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venerdì 26 gennaio 2018

Luigi Natoli: 18 aprile 1860, la strage di Carini ad opera delle milizie regie. - Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860.


Le squadre di Carini, di Cinisi, dei Colli, dopo i com­battimenti di San Lorenzo si erano ritirate sull’Inserra; quella di Partinico unitasi con quella d’Alcamo, errava sui monti sopra Monreale; quella di Piana, dopo gli scontri sostenuti, si era ritirata a Piana per rinforzarsi, ed ivi infatti era stata raggiunta dalla squadra di Cor­leone e da molti animosi dei comuni vicini; coi quali, ripresa l’offensiva, sollevati Misilmeri e Belmonte aveva rioccupato il convento di Gibilrossa.
Contro queste squadriglie, che formavano un semi­cerchio intorno alla città, molestando continuamente gli avamposti e le pattuglie e i piccoli distaccamenti, il governo dell’isola, sollecitato da quello di Napoli e più propriamente dal re, spedì alcune forti colonne mobili. Al generale Cataldo fu assegnato il compito di slog­giare gl’insorti da Gibilrossa, occupare Villabate, Misil­meri, Marineo, spingersi sopra Piana dei Greci, S. Giu­seppe delle Mortelle e fermarsi a Partinico. Al maggiore Bosco e al maggiore Morgante, era dato incarico di osteggiare le squadriglie tra Monreale e Boccadifalco; mentre altra colonna sotto gli ordini del tenente colon­nello Torrebruna doveva spazzare le campagne dei Colli, fino a Carini. La colonna Cataldo si mosse l’11 di aprile; ma senza mai venire a una vera e propria fa­zione. Si capì che la tattica delle squadre, era di non farsi raggiungere mai dalle regie truppe, a solo fine di stancarle, protrarre l’agitazione, e ritardare... il ristabi­limento dell’ordine”. Per il che, a troncar una guerra faticosa e senza risultati, il re di Napoli mandava segrete istruzioni per la distruzione delle bande, con la forza da una parte, con gli indulti e spargendo la diffidenza e il tradimento, dall’altra.
Il comando militare, quindi, concertata un’azione si­multanea delle varie colonne mobili, diede ordini di as­salire gli insorti, che, indietreggiando dinanzi al sover­chiare dei regi, si concentravano a Carini. La colonna Cataldo movendo da Partinico, quella del Bosco per Torretta e Montelepre, quella del Torrebruna, rinforzata da altre milizie per la via di Capaci dovevano prendere in un cerchio le squadre. Il 18 infatti gli insorti sono assaliti; si combatte accanitamente per parecchie ore tra forze ineguali: Carini vien presa dai regi del Cataldo, che si abbandonano al saccheggio e alla carneficina. Ma il movimento aggirante, per imperizia del Torrebruna, e per non essere arrivata in tempo un’altra colonna col tenente colonnello Perrone, non riesce: gl’insorti giun­gono ad aprirsi un varco e a ritirarsi sulle montagne, sebbene fulminati dai borbonici. Gl’incendi, le stragi di Carini indegnarono anche il re, che censurò vivamente la indisciplinatezza e la barbarie delle truppe; segnarono un altro debito verso la vendetta popolare.
Dopo la presa di Carini, i comuni dei dintorni di Palermo ritornarono all’obbedienza; e la più parte de­gli uomini delle squadre, disanimati da una guerra senza speranza di vittoria, non vedendo giungere gli aiuti che erano stati promessi, non sorretti dalla fede nell’idea dell’unità che essi non capivano, adescati dal­l’indulto, gittavan le armi e ritornavano sottomessi nelle loro case. La causa della rivoluzione pareva perduta; quando il 20, Rosolino Pilo e Giovanni Corrao giunge­vano a Piana dei Greci, e con le rinate speranze riac­cendevano il fuoco, non ancor domo. Pietro Piediscalzi, infaticabile, ardente, si unì tosto con loro e ricostituì la squadra, che poi tenne, fino alla morte, ai suoi ordini, pagandola del suo.
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 24,00
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venerdì 12 gennaio 2018

Luigi Natoli: 1848-2018. Il 12 gennaio 1848. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


