697296.
On line su Amazon e Ibs
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133 - Palermo)
La Nuova Bancarella (Via Cavour di fronte La Feltrinelli)
Libreria Modusvivendi (Via Quintino Sella 79 - Palermo)
Enoteca Letteraria Prospero (Via Marche 8 - Palermo)
La Libreria di La Vardera Vito (Via N. Turrisi n. 15 - Palermo)
Libreria Sciuti (Via Sciuti 91/f)

Giuseppe Ernesto Nuccio: Quel 27 gennaio 1860... - Tratto da: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano

In piazza della Fieravecchia scontrò Pispisedda e i picciotti. Si scambiarono così, velatamente, le nuove che andavano ormai di bocca in bocca. Pareva che corressero dei fremiti d’attesa febbrile per le vie della città. I picciotti sedettero presso l’icona che è incastrata sul muro del palazzo Trigona. C’erano, sulle scranne, alcuni vecchi scaricatori attorno ad un uomo che parlava con tono dolente della passione e morte di Gesù Cristo.
Fedele che si sentiva fremere l’animo da una tristezza vaga, come al sopravvenire d’una sciagura imminente, si appressò per ascoltare.
Ma, appena se lo vide vicino, l’uomo ammutolì, e anche gli ascoltanti si misero a guatarlo minacciosi.
Pispisedda, che si era accorto della diffidenza suscitata, intervenne:
- Che lo credete taschettaro? È uscito ora ora dalla Vicaria. Fu arrestato per la luminara; è picciotto di montagna.  
Nessuno degli uomini parlò; ma le rughe si spianarono, e gli sguardi si fecero sereni. E quello ricominciò a narrare:
- Verso la mattinata venne nella via Divisi il Commissario ed entrò in tutte le botteghe a ordinare che nessuno chiudesse le porte.
Io mi trovavo nella calzoleria di Beninati, in piazza Spedaletto. “E perchè si doveva chiudere? Che ragione c’era? Era forse il giovedì santo?” domandavano tutti, affacciandosi ansiosamente alle porte. Ma d’un tratto la terribile nuova passò di bocca in bocca. Nicolò Garzilli e i compagni dovevano essere fucilati! Allora le donne, che erano in mezzo alla via, corsero dentro chiamando e tirandosi dietro i figliuoli. Dopo pochi minuti la via Divisi era deserta; nei balconi la gente s’era affacciata per un poco, poi, dentro, pur essa, chiudendo.
Ma non passò molto tempo e s’udì il tonfo dei passi e il vocìo sommesso d’una folla che si avvicinava.
Io mi sporsi fuori della porta; sulle soglie delle case donne e uomini pallidi, perplessi si affacciavano per guardare. Calavano dalla via Maqueda. In mezzo ai sacerdoti, tra i birri e le truppe, si scòrse un gruppo di uomini col viso coperto da un velo nero. Era Nicolò Garzilli; erano i suoi compagni. Ci si gelò il sangue nelle vene. I cuori si fermarono. Li portavano alla morte, alla fucilazione. Di balcone in balcone, di porta in porta corse un grido di pianto represso e, subito, i balconi, le porte si chiusero tutti, ma gli stessi muri delle case, i balconi, le porte, le strade piangevano. Anche noi chiudemmo. Dentro, al buio, col cuore agghiacciato, udimmo il tonfo dei passi lenti, e pareva che tutta la gente ci pestasse il cuore. Ma il rumore si allontanava, si attutiva, si spengeva. Allora il silenzio fu terribile: l’angoscia ci prese il cuore e lo serrò in una morsa tremenda. Io ch’ero addossato al muro mi piegai a poco a poco, caddi ginocchioni, mi tenni forte le braccia con le mani adunche ficcando le unghie nelle carni; mi feci piccolo piccolo, i gomiti sui ginocchi, il mento sul petto, gli occhi serrati. Aspettavo con uno spasimo atroce i colpi di fucile, che dovevano ammazzar Nicolò Garzilli e i suoi compagni sulle pietre della Fieravecchia. Ma il silenzio continuava più terribile della morte stessa. Niente s’udiva, niente. Come se la vita della terra fosse finita per sempre da cento e cento anni. Nella bottega non si udivano nemmeno i cuori. Io non sentivo più le braccia sotto le unghie, nè i ginocchi sotto i gomiti, nè il petto sotto il mento; non sentivo più il mio cuore stesso. Là mi pareva di essere, là, nella piazza stessa a guardare. Ecco: mettono in fila i condannati, vicino al muro. I sacerdoti si allontanano. Li sorregge soltanto tutto il muro delle case, silenziose come le tombe. Il cannello s’è fatto muto; l’acqua della fontana s’è agghiacciata. Ecco che i soldati s’allontanano, si fermano, imbracciano il fucile, prendono la mira: l’ufficiale leva la spada. Io mi raggriccio, aspetto, aspetto, aspetto, tremando tutto con la casa, con la via, con la terra.
A un tratto fu come se la casa sprofondasse e parve un colpo solo. Ma terribile, che durò infinitamente; come se correndo per tutte le vie della città battesse alle porte ad una ad una, alle finestre ed ai balconi, e, poi, elevandosi, roteasse sul cielo lontano, perchè tutti gli uomini della terra udissero. Io non so per quanto tempo rimasi in quel luogo. Più tardi venni fuori, venni fin qui, e in questa piazza, proprio in quell’angolo, c’era il sangue ancora, ed io mi avvicinai. Attorno alla macchia di sangue c’erano pochi ragazzi e pochi uomini, pochi e cupi. Un ragazzo raccattò un poco di pelle insanguinata, e l’accostò al muro e scavò una fossa e la seppellì senza dir nulla. E noi, intorno a lui, muti, senza piangere. Un altro ragazzo fece una croce piccola con due cannucce e la piantò sulla fossa; e noi intorno a lui muti, con gli occhi asciutti.... senza piangere. Piangevano i muri delle case e piangeva il cielo, invece”. 
L’uomo tacque. Tutte le teste erano abbassate, come se ognuno guardasse il Cristo morto in chiesa. 
S’udì un singhiozzo represso; allora i volti si levarono irosi e uno disse:
- Non si piange, non si deve piangere più. Ora tocca ad essi...

Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1860, al tempo di tutta la rivoluzione siciliana, dal 4 aprile al 3 giugno 1860 vissuta e narrata da un gruppo di giovanissimi patrioti.
L'opera è la fedele riproduzione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice Bemporad nel 1919 ed è impreziosito dai disegni dell'epoca di Diego della Valle. 
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Prezzo di copertina € 22,00 - Pagine 534
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicugineditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia). Prenotabile anche alla mail ibuonicugini@libero.it o con messaggio w.a. al 3894697296
Disponibile su Amazon, Ibs e tutti i siti vendita online.
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica - Via Cavour 133, La Nuova Bancarella - Via Cavour, Libreria Modusvivendi - Via Quintino Sella 79, Enoteca Letteraria Prospero - Via Marche n. 8, La Libreria di La Vardera s.a.s. - Via Nicolò Turrisi 15, Libreria Sellerio - Viale Regina Elena 59/b (Mondello), Libreria Sciuti - Via Sciuti n. 91/f

Giuseppe Ernesto Nuccio: La morte di Nicolò Garzilli. Tratto da: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano.

 
Fedele giunse che già i giovani pastori sedevano attorno all’Addiminavinturi sotto l’ombra del Castellaccio, l’antica, diruta fortezza saracena.
Era un vecchio così strano e dall’aspetto così antico da parere fosse vissuto centinaia d’anni. Sedeva su una roccia, e, siccome poggiava le spalle al muro del castello, sembrava una cariatide incavata a sostenere chi sa quale colonna portata via dalla furia del tempo. Avea una fronte enorme, bozzacchiuta, d’un giallo vecchio scuro che sopravanzava come a far più profonde le buche delle occhiaie, dove si perdevano, in un’ombra cupa, gli occhi piccoli e neri, ma d’un nero opaco, smorto; gli zigomi sporgenti facevano più piccoli il naso e il mento acuti, sì che, vista da lontano, la testa, nell’insieme, prendea l’aspetto d’un cuneo di pietra gialla coperto al sommo da uno strato di calcina, cui somigliava la massa di capelli bianchi.
Il tono della voce era ugualmente pacato, e, sia che il vecchio narrasse le infamie dei birri borbonici, sia che narrasse le audaci e nobili imprese dei siciliani, che volevano esser liberi nelle loro terre, sempre pareva ch’egli raccontasse le storie bibliche o le gesta dei paladini di Francia.
I giovani pastori lo avevano già ascoltato altre volte a narrare le infamie commesse dai birri, quand’erano tornati dopo la Rivoluzione del 1848; e la fucilazione di Nicolò Garzilli e di Francesco Bentivegna, e giù giù, fino alla morte di Ferdinando II, morto pochi giorni addietro.
- Una volta – cominciò il vecchio con quella sua voce pacata che pareva venisse di lontano – una volta, un giovinetto, si chiamava Nicolò Garzilli; c’era il gelo e compiono ora nove anni, disse: “Gli uomini non li deve comandare nessuno! meglio morti che schiavi!” E (come David che, piccolo quale era, se la prese col gigante Golia) il giovinetto se la prese col gigante Borbone, che è guardato da centomila e più bocche di fuoco, che comanda tanti soldati quanti granelli ha la rena del fiume Oreto, e ha cento e più navi che, se lui lo comanda, gettano fuoco quanto ne può gettare il Mongibello. Ma Garzilli non aveva paura, perchè ci aveva il fuoco nel cuore e anche ci aveva una perla nella mente, tanto che aveva scritto un libro che nemmeno un vecchio vecchio, sapiente sapiente, è buono a scriverlo. Dunque una sera; – ve lo dissi, c’era il gelo e compiono ora nove anni – un pugno di giovanetti, nella piazza della Fieravecchia – come due anni prima avevano fatto gli altri – cominciarono a gridare: “Viva la libertà!”.
Avvenne tale e quale come se voialtri pastori, di notte, lasciaste le pecore fuori: da ogni parte sbucarono i lupi del Borbone e si gettarono sui giovanetti e li legarono come cristi. E di poi, passò poco tempo, Nicolò Garzilli ed altri cinque giovani li portarono alla morte, per le vie di Palermo. Ma Palermo pareva tutta morta; come se ci fosse stato quel castigo di Dio che chiamano colera. E tutte le case con le porte e le finestre chiuse parevano tombe; e non veniva fuori nè canto di mamma, nè pianto di bambini.
Garzilli aveva una sorella che – come seppe che il fratello l’avevano fucilato – diventò pazza e poi non passarono due giorni che morì. Garzilli aveva anche il padre; ma quello era birro del Borbone, e quando seppe la morte del figlio fu tale e quale come l’ammazzato non fosse suo figlio, e continuò a passeggiare per le vie come se niente fosse stato!
L’Addiminavinturi tacque, la sua bocca si chiuse con uno scatto, come un ordigno meccanico. Le palpebre calarono sugli occhi; e tutto il suo corpo restò immoto. I giovani pastori, soggiogati dalla impassibilità del vecchio, ricacciarono dentro l’animo le imprecazioni, che stavano per prorompere contro quei birri assassini, contro il padre inumano di Nicolò Garzilli.




Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1860, al tempo di tutta la rivoluzione siciliana, dal 4 aprile al 3 giugno 1860 vissuta e narrata da un gruppo di giovanissimi patrioti.
L'opera è la fedele riproduzione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice Bemporad nel 1919 ed è impreziosito dai disegni dell'epoca di Diego della Valle. 
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Prezzo di copertina € 22,00 - Pagine 534
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martedì 12 gennaio 2021

Luigi Natoli: Santa Miloro, l'eroina del 12 gennaio 1848. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860

La mattina del 12 gennaio 1848, mentre scoppiavano le prime fucilate, e un pugno di giovani audaci, sfidava le truppe borboniche, fu vista una giovane donna percorrere le strade di Palermo, chiamando alle armi i neghittosi, spronando i timidi, e distribuendo coccarde tricolori. 
 Sola, armata della sua bellezza, non paventando le armi, come sicura del destino, a quella rivoluzione scoppiata con cavalleresca puntualità aggiungeva un sapore di romanzo e di poesia.
Quella donna era Santa Diliberto, che rimasta vedova a venti anni, di un Astorina, e passata dopo non molto, in seconde nozze con Pasquale Miloro, uno dei cospiratori, era stata messa a parte dei segreti convegni; uscito il Miloro lo aveva seguito, con quelle coccarde.
Poche donne erano note come “donna Santuzza”. Ella doveva la sua notorietà a tre cose: la sua bellezza, la sua eleganza semplice ma originale, la sua bottega di guanti.
Non v’erano in Palermo guanti migliori di quelli di “donna Santa”, nè v’era chi sapesse increspare o stendere con maggior gusto la spoglia di quei graziosi ombrellini che usavano allora, simili a ninnoli. La sua fabbrica aveva venti tagliatori di guanti; le cucitrici erano un centinaio. Aveva la bottega in Via Cintorinai, in sul principio, a destra di chi vi entra dalla via detta oggi di Vittorio Emanuele; e questa bottega era sempre affollata. Tutta la nobiltà di Palermo, ed anche quella dell’isola si serviva di guanti, ombrellini, e ventagli, da “donna Santa”.
Ella era alta e slanciata. I capelli bruni, copiosi, spartiti sulla fronte, raccolti intorno alle tempie e sugli orecchi, le incorniciavano il volto ovale e bianco.
Il naso piccolo, appena appena arcuato, gli occhi grandi, neri, sereni, la bocca un po’sottile, piccola, fiorita d’un tenue sorriso.
Nel portamento un’aria giunonica, consapevole, quale apparisce ancora da una fotografia di quando era nella piena maturità della vita e della bellezza imperiosa e magnifica.
L’avevano sposata fanciulla poco men che sedicenne ad un Astorina; era rimasta vedova a venti anni, con una industria fiorente; qual folla di cospiratori, e quali tentazioni, non dovevano circondarla? quali insidie non avvilupparla? Ma donna Santa era saggia ed avveduta.
“Io, mi diceva, non avrei sposato mai un uomo che avesse potuto parere un coperchio; volevo un uomo serio, un uomo che avesse imposto rispetto; ed ecco perchè accettai la mano di Pasquale Miloro, e diventai la signora Miloro!...”.
Ho scritto “mi diceva”. Ebbene, sì: donna Santa, il rudere di questa bellezza, la dispensatrice delle coccarde all’alba del 12 gennaio, questa unica e sola superstite del manipolo che iniziò la rivoluzione famosa, questa figura eroica e poetica, della giornata memoranda, che con le belle mani statuarie diffondeva il simbolo della libertà, e affrontava le fucilate; era ancor viva quando nel 1910, io la scopersi nella casetta dove viveva ritirata e silenziosa. Aveva allora novantasei anni ed era svelta; sebbene un po’curva: e malgrado le rughe le solcassero la fronte, gli occhi avevano ancora l’antico lampo; la mente era lucida, e i ricordi vivaci. Nella solitudine in cui viveva dimenticata, sopravissuta alla sua storia, serbava gli entusiasmi giovanili nell’animo rimasto ancora rivoluzionario del ‘48.
Io andai a trovarla nella sua casetta, al numero 33 della via Volturno. Era seduta in un’ampia poltrona; e appena mi vide entrare, si alzò e mi porse le mani affabilmente. Io volevo udire dalla sua bocca l’episodio del 12 gennaio: ma prima di parlare, ella andò a prendere da un cassetto un libro, lo aprì e me lo porse...
All’alba del 12 gennaio mio marito uscì co’suoi fratelli e con suo padre, mio suocero; erano tre fratelli: Pasquale, Antonino e Giorgio. Uscirono armati, perchè doveva scoppiare la rivoluzione. Io avevo un paniere pieno di coccarde, e con tre nastri, uno bianco, uno rosso e uno verde, avevo improvvisato una lunga sciarpa. In quei giorni mi ero fatto un vestito di lana, a quadri con una sopraveste, come era di moda; quel vestito mi stava una pittura... lo vestivo con molta semplicità; gli abiti me li facevo da me; pure debbo dire che facevano voltare la testa, e molte signore, anche dell’aristocrazia, mi domandavano sul serio, se li facevo venire da Parigi...
Interrompendosi con questa parentesi, il suo volto si illuminava della dolce vanità del passato, e la femmina che aveva suscitato fremiti di desiderio con l’impeto della bellezza, riviveva nella vecchia sepolta nella ampia poltrona e col capo avvolto in un fazzoletto scuro.
- Dunque – riprese – come le dicevo, udii le prime fucilate. Pensando che mio marito e i miei cognati erano fuori e nel pericolo, e non vedendo muovere nessuno del vicinato, non potei resistere. Indossai il mio bel vestito, mi cinsi con la sciarpa tricolore, presi il paniere delle coccarde, ed uscii. Abitavo allora in piazza Garraffello. Sulle porte, ai balconi la gente si affacciava timida, sospettosa, irresoluta: non si sapeva come volgessero le cose... Si sparse la notizia che qualcuno era stato ucciso. Io allora cominciai a rampognarli: “Su! Che fate? All’armi!... i vostri fratelli combattono; correte ad aiutarli!...Viva l’Italia! viva la libertà!...”. E davo coccarde, e andavo innanzi...

Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
Pagine 525 - Prezzo di copertina € 24,00
Il volume raccoglie gli scritti più importanti dell'autore sul Risorgimento, nelle versioni originali ovvero:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)  
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927) 
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Luigi Natoli: C'è la guerra! Tratto da: Chi l'uccise? Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1848

L’alba del dodici gennaio in piazza della Fieravecchia un numero sparuto di cittadini incominciava la rivolta. L’alba era fredda, e il cielo coperto di nubi, gli animi pieni di ansia nel vedere quei venti cittadini intorno a una bandiera tricolore, sparare un colpo di fucile. Era la rivoluzione che cominciava. Due ore dopo erano cento, e i colpi spesseggiavano in vari punti. 
Maurizia fu svegliata improvvisamente dagli spari vicini, che la atterrirono, non sapendo a chi attribuirli. La sera innanzi la serva aveva portato a casa provviste di pane, di pasta, di legumi, di formaggi. Aveva domandato perché suo padre avesse ordinato tutta quella roba, e la serva aveva risposto: 
- C’è la guerra, signorina: c’è la guerra! 
Ora udiva le fucilate e si domandava se fossero i soldati quelli che sparavano; e stava trepida in ascolto. Fuori, nella piazza, la gente fremeva e ferveva; ella si affacciò nel balcone, e vide qualche cencio tricolore, e, più in là qualche uomo che incitava altri uomini ad armarsi. Rientrò subito; suo padre si aggirava per le stanze con le mani cacciate nelle tasche, il sigaro spento in bocca, gli occhi fissi sotto le sopracciglia aggrondate. Poi si fermava dietro i vetri del balcone e guardava la piazza, la via, la chiesa del Carmine. Tutto a un tratto disse a Maurizia: 
- Vado per vedere di che si tratta.
- Dove va? Non sente le fucilate?
Egli alzò le spalle con noncuranza e uscì; Maurizia lo rincorse: 
- Papà!... Papà!... Torni!... Oh Dio!
E afferrato uno scialle, corse giù per le scale: ma il padre non si vedeva più tra la folla che gremiva ora la piazza, ed ella fu presa dalla paura di cacciarsi in quella folla, e risalì. La serva ancora stupiva. 
- Gliel’ho detto, che era una pazzia uscire! – le disse.
Ella non rispose. Verso venti ore suo padre rientrò senza dir nulla, ed ella non fece parola, ma con gli occhi lo interrogava. Paolo era andato in qualche casa, dove gli avevano indicato che stesse il comitato rivoluzionario, e non aveva trovato che tre o quattro signori, dai quali non aveva potuto attingere altre notizie che la rivoluzione “camminava”. Si era recato al tribunale, ma lo trovò sprangato; era andato dove sentiva sparare le fucilate, e si era stupito di non vedere le truppe scendere per le vie. E se ne era andato a casa. Quando fu ora di coricarsi Paolo disse: 
- Prega Dio che questa rivolta si tramuti in vera rivoluzione, perché da essa dipenderà la tua salvezza.
Ella pensò a Corrado; gli aveva pensato sempre, ma non sapeva che era stato condannato, perché suo padre aveva taciuto, né aveva permesso che altri avesse portato la notizia a casa. Ora le parole del padre le mettevano un nuovo spavento che la faceva tremare. Che c’entrava la rivoluzione con Corrado? Non era chiuso nel carcere? E non potè dormire.
Ma il dodici di gennaio subitamente rinacquero e rifiorirono le speranze, quando s’udirono lontane le fucilate, e le campane sonare a stormo, e poi rullare le cannonate e frullare  le bombe. Allora un’agitazione incredibile percorse tutto il carcere, gli animi dei carcerati fremevano, le mani si aggrappavano ai ferri delle finestre, e dietro le mani si vedevano i volti ansiosi con gli occhi ardenti, a spiare nel vasto piano dell’Ucciardone se comparivano gli insorti. Così trascorsero tutto il giorno; la notte non dormirono, ma il tredici quando s’aspettavano di esser chiamati, una voce gridò: 
- Aprite! Aprite! 

Luigi Natoli: Chi l'uccise? Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1848. 
Pagine 122 - Prezzo di copertina € 13,50. 
Copertina e illustrazioni di Niccolò Pizzorno


 Chi l'uccise? Fa parte anche del volume che raccoglie la "Trilogia del Risorgimento", ovvero i tre romanzi storici dell'autore a sfondo risorgimentale. 
Braccio di Ferro, avventure di un carbonaro: Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo e nella rivoluzione del 1820
I morti tornano... Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1837 devastata dal Cholera
Chi l'uccise? Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1848
Copertina e illustrazioni di Niccolò Pizzorno.
Pagine 881 - Prezzo di copertina € 24,00
Entrambi i volumi sono disponibili dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (spedizioni in tutta Italia a mezzo corriere). Si può prenotare alla mail ibuonicugini@libero.it o con messaggio whatsapp al 3894697296.
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La Nuova Bancarella (Via Cavour di fronte La Feltrinelli)
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Luigi Natoli: L' alba del 12 gennaio 1848. Tratto da: Storia di Sicilia