All’alba del 12 poca gente disarmata uscì curiosa per le strade; un certo Vincenzo Buscemi, vedendosi il solo armato, credette ad un tradimento, e tirò la prima fucilata. 
Sopraggiunsero altri nella piazza della Fieravecchia e fra essi Giuseppe La Masa armato, venuto da due giorni nascostamente da Firenze, che cominciò ad esortare i convenuti. Giovane, di bell’aspetto, con una pronuncia toscaneggiante, ignoto a tutti, fu creduto uno dei capi venuto dal Continente. Allora il giovane avvocato Paolo Paternostro, salì sulla fontana che orna la piazza, ed arringò la folla che si veniva facendo. Si gridò Viva Pio IX! Viva l’Italia! Viva la Sicilia!  Il La Masa scrisse un breve proclama, in nome di un Comitato provvisorio della Piazza d’armi della Fieravecchia, e improvvisò una bandiera legando un cencio bianco uno rosso e uno verde a una canna. Ma Santa Astorina, moglie di Pasquale Miloro, uno degli accorsi, portò una bandiera e coccarde tricolori preparate dal marito nella notte. Si cominciarono a sonare le campane a stormo. Gli insorti erano qualche centinaio e si divisero a squadre; avvenne uno scontro contro la cavalleria, e vi trovò la morte Pietro Omodei, il primo cittadino caduto. Se il Comando non avesse ritirato le truppe, avrebbe potuto troncare i pochi insorti, ma memore del 1820, forse temendo imboscate, non osò prendere una vigorosa offensiva, e segnò la sua condanna. 
Un vero Comitato provvisorio della Piazza d’Armi, fu costituito in piazza Fieravecchia coi nomi del La Masa, di Giuseppe Oddo-Barone, barone Bivona, di Tommaso Santoro, di Salvatore Porcelli, di Damiano Lo Cascio, di Sebastiano Corteggiani, di Giulio Ascanio Enea, di Mario Palizzolo, di Pasquale Bruno, dei tre fratelli Cianciolo, di Giacinto Carini, di Rosario Bagnasco, di Leonardo Di Carlo, del principe di Villafiorita, di Giovanni Faija, di Rosolino Pilo, dei fratelli d’Ondes; ai quali poi si aggiunsero Salvatore Castiglia, Filippo Napoli, Ignazio Calona, Vincenzo Fuxa, il principe di Grammonte e qualche altro. 
Il giorno dopo cominciarono ad arrivare le squadre dei dintorni, e si ripresero i combattimenti per espugnare i Commissariati e i posti avanzati, come quelli delle Finanze e della vicina gendarmeria. Intanto, essendo necessario provvedere ai bisogni della città e della rivoluzione, fu convocata, dal pretore marchese di Spedalotto, la municipalità con l’intervento dei membri del Comitato della Fieravecchia e di altri cittadini, e si convenne la costituzione di un grande Comitato, diviso in quattro Comitati minori, uno per la guerra e la sicurezza, presieduto dal Principe di Pantelleria, il secondo per l’annona, presieduto dal Pretore, il terzo per raccogliere le somme, presieduto dal marchese di Rudinì, il quarto per le notizie, la stampa, la propaganda, presieduto da Ruggero Settimo, il quale fu posto anche a capo del Comitato generale, con Mariano Stabile segretario. Si istituirono inoltre ospedali pei feriti nella Casa Professa dei Gesuiti e nei conventi di S. Domenico e Sant’Anna; il fiore dei medici offerse l’opera sua, gratuitamente. Due Commissioni, delle quali una di donne, attesero alla beneficenza. 
Le truppe regie, al comando del maresciallo Vial, sommavano a cinquemila uomini. 
Il 15 intanto, su otto legni da guerra, giungevano altri cinquemila e più uomini sotto gli ordini del conte d’Aquila, fratello del Re, e del maresciallo De Sauget, che sbarcati al Molo cercarono di spingere  collegamenti col Palazzo reale, ma ne furono impediti dagli insorti. Né altri tentativi, sebbene appoggiati dal bombardamento e dalle artiglierie, ebbero miglior fortuna. Le bombe recavano danni anche agli edifici privati; il 17 una di esse fece divampare un incendio nel Monte di Pietà di S. Rosalia, consumando i pegni della povera gente per oltre mezzo milione di nostre lire: onde i Consoli esteri, che avevano cercato invano di parlare col Luogotenente Generale a rischio della vita, protestarono con pubblico documento. 
Intanto gl’insorti si erano impadroniti di alcuni Commissariati, e immobilizzavano le truppe del conte d’Aquila, che lasciato il comandi al Di Sauget, se ne tornava a Napoli per riferire. Il 18, il generale Di Maio invitava il Pretore, marchese di Spedalotto, ad un abboccamento per evitare ulteriore spargimento di sangue. Il Pretore rispondeva sdegnosamente: “La città bombardata da due giorni, incendiata in un luogo che interessa la povera gente, io assalito a fucilate dai soldati, mentre col console d’Austria, scortato da una bandiera parlamentare mi ritiravo, i Consoli esteri ricevuti a colpi di fucile quando, preceduti da due bandiere bianche si dirigevano al Palazzo Reale, monaci inermi assassinati nel loro convento dai soldati, mentre il popolo rispetta, nutre e guarda da fratelli tutti i soldati presi prigionieri, questo è lo stato attuale del paese. Un Comitato Generale di pubblica difesa esiste; V.E. se vuole, potrà dirigere allo stesso le sue proposizioni”.
Di nuovo il 19 il Di Maio scriveva al Pretore, domandando quali fossero i desideri del popolo, che egli avrebbe subito fatto conoscere al Re, interessandolo frattanto a una sospensione d’armi. Il Pretore, trasmessa la lettera al Comitato e avutane risposta, la comunicava esprimendo essa l’universale pensiero: “Il popolo coraggiosamente insorto non poserà le armi, e non sospenderà le ostilità, se non quando la Sicilia, riunita in general Parlamento in Palermo, adatterà ai tempi quella sua Costituzione che, giurata dai suoi Re, riconosciuta da tutte le Potenze, non si è mai osato di togliere apertamente a questa Isola. Senza di ciò qualunque trattativa è inutile”...


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 24,00
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Luigi Natoli: 1848-2018 - Il proclama che anticipò la rivoluzione. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860.


Il mese di gennaio 1848 entrava carico di foschi presentimenti; le agitazioni crescevano, le stampe rivoluzionarie si moltiplicavano; le spie riferivano al Prefetto di polizia che pel giorno 12 tutti sarebbero usciti con coccarde tricolori. Il luogotenente generale Di Maio chiudeva l’Università, rimandando nei paesi natali gli studenti. Ma la mattina del 9 apparvero sui muri, e furon distribuiti e spediti in gran numero nella provincia, foglietti a stampa che contenevano questo memorabile proclama: 

Siciliani, il tempo delle preghiere inutilmente passò. Inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni, Ferdinando tutto ha spezzato; e noi, popolo nato libero, ridotto fra le catene nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i legittimi diritti? – Alle armi, figli della Sicilia! la forza di tutti è onnipotente: l’unirsi dei popoli è la caduta dei re. – Il giorno 12 gennaio 1848 segnerà l’epopea gloriosa della universale rigenerazione. Palermo accoglierà con trasporto quei Siciliani armati che si presenteranno al sostegno della causa comune, a stabilire riforme e istituzioni conformi al progresso del secolo, volute dall’Europa, dall’Italia, da Pio. – Unione, ordine, subordinazione ai capi, rispetto a tutte le autorità e che il furto si dichiari tradimento alla causa della patria, e come tale sia punito. – Chi sarà mancante di mezzi sarà provveduto. – Con giusti principi, il cielo seconderà la giustissima impresa. – Siciliani, alle armi!” 