 
All’alba del 12 poca gente disarmata uscì curiosa per le strade; un certo Vincenzo Buscemi, vedendosi il solo armato, credette ad un tradimento, e tirò la prima fucilata. 
Sopraggiunsero altri nella piazza della Fieravecchia e fra essi Giuseppe La Masa armato, venuto da due giorni nascostamente da Firenze, che cominciò ad esortare i convenuti. Giovane, di bell’aspetto, con una pronuncia toscaneggiante, ignoto a tutti, fu creduto uno dei capi venuto dal Continente. Allora il giovane avvocato Paolo Paternostro, salì sulla fontana che orna la piazza, ed arringò la folla che si veniva facendo. Si gridò Viva Pio IX! Viva l’Italia! Viva la Sicilia!  Il La Masa scrisse un breve proclama, in nome di un Comitato provvisorio della Piazza d’armi della Fieravecchia, e improvvisò una bandiera legando un cencio bianco uno rosso e uno verde a una canna. Ma Santa Astorina, moglie di Pasquale Miloro, uno degli accorsi, portò una bandiera e coccarde tricolori preparate dal marito nella notte. Si cominciarono a sonare le campane a stormo. Gli insorti erano qualche centinaio e si divisero a squadre; avvenne uno scontro contro la cavalleria, e vi trovò la morte Pietro Omodei, il primo cittadino caduto. Se il Comando non avesse ritirato le truppe, avrebbe potuto troncare i pochi insorti, ma memore del 1820, forse temendo imboscate, non osò prendere una vigorosa offensiva, e segnò la sua condanna. 
Un vero Comitato provvisorio della Piazza d’Armi, fu costituito in piazza Fieravecchia coi nomi del La Masa, di Giuseppe Oddo-Barone, barone Bivona, di Tommaso Santoro, di Salvatore Porcelli, di Damiano Lo Cascio, di Sebastiano Corteggiani, di Giulio Ascanio Enea, di Mario Palizzolo, di Pasquale Bruno, dei tre fratelli Cianciolo, di Giacinto Carini, di Rosario Bagnasco, di Leonardo Di Carlo, del principe di Villafiorita, di Giovanni Faija, di Rosolino Pilo, dei fratelli d’Ondes; ai quali poi si aggiunsero Salvatore Castiglia, Filippo Napoli, Ignazio Calona, Vincenzo Fuxa, il principe di Grammonte e qualche altro. 
Il giorno dopo cominciarono ad arrivare le squadre dei dintorni, e si ripresero i combattimenti per espugnare i Commissariati e i posti avanzati, come quelli delle Finanze e della vicina gendarmeria. Intanto, essendo necessario provvedere ai bisogni della città e della rivoluzione, fu convocata, dal pretore marchese di Spedalotto, la municipalità con l’intervento dei membri del Comitato della Fieravecchia e di altri cittadini, e si convenne la costituzione di un grande Comitato, diviso in quattro Comitati minori, uno per la guerra e la sicurezza, presieduto dal Principe di Pantelleria, il secondo per l’annona, presieduto dal Pretore, il terzo per raccogliere le somme, presieduto dal marchese di Rudinì, il quarto per le notizie, la stampa, la propaganda, presieduto da Ruggero Settimo, il quale fu posto anche a capo del Comitato generale, con Mariano Stabile segretario. Si istituirono inoltre ospedali pei feriti nella Casa Professa dei Gesuiti e nei conventi di S. Domenico e Sant’Anna; il fiore dei medici offerse l’opera sua, gratuitamente. Due Commissioni, delle quali una di donne, attesero alla beneficenza. 
Le truppe regie, al comando del maresciallo Vial, sommavano a cinquemila uomini. 
Il 15 intanto, su otto legni da guerra, giungevano altri cinquemila e più uomini sotto gli ordini del conte d’Aquila, fratello del Re, e del maresciallo De Sauget, che sbarcati al Molo cercarono di spingere collegamenti col Palazzo reale, ma ne furono impediti dagli insorti. Né altri tentativi, sebbene appoggiati dal bombardamento e dalle artiglierie, ebbero miglior fortuna. Le bombe recavano danni anche agli edifici privati; il 17 una di esse fece divampare un incendio nel Monte di Pietà di S. Rosalia, consumando i pegni della povera gente per oltre mezzo milione di nostre lire: onde i Consoli esteri, che avevano cercato invano di parlare col Luogotenente Generale a rischio della vita, protestarono con pubblico documento. 
Intanto gl’insorti si erano impadroniti di alcuni Commissariati, e immobilizzavano le truppe del conte d’Aquila, che lasciato il comando al Di Sauget, se ne tornava a Napoli per riferire. Il 18, il generale Di Maio invitava il Pretore, marchese di Spedalotto, ad un abboccamento per evitare ulteriore spargimento di sangue. Il Pretore rispondeva sdegnosamente: “La città bombardata da due giorni, incendiata in un luogo che interessa la povera gente, io assalito a fucilate dai soldati, mentre col console d’Austria, scortato da una bandiera parlamentare mi ritiravo, i Consoli esteri ricevuti a colpi di fucile quando, preceduti da due bandiere bianche si dirigevano al Palazzo Reale, monaci inermi assassinati nel loro convento dai soldati, mentre il popolo rispetta, nutre e guarda da fratelli tutti i soldati presi prigionieri, questo è lo stato attuale del paese. Un Comitato Generale di pubblica difesa esiste; V.E. se vuole, potrà dirigere allo stesso le sue proposizioni”.
Di nuovo il 19 il Di Maio scriveva al Pretore, domandando quali fossero i desideri del popolo, che egli avrebbe subito fatto conoscere al Re, interessandolo frattanto a una sospensione d’armi. Il Pretore, trasmessa la lettera al Comitato e avutane risposta, la comunicava esprimendo essa l’universale pensiero: “Il popolo coraggiosamente insorto non poserà le armi, e non sospenderà le ostilità, se non quando la Sicilia, riunita in general Parlamento in Palermo, adatterà ai tempi quella sua Costituzione che, giurata dai suoi Re, riconosciuta da tutte le Potenze, non si è mai osato di togliere apertamente a questa Isola. Senza di ciò qualunque trattativa è inutile”. Ancora il Luogotenente Generale spediva al Pretore quattro decreti del re Ferdinando in data 18: il Re nominava il conte d’Aquila luogotenente generale, istituiva un Consiglio di Ministri, e richiamava in vigore i decreti del dicembre 1816. Ma i decreti erano respinti, e respinte le proposte del generale De Sauget, al quale si rispondeva che era ben noto il senso delle disposizioni date dal Re, che il popolo “con la sua sublime logica” aveva “inappellabilmente giudicate”. Si ripresero con maggior vigore i combattimenti. Il Comando Generale senza viveri, senza ospedali, senza mezzi, chiuso nella piazza del Palazzo, si vide costretto ad abbandonare la città e mettere in salvo le truppe. E nella notte del 26 il Di Maio, il comandante generale Vial e gli altri generali, precedendo le truppe, fuggirono per imbarcarsi nelle spiagge orientali. Nella marcia le truppe si vendicarono della sconfitta incendiando villaggi e assassinando; ma inseguite dai contadini, la marcia si mutò in fuga. 
Ma prima di andarsene, il Governo borbonico apriva le porte delle carceri e riempiva la città di migliaia di malfattori. 
Fra il cadere di gennaio e i primi del febbraio seguente, tutta la Sicilia seguiva il moto di Palermo, e dava mirabile spettacolo di unione, di affratellamento. La nuova coscienza aveva cancellato perfino il ricordo delle antiche gelosie e rivalità. 
In Napoli i liberali, il 27 gennaio, quando seppero trionfante Palermo, cominciarono con dimostrazioni a domandare la Costituzione; e Ferdinando, per paura che anche Napoli insorgesse, si affrettò il 29 a pubblicare il decreto che la prometteva e ne fissava i principî fondamentali. Spedì questo decreto a Palermo, ma il Comitato con dignitoso linguaggio lo respinse...