Questa sfida, che si credette lanciata da un Comitato e stampata dal tipografo Giliberti, era stata ideata e scritta da Francesco Bagnasco, causidico, di sua iniziativa.
Lo stesso giorno si diffondeva un Ultimo avvertimento al tiranno, e con termini energici si invitavano i Siciliani alle armi, pel 12 gennaio. Il Luogotenente Generale allora si scosse, e ordinò arresti; la notte stessa del 9 la polizia arrestò e fece chiudere nel Castello undici cittadini, tra i quali erano Francesco Ferrara, Francesco Paolo Perez ed Emerico Amari. Egli credeva avere posto le mani sui capi; ma a disingannarlo, il domani 10 apparve una dichiarazione firmata da un Comitato direttore che confermando la sfida, dava istruzioni alle squadre cittadine e delle campagne, prometteva capi ed armi, e metteva in guardia i cittadini contro le manovre della polizia.


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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Luigi Natoli: L'alba del 12 gennaio 1848... - Tratto da: Chi l'uccise? Un giallo ambientato nella Palermo del 1848.


La città lo sorprendeva; barricate nei punti più strategici, squadre, uomini e donne, bandiere dappertutto, e su questa confusione, schioppettate, cannonate, bombe, squilli di tromba, campane. Si battevano intorno alla Piazza Reale, i commissariati, il Castello. Si cercava di rompere le comunicazioni tra il Palazzo Reale e il Castello e il commissariato e la caserma dei gendarmi al Noviziato. Queste notizie Corrado raccoglieva per via; ma la vista degli uomini armati che incontrava a ogni passo, delle squadre che andavano a battersi, delle case scoperchiate dalle bombe, dei feriti che erano portati negli ospedali, tutto questo non destava nel suo cuore la vergogna di essere un estraneo al dovere verso la patria. Egli giovane, vigoroso, che avrebbe potuto essere utile, non si sentiva diminuito di fronte a quei popolani che andavano a combattere e a morire per la loro terra. Ma nel cuore di Corrado non v’era altro che Maurizia. 
Giunse a Piazza Ballarò; era fervida di gente armata, e i bottegai facevano a gara per rifocillarla. Era venuta dai paesi dei dintorni. Egli si fermò per vedere se vi fosse Concetta, dal punto in cui era l’avrebbe veduta. Aspettò. Il suo pensiero immaginava la gioia di Maurizia nel vederlo libero e di stringerla al cuore. Ma Concetta non veniva. La piazza mutava d’aspetto con le ore del giorno, ora più, ora meno; folle di armati andavano e venivano fra il continuo sonare a distesa delle campane. Ma Corrado non vi badava; s’impensieriva di non vedere Concetta. Era morta? era stata cacciata? 
Se ne tornò a casa sconsolato. 
Lo scoppio d’una bomba caduta poco distante dalla sua casa, e le grida disperate di povere donne, la mattina dopo destarono improvvisamente Corrado. Si levò in fretta e uscì per vedere che cosa fosse caduto. La bomba aveva fatto più spaventi che danni, era caduta in una stalla vuota, e un calcinaccio aveva ferito alla testa un ragazzo. Corrado se ne andò; voleva persuadersi se Concetta fosse ancora al servizio del Cantelli. Aveva scritto una lettera di fuoco, ed era risoluto di inviarla a ogni costo a Maurizia. Per via eccoti il Monforte, armato d’un fucile, con una sciaboletta al fianco...


Luigi Natoli: Chi l'uccise? Un giallo ambientato nella Palermo del 1848. 
Pagine 122 - Prezzo di copertina € 13,50
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Luigi Natoli: 1848-2018. Santa Miloro, una eroina del 1848 - Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860.


La mattina del 12 gennaio 1848, mentre scoppiavano le prime fucilate, e un pugno di giovani audaci, sfidava le truppe borboniche, fu vista una giovane donna percorrere le strade di Palermo, chiamando alle armi i neghittosi, spronando i timidi, e distribuendo coccarde tricolori. 
 Sola, armata della sua bellezza, non paventando le armi, come sicura del destino, a quella rivoluzione scop­piata con cavalleresca puntualità aggiungeva un sapore di romanzo e di poesia.
Quella donna era Santa Diliberto, che rimasta ve­dova a venti anni, di un Astorina, e passata dopo non molto, in seconde nozze con Pasquale Miloro, uno dei cospiratori, era stata messa a parte dei segreti con­vegni; uscito il Miloro lo aveva seguito, con quelle coccarde. 
Poche donne erano note come “donna Santuzza”. Ella doveva la sua notorietà a tre cose: la sua bellezza, la sua eleganza semplice ma originale, la sua bottega di guanti.
Non v'erano in Palermo guanti migliori di quelli di “donna Santa”, nè v'era chi sapesse increspare o stendere con maggior gusto la spoglia di quei graziosi ombrellini che usavano allora, simili a ninnoli. La sua fabbrica aveva venti tagliatori di guanti; le cucitrici erano un centinaio. Aveva la bottega in Via Cintori­nai, in sul principio, a destra di chi vi entra dalla via detta oggi di Vittorio Emanuele; e questa bottega era sempre affollata. Tutta la nobiltà di Palermo, ed anche quella dell'isola si serviva di guanti, ombrellini, e ven­tagli, da “donna Santa”.
Ella era alta e slanciata. I capelli bruni, copiosi, spartiti sulla fronte, raccolti intorno alle tempie e sugli orecchi, le incorniciavano il volto ovale e bianco.
Il naso piccolo, appena appena arcuato, gli occhi grandi, neri, sereni, la bocca un po' sottile, piccola, fiorita d'un tenue sorriso.
Nel portamento un'aria giunonica, consapevole, quale apparisce ancora da una fotografia di quando era nella piena maturità della vita e della bellezza impe­riosa e magnifica.
L'avevano sposata fanciulla poco men che sedicenne ad un Astorina; era rimasta vedova a venti anni, con una industria fiorente; qual folla di cospiratori, e quali tentazioni, non dovevano circondarla? quali insidie non avvilupparla? Ma donna Santa era saggia ed avveduta.
“Io, mi diceva, non avrei sposato mai un uomo che avesse potuto parere un coperchio; volevo un uomo serio, un uomo che avesse imposto rispetto; ed ecco perchè accettai la mano di Pasquale Miloro, e diventai la signora Miloro!...”. 
Ho scritto “mi diceva”. Ebbene, sì: donna Santa, il rudere di questa bellezza, la dispensatrice delle coccarde all'alba del 12 gennaio, questa unica e sola superstite del manipolo che iniziò la rivoluzione famosa, que­sta figura eroica e poetica, della giornata memoranda, che con le belle mani statuarie diffondeva il simbolo della libertà, e affrontava le fucilate; era ancor viva quando nel 1910, io la scopersi nella casetta dove viveva ritirata e silenziosa. Aveva allora novantasei anni ed era svelta; sebbene un po' curva: e malgrado le rughe e solcassero la fronte, gli occhi avevano ancora l'antico lampo; la mente era lucida, e i ricordi vivaci. Nella soli­tudine in cui viveva dimenticata, sopravissuta alla sua storia, serbava gli entusiasmi giovanili nell'animo rimas­to ancora rivoluzionario del '48.
Io andai a trovarla nella sua casetta, al numero 33 della via Volturno. Era seduta in un’ampia poltrona; e appena mi vide entrare, si alzò e mi porse le mani affabilmente. Io volevo udire dalla sua bocca l’episodio del 12 gennaio: ma prima di parlare, ella andò a prendere da un cassetto un libro, lo aprì e me lo porse. 
- Legga, legga! – mi disse. 
Il libro era la raccolta di scritture, proclami, memorie della rivoluzione, stampati nel 1848; e la pagina mostratami conteneva un cenno encomiativo di Santa Miloro, additata alla pubblica ammirazione, e riconosciuta benemerita della patria. 
- Vede chi son io? – aggiunse poco dopo, con un certo tono di orgoglio nel quale c’era anche un po’ di vanità. – Io sono stata una di coloro che liberarono la patria dalla tirannia!...


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
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Luigi Natoli: 1848-2018. Come la Sicilia e Napoli attesero all'impegno della rivoluzione... - Tratto da: Rivendicazioni.