Luigi Natoli: Storia di Sicilia (dalla preistoria al fascismo). Il volume è la fedele trascrizione dell'opera originale pubblicata dall'autore con la casa editrice Ciuni nel 1935
Pagine 506 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (spedizioni in tutta Italia a mezzo corriere). Si può prenotare alla mail ibuonicugini@libero.it o con messaggio whatsapp al 3894697296.
On line su Amazon e Ibs
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133 - Palermo)
La Nuova Bancarella (Via Cavour di fronte La Feltrinelli)
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Luigi Natoli: Ultimi avvertimenti al tiranno... Tratto da: Storia di Sicilia

 
Il mese di gennaio 1848 entrava carico di foschi presentimenti; le agitazioni crescevano, le stampe rivoluzionarie si moltiplicavano; le spie riferivano al Prefetto di polizia che pel giorno 12 tutti sarebbero usciti con coccarde tricolori. Il luogotenente generale Di Maio chiudeva l’Università, rimandando nei paesi natali gli studenti. Ma la mattina del 9 apparvero sui muri, e furon distribuiti e spediti in gran numero nella provincia, foglietti a stampa che contenevano questo memorabile proclama: 

“Siciliani, il tempo delle preghiere inutilmente passò. Inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni, Ferdinando tutto ha spezzato; e noi, popolo nato libero, ridotto fra le catene nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i legittimi diritti? – Alle armi, figli della Sicilia! la forza di tutti è onnipotente: l’unirsi dei popoli è la caduta dei re. – Il giorno 12 gennaio 1848 segnerà l’epopea gloriosa della universale rigenerazione. Palermo accoglierà con trasporto quei Siciliani armati che si presenteranno al sostegno della causa comune, a stabilire riforme e istituzioni conformi al progresso del secolo, volute dall’Europa, dall’Italia, da Pio. – Unione, ordine, subordinazione ai capi, rispetto a tutte le autorità e che il furto si dichiari tradimento alla causa della patria, e come tale sia punito. – Chi sarà mancante di mezzi sarà provveduto. – Con giusti principi, il cielo seconderà la giustissima impresa. – Siciliani, alle armi!” 

Questa sfida, che si credette lanciata da un Comitato e stampata dal tipografo Giliberti, era stata ideata e scritta da Francesco Bagnasco, causidico, di sua iniziativa. 
Lo stesso giorno si diffondeva un Ultimo avvertimento al tiranno, e con termini energici si invitavano i Siciliani alle armi, pel 12 gennaio. Il Luogotenente Generale allora si scosse, e ordinò arresti; la notte stessa del 9 la polizia arrestò e fece chiudere nel Castello undici cittadini, tra i quali erano Francesco Ferrara, Francesco Paolo Perez ed Emerico Amari. Egli credeva avere posto le mani sui capi; ma a disingannarlo, il domani 10 apparve una dichiarazione firmata da un Comitato direttore che confermando la sfida, dava istruzioni alle squadre cittadine e delle campagne, prometteva capi ed armi, e metteva in guardia i cittadini contro le manovre della polizia. 

Luigi Natoli: Storia di Sicilia (dalla preistoria al fascismo). L'opera è la fedele riproduzione del volume originale pubblicato dall'autore con la casa editrice Ciuni nel 1935
Pagine 506 - Prezzo di copertina € 24,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (spedizioni in tutta Italia a mezzo corriere). Si può prenotare alla mail ibuonicugini@libero.it o con messaggio whatsapp al 3894697296.
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Luigi Natoli: Spiriti repubblicani nella Rivoluzione siciliana del 1848. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860