Il 12 gennaio 1848, dopo l'audace sfida che rompeva gli indugi, Palermo insorse. Combattè per ventiquattro giorni, espugnando a una a una tutte le posizioni delle truppe regie, e respingendo i rinforzi venuti da Napoli col conte d'Aquila e il generale de Sauget. Ma Napoli non si mosse, non incoraggiò nè soccorse il fiacco moto di Salerno; non seppe o non potè; o non volle compro­mettersi. Onde a ragione, più tardi, scoppiato il dissi­dio, la Indipendenza e la Lega di Palermo, il più auto­revole dei giornali dell'isola, e uno dei migliori d'Italia, difendendo l’italianità della rivoluzione, rimproverava amaramente i patrioti napoletani: “....Chi si oppose ai primi moti della Sicilia? un'armata napoletana. Chi si stette a guardar la lotta che noi sostenevamo? Una popolazione napoletana. Chi ci abbandonava sull’orlo dell’abisso? Chi ascoltava freddamente i ragguagli della carneficina che qui si faceva? I liberali, i cospiratori di Napoli. Chi lasciò partire da Napoli un rinforzo che, se non era il nostro disperato coraggio, avrebbe ruinato in eterno, non diremo la nostra sorte, ma la causa comune d’Italia, la causa dell’umanità? Sempre i liberali, i cospiratori di Napoli...” (39).
V’era certo dell’esagerazione in queste querele, perché non si teneva conto della diversa condizione in cui si trovava Napoli: ma è certo che se le dimostrazioni napoletane fossero state promosse più presto, e se la sommossa di Salerno, dove era stato spedito Costabile Carducci, avesse preceduto la spedizione del Conte d’Aquila, la avrebbe impedita o ritardata. E non è meno certo che se Palermo fosse stata domata all’arrivo dei rinforzi regi, l’assolutismo borbonico si sarebbe consolidato e avrebbe avuto un effetto deleterio, come l’ebbe più tardi, sulle sorti d’Italia. E a questo gli storici non han posto mente; non hanno, per cecità, veduto di quale enorme peso e di quale responsabilità si caricava Palermo. Dalla sua vittoria dipendeva o il trionfo della libertà o il ribadimento della servitù. 
Ma torniamo a noi. Le dimostrazioni cominciarono a Napoli il 27 di gennaio, quando già si sapeva vittoriosa Palermo. Il conte d’Aquila, battuto dagli insorti, era ritornato a Napoli il 18, a portar notizia delle tristi condizioni dei regi; i generali Vial e De Maio, con le truppe eran fuggiti il 25. È inutile tener d’occhio le date. 
Ferdinando cedette subito alle dimostrazioni: udito un consiglio di generali, dimesso il ministero Pietracatella, chiamò al potere il duca di Serracapriola; il 30 nominò ministro dell’interno il Bozzelli, la nomina del quale, agli occhi di coloro che non conoscevano ancora l’uomo, parve a tutti i liberali di qua e di là dal Faro arra sicura di componimento pacifico della quistione sici­liana. Ma il re lo conobbe subito. L'orgoglio smisurato, l’autoritarismo, l’ambizione smodata di dominare, lo scetticismo dell'uomo glielo fecero giudicare lo stru­mento adatto per distruggere la rivoluzione stessa.
Il 29 Ferdinando con un atto sovrano prometteva la Costituzione e ne fissava i capisaldi, esprimendosi però come se in Sicilia non fosse scoppiata nessuna rivoluzione con un fine determinato. Napoli tutta fu presa da un delirio di gioia; fra gli evviva al re, a Pio IX, alla Costituzione, si gridò anche: Viva Palermo! sincera manifestazione di gratitudine verso la città, al cui ardi­mento e al cui sangue Napoli doveva, senza aver nulla arrischiato, la conquista della libertà politica. E non sol­tanto a Napoli si gridava Viva Palermo: a Firenze, a Milano, a Genova, a Torino questa rivoluzione era salu­tata con entusiasmo come l’inizio del riscatto nazio­nale: Mazzini scriveva la lettera famosa, che comincia “Siciliani, voi siete grandi!” (40), Ludovico di Baviera un'ode (41); Lamartine e poi Thiers la salutavano dalla tribuna parlamentare. A Firenze, il 3 febbraio la citta­dinanza più eletta dava agli esuli siciliani e napoletani un banchetto di duecentocinquanta coperti, in quattro sale del Casino; le tavole erano presiedute da Giuliano Ricci, dal marchese Arconati, da Atto Vannucci, dall'abate Milanesi, da Pietro Thouar, dall' avv. Federico Pescan­tini e qualche altro: dei Siciliani v'erano La Farina, Raffaele Busacca, Paolo Morello, Paolo Emiliani Giudici, dei napoletani Carlo Poerio, Giuseppe Massari; taccio dei minori. Se mi fermo su questo banchetto, gli è per quello che vi si disse. Vi furono infatti dei discorsi e dei brindisi, ai quali risposero il La Farina, il Busacca e Paolo Morello. Quello del La Farina veemente contro le crudeltà del governo borbonico, chiudeva con queste parole: “Oramai non formiamo che unica famiglia, siam tutti fratelli.... fratelli e Italiani col battesimo di sangue e di fuoco! Tutti Italiani, legati ad unico patto, stretti sotto ad unica bandiera, sotto questa bandiera santa, desiderio, conforto, speranza di quelli che son caduti per la causa della libertà e della indipendenza italiana! E noi combatteremo sotto essa e vinceremo al grido concorde di Viva l'Italia! viva l'indipendenza e la libertà italiana!”. E col grido di Viva la nazionalità dell' Italia libera conchiudeva il Busacca il suo discorso, dopo aver affer­mato i diritti imprescrittibili della Sicilia... alla fratel­lanza italiana osannò il Morello. Giuseppe Massari parlò anche lui con sentimenti liberali e italiani; e dopo aver detto che “al grido di guerra dell'eroica Sicilia, Napoli fece eco”, disse fra l'altro: “I nostri fratelli siciliani ci porgono amica la destra, noi la stringiamo al nostro cuore. L’indipendenza delle loro opinioni è sacra per noi, ma noi speriamo che essi non si separeranno da noi. Lo stretto di Messina ci separa geograficamente; ma l'affetto e il desiderio comune di essere Italiani liberi e indipendenti vincono il mare e lo spazio e ci stringono in nodi di soavissima fratellanza”.
Chiuse i discorsi l’ “Indirizzo agli esuli delle due Sicilie”, letto dall' avv. Pescantini, che cominciava col dire “Palermo, che chiameremo sempre l'Italica” e chiudeva gridando: “Viva Palermo! Vivano i popoli delle due Sicilie! Viva l'Italia intera!”. In quel ban­chetto fu proposto, e se ne aprì la sottoscrizione, di coniare una medaglia con la leggenda “A Palermo l'Italica” e di proporre ai governi piemontese, romano e toscano di apporre la stessa leggenda ai primi can­noni da fondere. E la festa si chiuse la sera alle 9 e mezzo al Teatro Nuovo, dove fra deliranti applausi fu riletto l'indirizzo del Pescantini, e un altro delle Donne Toscane alle Donne Siciliane dalla signora Isabella Rossi Gabardi, altre poesie, canti ecc. (42).
Ho, più che non dovessi, narrato questo episodio per tre ragioni; perchè è quasi, se non del tutto, ignoto; perchè mostra in qual conto era tenuta la rivoluzione siciliana; e infine per dimostrare con quali sentimenti d'italianità insorse la Sicilia, ai quali non venne meno neppure quando fu abbandonata e calunniata.


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mercoledì 10 gennaio 2018

Luigi Natoli: 1848-2018. I sonetti dei patrioti al tricolore. A Palermo si grida: Viva l'Italia! - Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860.


Che vi fosse già preparata qualche cosa pel 1841, si rileva da un sonetto dialettale di Salvatore Adelfio, uomo della piccola borghesia, patriota ardente; sonetto che comincia così:

Curaggiu, a l’armi, gioventù avvilita,
contru la tirannia curriti agnunu; 
all’armi, all’armi, libertà v’invita
lu milli ed ottucentu quarantunu! 
Risolviri si po’ la vostra vita
‘nnalzannu lu stinnardu trinu ed unu...

Il quale ultimo verso è significativo; perché non innalza la vecchia bandiera di Sicilia, che era sventolata fino agli ultimi moti, sì bene il tricolore nazionale, con aperta allusione non solo al regime costituzionale, ma anche all' unione italica. Il Governo stava in appren­sioni, e il comando generale impartiva ordini segreti per le opportune concentrazioni delle truppe in caso di sommossa (24).
Nelle adunanze segrete dei giovani, Gabriele Dara, che fu il Berchet della Sicilia, leggeva tra il 1846 e il 1847 i suoi versi infocati. In un Inno All'Italia vatici­nava la futura vittoria: 

Ma ovunque, vincente per l'Itala terra
il genio di Roma dispiega le penne....
Racchiuso nell' armi s' innalza gigante 
dal Tebro, e l'Italia ricopre colli' ali, 
sull' Etna e sull'Alpi posate le piante 
dai crin le corone ritoglie ai suoi re.... (28)

 Ai cospiratori impazienti parve giunta l’ora: e avvenne l’eroico tentativo del 1 settembre in Mes­sina e in Reggio, che se fu represso col sangue, si può considerare come il punto di partenza per passare dai propositi all'azione. Siciliani e Napoletani incomin­ciarono con le dimostrazioni. Il 22 e il 23 novembre a Napoli, il 27 a Palermo, promosse da Rosolino Pilo, venuto appositamente, per incarico del Comitato napole­tano; e se in Napoli si cominciò col gridare: Viva il re! Abbasso Sant' Angelo! Abbasso del Carretto! Viva Pio IX! in Palermo si gridò anche Viva l'Italia! (29). E non ave­vano i Siciliani a Roma, nelle dimostrazioni del novem­bre, mentre Napoletani, Toscani, Piemontesi sventola­vano le bandiere dei propri Stati, essi soli innalzato il tricolore italiano, il primo che vedessero le vie di Roma in quel tempo?


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 24,00
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Luigi Natoli: 1848-2018. I sentimenti di italianità in Sicilia nel 1846. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Simili idee cominciavano a propagarsi fra i giovani di Sicilia, sia pel fervore con cui si leggevano Dante, Alfieri, il Foscolo e le storie del Botta, e si evocavano le grandi figure dell’antica storia patria; sia per le relazioni che tra i liberali nostri si stringevano – come testimonia Rosolino Pilo in una lettera al La Masa, – “coi liberali della penisola che... abbracciavano i principi della Giovine Italia” (17). 
Si erano formati in Palermo, in Messina, in Catania, in Siracusa, come in Napoli, come altrove, dei gruppi di giovani liberali, che segretamente cospiravano, e che non si estraniavano dall’Italia; attratti in quel fervido lavorio che da Parigi, da Londra, da Malta convergeva i suoi sforzi sull’Italia: e la Sicilia fin da quei tempi era designata come la terra donde doveva partirsi la rivoluzione, non siciliana, ma italiana. 
Giungeva anche qui la voce di Giuseppe Mazzini con le copie della Giovane Italia; e si trascriveva la sua lettera ai siciliani, sprone, ammonimento e invito; ma non creava un partito rigidamente unitario: fomentava sì il sentimento nazionale; ma i nostri lo armonizzavano con la loro storia: e la loro storia si compendiava in una parola: indipendenza. E però la formola politica che si maturava negli animi era quella suggerita da Michele Palmieri fin dal 1830 (18) una confederazione di liberi stati italiani della quale la Sicilia avrebbe fatto parte come stato, non come provincia. Su questo principio nel 1838 Michele Amari scriveva, e Francesco Brisolese stampava alla macchia, onde ebbe a patirne prigionia, il Catechismo Siciliano; nel quale si può leggere questo periodo: “Grande e bello è il pensiero della unione di tutta l’Italia in uno Stato che sarebbe possentissimo quanto altro al mondo. Felici si vedrebbero ora gli Italiani, se, sin da 8 secoli, in qua delle Alpi non vi fosse stato che un impero. Ma come l’Italia da secoli è divisa in tanti piccoli stati...: impossibile la unione di tutte le provincie italiane...”. E perciò i rapporti che convenivano erano quelli della Federazione, nella quale “lietissima” la Sicilia sarebbe rientrata (19). 
Le quali idee ribadiva nel 1846, pubblicando l’allora inedito Saggio storico sulla Costituzione del Regno di Sicilia di Niccolò Palmieri: nella prefazione al quale egli segnava quale, praticamente, doveva allora essere la soluzione del problema italiano, cui era connesso quello siciliano. 
Comunque, si cospirava in Sicilia non più isolatamente; e tracce di questo lavoro di cospirazione e delle pratiche segrete che correvano fra la Sicilia e il continente si possono trovare spigolando gli epistolari, e attraverso le carte degli Archivi di Stato. Quelle dell’Archivio di Palermo rivelano la costante paura del governo, che sapeva, e ne metteva sull’avviso le autorità dell’isola, quel che Nicola Fabrizi, esule da Modena, faceva a Corfù – dove era allora; – segnalava i suoi sospetti su cantanti e viaggiatori che venivano dal continente, e che si supponevano agenti rivoluzionari; avvertiva la venuta di emissari della Giovine Italia; e delle intese e scambi fra i rivoluzionari di Francia con quelli di Spagna, e le relazioni fra questi e i Siciliani e gli esuli di Malta; e di una Rivista Straniera, della quale Palermo doveva essere uno dei centri di distribuzione. In una lettera dell’8 febbraio 1838 diretta da Valenza a Nicola Fabrizi in Corfù, e formata da Enrico Cialdini, Manfredo Fanti e Nicola Arduino, essi speravano prossima una sollevazione dell’isola, dove il “foco” era “coperto di cenere ma non spento”. E qui, col pretesto di farlo curare d’una ferita, si proponevano di far venire il Castelli, per “l’utilità che se ne poteva avere” (20). Anzi si pensava ad una spedizione armata, adoperandovi i valorosi Italiani che avevano combattuto in Spagna, a ciò dando agevolezza la corrispondenza fra Siciliani e Spagnoli. Di questi propositi che agitavano gli esuli, e della corrispondenza il governo napoletano era avvertito, forse, come si disse, da leggerezze del Pacchiarotti (21).  