 
Gli storici siciliani della rivoluzione del 1848, mossi da non so quale paura, più della parola che della cosa, o non parlano o diminuiscono l’importanza delle manifestazioni repubblicane, che non vi mancarono, negando perfino l’esistenza di un partito repubblicano, pel solo fatto che esso era scarsamente rappresentato in Parlamento. E ciò, non ostante che più volte uomini di parte repubblicana, per la loro tutorità, fossero stati chiamati al governo.
Che un partito organizzato come lo intendiamo oggi non ci fosse, è vero: ma non è da maravigliarsene. Nel ‘48 le Camere non rappresentavano divisioni nette di partiti; v’erano certamente i più temperati a destra, e v’erano i più accesi a sinistra; ma poiché si era, e si fu, per tutti i sedici mesi in un periodo rivoluzionario, col nemico ai fianchi, e con la necessità impellente di costituirsi e assicurarsi l’indipendenza, il comune interesse offriva un terreno nel quale le frazioni del Parlamento, anche senza preventivi accordi, si intendevano e procedevano insieme, superando le divergenze programmatiche. Così si spiega come nel primo periodo il piccolo gruppo repubblicano, senza per questo rinunciare ai suoi principii, concorresse con uomini suoi alla composizione del Ministero, accanto a uomini di parte moderata; e come dall’altro lato i più inclini alla monarchia riconoscessero il contributo morale che questi repubblicani portavano al Governo. 
L’odio accumulato per trentatre anni, aveva spezzato ogni legame coi Borboni: la stessa nobiltà, che per tradizioni è sempre legata al trono, si era staccata da essi; eccetto pochi, che, per altro, non erano disposti a farsi massacrare per Ferdinando e Maria Teresa, come i cavalieri brettoni per Maria Antonietta. I monarchici puri, quelli cioè che consideravano la monarchia con anima religiosa eran pochi; molti quelli che l’accettavano come una necessità; i più, perchè era nella tradizione o per poltroneria spirituale. 
I repubblicani al Parlamento erano un piccolo gruppo, ma di prim’ordine; fuori del Parlamento erano più numerosi che non si creda. Michele Amari lo storico, Giuseppe La Farina, Francesco Crispi, Vincenzo Errante, Giuseppe La Masa, Pasquale Calvi, Michele Bertolami, Giovanni Interdonato, Angelo Marrocco, Saverio Friscia e pochi altri alla Camera dei Comuni; e accanto a essi i simpatizzanti, come Paolo Paternostro, Francesco Ferrara, Gabriele Carnazza e altri più o meno, che sedevano a sinistra; fuori del Parlamento, Gabriele Dara, Carlo Papa, Pietro d’Alessandro, Rosolino Pilo, Francesco Milo-Guggino, Giorgio Tamaio, Rosario Bagnasco, Giuseppe Vergara-Craco, Carlo F. Bonaccorsi, Paolo Morello, Giovanni Corrao, Giuseppe Benigno, Giuseppe Badia, poeti, scrittori, giornalisti, combattenti, e una folla di ignoti, che non mancava di manifestare i suoi sentimenti in foglietti anonimi, in poesiole. Ma più nei giornali. Tra il 1848 e il 1849 se ne pubblicarono sette od otto di principî repubblicani, alcuni vissero come le rose, un mattino; qualche altro tirò più a lungo; maggior durata ebbe l’Apostolato di Francesco Crispi, che fu anche il più serio, e uno dei migliori che si pubblicassero in Palermo; degli altri ricordiamo la Propaganda, la Democrazia, la Repubblica, la Sentinella del popolo. Non citiamo la Giovane Sicilia, i cui ardori repubblicani erano di assai dubbia purezza, perché fondata e diretta da un tal Salvatore Abbate e Migliore, che al 1849 si rivelò triste arnese del Borbone, e forse incitava a repubblica per provocare disordini. 
Ma i repubblicani non scrivevano soltanto nei giornali di lor parte; essi trovavano accoglienza – senza riserve – anche in altri giornali. L’Indipendenza e la Lega di Francesco Ferrara, il miglior giornale della Sicilia e uno dei migliori che vedessero la luce in Italia in quei tempi, era preferito dagli scrittori repubblicani. Uno dei redattori più assidui era C. F. Bonaccorsi, amico del Mazzini, da lui conosciuto a Londra, e che avremo occasione di citare più innanzi. 
Gl’inni stessi, esaltatori di vittoria o incitatori alla guerra, non si sottraggono a questo sentimento: uno di essi, che io fanciullo sentivo ancora canticchiare da qualche vecchio del ‘48, aveva questa strofe, la sola che io ricordi: 

Dall’Alpi allo Stretto
s’innalzi una voce;
si pianti la croce
sul trono dei re!

Gabriele Dara, che, come dissi, era il Berchet della Sicilia, nei segreti convegni dei giovani leggeva le sue ardenti poesie, che, ricopiate si diffondevan celatamente. Nel 1847 in un’ode a Pio IX poetava:
Quest’unico patto tra’popoli e i re: 

“Secura non fia d’Italia la sorte 
se il seme perverso distrutto non è;
In un’altra ode all’Italia:
Esulta! Si appressa... sonata è quell’ora 
l’estremo momento dei Regi sono!
ed evocando il Genio di Roma aggiungeva:
Sull’Etna e sull’Alpe posate le piante 
dal crin la corona ritoglie ai suoi re,
e in fascio raccolte le insegne fatali 
le frange, e sdegnoso le calca col piè...



Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
Pagine 525 - Prezzo di copertina € 24,00
Il volume raccoglie gli scritti più importanti dell'autore sul Risorgimento, nelle versioni originali ovvero:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)  
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927) 
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (spedizioni in tutta Italia a mezzo corriere). Si può prenotare alla mail ibuonicugini@libero.it o con messaggio whatsapp al 3894697296.
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Luigi Natoli: Il 12 gennaio 1848 e quel che dissero i giornali e i giornalisti dell'epoca... Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane dal 1848 al 1860.