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lunedì 8 gennaio 2018

Luigi Natoli: 1848-2018: La Sicilia non fu mai una dipendenza da Napoli... Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


La Sicilia non fu mai, come davano a intendere i napoletani, una dipendenza da Napoli: quegli storici – e anche i maggiori – che parlano di un “regno di Napoli, o peggio delle due Sicilie” innanzi al 1815, dicono uno sproposito madornale. Sino al 1282 vi fu un “regno di Sicilia con capitale Palermo”, cui erano annessi il ducato delle Puglie e il principato di Capua con Napoli; dal 1282 in poi vi furono due regni distinti, quello della Sicilia propriamente detta, e quello che si disse comunemente di Napoli e che ufficialmente quei re continuavano a chiamare regno di Sicilia. Quello di Sicilia si governava con una costituzione che temperava il potere del re e con un Parlamento che toglieva al Sovrano molte prerogative; quello di Napoli, no. Questo Parlamento, per quanto imperfetto, era il vanto e la salvaguardia del regno; anche Carlo V lo rispettò; e quando Carlo III, rendendo indipendenti dallo straniero i due regni, ne cinse le corone, non toccò l’ordinamento particolare di ognuno di essi: ebbero comune soltanto il sovrano. La Sicilia aveva propria bandiera, propria monetazione, propria armata, proprie milizie. Tollerava soltanto guarnigioni non siciliane nei castelli regi. Ebbe anche propri ambasciatori. Ferdinando III di Sicilia e IV di Napoli rispettò questo stato di cose; e se ne giovò due volte, quando, cacciato da Napoli, potè in grazia della Sicilia rimanere re. Durante la seconda dimora, sorti conflitti fra lui e il parlamento, e ricorrendo egli a violenze, che potevano compromettere la tranquillità dell’isola, necessaria agli Inglesi come base di operazioni contro Napoleone, si volle rimodernare la costituzione siciliana, modellandola, per suggerimento di lord Bentink, su quella inglese. La costituzione del 1812, che ai vecchi tre bracci sostituiva le due camere, fu il primo statuto liberale apparso in Italia. Il re giurò di osservarla. Essa riconsacrava l’indipendenza e le libere istituzioni della Sicilia. Il nuovo parlamento, sebbene insidiato, esercitò il suo ufficio, fino al 1816, quando fu prorogato, non sciolto, né abolito. Ma in quell’anno, di sorpresa avveniva un fatto nuovo: il congresso di Vienna, dove, come sarebbe stato doveroso, non fu mandato nessun rappresentante della Sicilia, riconfermava semplicemente il Borbone re delle due Sicilie, senza nulla toccare della loro costituzione; il che implicitamente riconosceva l’indipendenza e le libere istituzioni dell’isola; ma il principe di Castelcicala, rappresentante di Ferdinando, tradusse liberamente la dizione del testo francese in quest’altra: “re del Regno delle due Sicilie”; e con questa infedeltà, pagata centocinquanta mila ducati, annunciata dal R. Decreto dell’8 dicembre 1816, seguito da quello dell’11, si sopprimeva di fatto, non in diritto, la indipendenza della Sicilia; si istituiva un nuovo regno, unico, e il re prendeva titolo di Ferdinando I. Il parlamento siciliano ancora vigente non fu interpellato; la Sicilia regno indipendente, diventava di colpo “dominio di là dal Faro”. Il re dimenticava il giuramento fatto di rispettare la costituzione; dimenticava il suo discorso con cui inaugurava la sessione del parlamento, il 25 gennaio 1812, col quale non soltanto si ergeva a difensore delle istituzioni politiche della Sicilia, ma incoraggiava i Siciliani a conservare il “prezioso retaggio” e “a costo di qualunque personale pericolo” conservarlo “ai loro successori”.
I Siciliani non si acquetarono al tradimento e allo spergiuro. Cospirarono nelle Vendite Carboniche per riprendere “il prezioso retaggio, a costo di qualunque personale pericolo” come lo stesso re li aveva facultati.
In dieci anni di residenza in Sicilia, la corte l’aveva sfruttata fino all’esaurimento; la Sicilia aveva spremuto più di quanto potevano le sue risorse, per mantenere la Corte e l’esercito di emigrati napoletani e francesi spogliati di quel che possedevano; illudendosi di conservare i propri secolari diritti e di trattener seco il Sovrano. In ricompensa, da tutta questa folla di mantenuti, capitanati dai ministri Medici e Tommasi, era trattata come paese soggetto e calunniata anche in quei doni di cui le fu generosa la natura. In buona o in malafede i Napoletani, specialmente dopo il 1815, si persuasero che la Sicilia fosse una dipendenza di Napoli: e lo scrissero falsificando la storia: i siciliani da canto loro avevano per sé il diritto e un giuramento regio; avevano per sé la storia, che non l’aveva mai veduta provincia di alcun regno, né per diritto di conquista né per spontanea deliberazione; ma capo di regno o regno indipendente. Da tutto questo non poteva che scaturire un conflitto: e scoppiò nel 1820. Le due rivoluzioni di Napoli e di Palermo non potevano avere unità d’indirizzo; e giudicarle alla stessa stregua è uno sproposito. E se un errore – come vuole il Croce – fu quello dei siciliani; ingiustizia fu quella del governo napoletano di non riconoscer loro un diritto storico; delitto l’aver destato e alimentato nell’isola una guerra fratricida....
 
 
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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venerdì 5 gennaio 2018

Luigi Natoli: La Sicilia e le accuse di "preteso separatismo" del 1848. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860.