Il 12 gennaio 1848, dopo l’audace sfida che rompeva gli indugi, Palermo insorse. Combattè per ventiquattro giorni, espugnando a una a una tutte le posizioni delle truppe regie, e respingendo i rinforzi venuti da Napoli col conte d’Aquila e il generale de Sauget. Ma Napoli non si mosse, non incoraggiò nè soccorse il fiacco moto di Salerno; non seppe o non potè; o non volle compromettersi. Onde a ragione, più tardi, scoppiato il dissidio, la Indipendenza e la Lega di Palermo, il più autorevole dei giornali dell’isola, e uno dei migliori d’Italia, difendendo l’italianità della rivoluzione, rimproverava amaramente i patrioti napoletani: “...Chi si oppose ai primi moti della Sicilia? un’armata napoletana. Chi si stette a guardar la lotta che noi sostenevamo? Una popolazione napoletana. Chi ci abbandonava sull’orlo dell’abisso? Chi ascoltava freddamente i ragguagli della carneficina che qui si faceva? I liberali, i cospiratori di Napoli. Chi lasciò partire da Napoli un rinforzo che, se non era il nostro disperato coraggio, avrebbe ruinato in eterno, non diremo la nostra sorte, ma la causa comune d’Italia, la causa dell’umanità? Sempre i liberali, i cospiratori di Napoli...”(39).
V’era certo dell’esagerazione in queste querele, perché non si teneva conto della diversa condizione in cui si trovava Napoli: ma è certo che se le dimostrazioni napoletane fossero state promosse più presto, e se la sommossa di Salerno, dove era stato spedito Costabile Carducci, avesse preceduto la spedizione del Conte d’Aquila, la avrebbe impedita o ritardata. E non è meno certo che se Palermo fosse stata domata all’arrivo dei rinforzi regi, l’assolutismo borbonico si sarebbe consolidato e avrebbe avuto un effetto deleterio, come l’ebbe più tardi, sulle sorti d’Italia. E a questo gli storici non han posto mente; non hanno, per cecità, veduto di quale enorme peso e di quale responsabilità si caricava Palermo. Dalla sua vittoria dipendeva o il trionfo della libertà o il ribadimento della servitù. 
Ma torniamo a noi. Le dimostrazioni cominciarono a Napoli il 27 di gennaio, quando già si sapeva vittoriosa Palermo. Il conte d’Aquila, battuto dagli insorti, era ritornato a Napoli il 18, a portar notizia delle tristi condizioni dei regi; i generali Vial e De Maio, con le truppe eran fuggiti il 25. È utile tener d’occhio le date. 
Ferdinando cedette subito alle dimostrazioni: udito un consiglio di generali, dimesso il ministero Pietracatella, chiamò al potere il duca di Serracapriola; il 30 nominò ministro dell’interno il Bozzelli, la nomina del quale, agli occhi di coloro che non conoscevano ancora l’uomo, parve a tutti i liberali di qua e di là dal Faro arra sicura di componimento pacifico della quistione siciliana. Ma il re lo conobbe subito. L’orgoglio smisurato, l’autoritarismo, l’ambizione smodata di dominare, lo scetticismo dell’uomo glielo fecero giudicare lo strumento adatto per distruggere la rivoluzione stessa.
Il 29 Ferdinando con un atto sovrano prometteva la Costituzione e ne fissava i capisaldi, esprimendosi però come se in Sicilia non fosse scoppiata nessuna rivoluzione con un fine determinato. Napoli tutta fu presa da un delirio di gioia; fra gli evviva al re, a Pio IX, alla Costituzione, si gridò anche: Viva Palermo! sincera manifestazione di gratitudine verso la città, al cui ardimento e al cui sangue Napoli doveva, senza aver nulla arrischiato, la conquista della libertà politica. E non soltanto a Napoli si gridava Viva Palermo: a Firenze, a Milano, a Genova, a Torino questa rivoluzione era salutata con entusiasmo come l’inizio del riscatto nazionale: Mazzini scriveva la lettera famosa, che comincia “Siciliani, voi siete grandi!”(40), Ludovico di Baviera un’ode(41); Lamartine e poi Thiers la salutavano dalla tribuna parlamentare. A Firenze, il 3 febbraio la cittadinanza più eletta dava agli esuli siciliani e napoletani un banchetto di duecentocinquanta coperti, in quattro sale del Casino; le tavole erano presiedute da Giuliano Ricci, dal marchese Arconati, da Atto Vannucci, dall’abate Milanesi, da Pietro Thouar, dall’avv. Federico Pescantini e qualche altro: dei Siciliani v’erano La Farina, Raffaele Busacca, Paolo Morello, Paolo Emiliani Giudici, dei napoletani Carlo Poerio, Giuseppe Massari; taccio dei minori. Se mi fermo su questo banchetto, gli è per quello che vi si disse. Vi furono infatti dei discorsi e dei brindisi, ai quali risposero il La Farina, il Busacca e Paolo Morello. Quello del La Farina veemente contro le crudeltà del governo borbonico, chiudeva con queste parole: “Oramai non formiamo che unica famiglia, siam tutti fratelli... fratelli e Italiani col battesimo di sangue e di fuoco! Tutti Italiani, legati ad unico patto, stretti sotto ad unica bandiera, sotto questa bandiera santa, desiderio, conforto, speranza di quelli che son caduti per la causa della libertà e della indipendenza italiana! E noi combatteremo sotto essa e vinceremo al grido concorde di Viva l’Italia! viva l’indipendenza e la libertà italiana!”.
E col grido di Viva la nazionalità dell’Italia libera conchiudeva il Busacca il suo discorso...

Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
Pagine 525 - Prezzo di copertina € 24,00
Il volume raccoglie gli scritti più importanti dell'autore sul Risorgimento, nelle versioni originali ovvero:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)  
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927) 

Copertina di Niccolò Pizzorno. 

Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (spedizioni in tutta Italia a mezzo corriere). Si può prenotare alla mail ibuonicugini@libero.it o con messaggio whatsapp al 3894697296.
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