In un fascicolo della Critica, prima, nel volume sulla Storia del Regno di Napoli, dopo, parlando della rivo­luzione siciliana del 1848, Benedetto Croce scrive que­sto periodo:
“La Sicilia, invece di unirsi ai liberali del Conti­nente, ripetè il suo moto separatistico, che aveva tanto danneggiato la rivoluzione del 1820, e fu di nuovo a rischio di andar perduta per l’Italia, e mise in grande perplessità e angoscia i patrioti napoletani contrari ai Borboni, ma insieme contrari al separatismo, e perciò, in questa parte d’accordo coi Borboni, senza che potes­sero dirlo apertamente”.
L'accusa non è nuova; prima del Croce l’avevano già formulata altri, ed era passata come una verità nelle storie del risorgimento italiano, senza discussione. L’avevano nel 1848 lanciata gli stessi liberali napoletani, per mezzo dei loro giornali, principalmente il Lucifero e il Tempo venduti al governo, e dei loro rappresentanti negli stati italiani, specialmente nel Piemonte e nella Lombardia; e negli stati stranieri. Essa serviva a scagionare la politica ambigua, inetta, dinastica prima che italiana, del governo napoletano, riguardo alla causa italiana; presentando la Sicilia come chiusa in un gretto municipalismo, avversa al movimento nazio­nale, e cagion prima del mancato intervento di Napoli sui campi lombardi; perchè la necessità di riconquistare l'isola, per non rompere l’unità del Regno, obbligava il governo napoletano a impiegare a questo scopo quelle agli storici venuti di poi ripeterla, svalutando nella milizie, che, altrimenti usate in soccorso dell' esercito piemontese, avrebbero deciso delle sorti dell' Italia. La giustificazione parve legittima; gli uomini di governo, che avevano salutato con entusiasmo la rivoluzione siciliana del 12 gennaio, ingannati dalla propaganda attiva degli emissari napoletani, credettero che la Sicilia tradisse la causa dell’Italia, gridarono contro quel separatismo, assunsero un atteggiamento ostile alla Sicilia, accolsero l’accusa e pronunziarono la condanna. Nessuno volle intendere quel che gli emissari siciliani cercavano di chiarire, e che i giornali dell’isola, e la maggior parte di quelli di Roma, di Toscana, del Piemonte stesso scrivevano: nessuno si domandò che l’italianità fosse quella dei liberali napoletani, che anteponevano una quistione interna di ingiusto dominio, la quale si sarebbe potuta risolvere da una costituzione o da un congresso, alla più vasta e più vitale quistione della indipendenza nazionale dallo straniero, senza la quale era vano parlare d’Italia: nessuno si accorse, specialmente dopo il 15 maggio, quando la maschera del liberalismo cadeva dal volto di Ferdinando II, che quello del separatismo della Sicilia era un diversivo, o meglio un pretesto per non partecipare alla guerra d’indipendenza contro l’Austria, della quale Ferdinando era in Italia il maggior puntello. Parve più spiccio gittare la responsabilità dell’insuccesso sull’atteggiamento della Sicilia, sacrificandola come capro espiatorio di tutte le balordaggini e di tutte le colpe di ministri, di diplomatici, di generali e di re.
Così propagata, confermata, l’accusa parve comoda agli storici venuti di poi ripeterla, svalutando nella storia del risorgimento il nostro contributo, e scartando dai manuali scolastici come una cosa inutile quella rivoluzione che fu da Napoli a Torino salutata con entusiasmo, e suscitava l’ammirazione delle tribune parlamentari all’esterno, e perfino di un re. Che più? Abbiamo veduto testi di storia pei licei far cominciare il movimento nazionale del 1848 dalle Cinque Giornate, relegando la rivoluzione siciliana a uno o due periodetti in coda a un capitolo sulle riforme del 1847!
Forse la colpa è dei Siciliani stessi, a partire da coloro che, o scrivendone in quei tempi, come il La Farina, il Calvi, il La Masa, o più tardi, come il Gemelli, o scrivendo in vecchiezza le memorie di quegli anni giovanili, come il Raffaele e il Torrearsa, miravano più a vantare o difendere sé e ad accusare altri; non pensarono mai a fissare con caratteri indelebili il significato nazionale, lo spirito ideale, il sentimento, che oltrepassavano i motivi storici della rivoluzione siciliana.
Perché, se nel Piemonte al sentimento nazionale si univa l’ambizione di allargare i propri confini e formare una più grande monarchia; se in Lombardia e nel Veneto al moto dava una spinta la necessità di sottrarsi al dominio straniero; in Sicilia la rivoluzione non mirò soltanto alla riconquista di un diritto violato fraudolentemente; ma questa reputò connessa e necessaria alla soluzione della quistione nazionale. E se una politica gretta e d’interessi particolaristici ci fu, vedremo che bisogna cercarla proprio là, donde movevano le volutamente equivoche accuse di separatismo.
 
 
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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martedì 2 gennaio 2018

Luigi Natoli: I fratelli De Benedetto. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Erano tutti stati attivissimi nel cospirare e appre­star armi alla rivoluzione, rischiando la vita e contri­buendo largamente del loro patrimonio; Salvatore era stato arrestato poco tempo innanzi; Raffaele e Pasquale eran fuggiti alle ricerche della polizia, e s'erano uniti con Rosalino Pilo; poi avevano raggiunto Garibaldi, e il 27 maggio li trovò nelle prime file. Il 28, Salvatore, uscito con gli altri dal carcere, corse a trovarli, ma Raffaele giaceva per la grave ferita toccata il 27 al ponte dell'Ammiraglio, e soltanto Salvatore e Pasquale poteron prender parte ai combattimenti che si svolge­vano nella città. Ora difendevano con le squadre e coi volontari la barricata del palazzo Carini; Pasquale audace, ferito già da una scheggia, pugnando a petto scoverto, cadeva colpito nuovamente da una palla al fianco; Salvatore, che gli stava di presso, accorso per sostenerlo, aveva da un'altra palla passato il cuore: caddero abbracciati sulla barricata, all'ombra della loro bandiera.
Questa dei De Benedetto fu una famiglia di eroi per nulla inferiore a quella dei Cairoli. Raffaele combattè al '48, cospirò nel decennio di preparazione, fu coi fratelli massima parte della rivoluzione del 4 aprile, fu ferito a Palermo, seguì Garibaldi ad Aspromonte, combattè nel Trentino, morì eroicamente a Monte San Giovanni nel 1867, dinanzi a Roma. Salvatore e Pasquale morirono sulle barricate di Palermo. Anche i due minori fratelli Luigi e Carmelo aiutarono le rivoluzioni, sebbene ancor giovinetti.  
 
 
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Nella foto: Lapide commemorativa dei fratelli Salvatore e Pasquale De Benedetto.