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martedì 28 maggio 2019

Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento

Il volume Rivendicazioni che fa parte della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli, raccoglie gli scritti storiografici dell'autore sulle Rivoluzioni siciliane, dal 1848 al 1860.
Per una maggiore chiarezza del lettore, abbiamo preferito introdurre gli scritti con una "Premessa storica", ovvero la narrazione dei fatti che coinvolgono la Sicilia dal Congresso di Vienna al 1848, tratta da Storia di Sicilia dalla preistoria al Fascismo ed. Ciuni anno 1935.
Segue "La rivoluzione siciliana nel 1860", pubblicata ad opera del Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 dalla Società editrice Marraffa (1910). 
L'autore, nella piccola prefazione, così presenta il testo: "Questo libro vuol essere una rapida narrazione dei rivolgimenti siciliani del 1860, e segnatamente di Palermo; non critico dunque, non discuto: pure molte cose inesattamente narrate fin qui o alterate o taciute, dico e procuro correggere secondo verità; e tutta quella parte che i nostri vi ebbero dal 15 maggio in poi, la quale ordinariamente non apparisce nelle storie, ho cercato di lumeggiare nelle sue giuste proporzioni, parendomi non soltanto ingiustizia, ma anche ingratitudine lasciar nell’ombra o menomar le opere e i sacrifici dei nostri, che prepararono prima, e spianarono, resero possibile poi e vittoriosa la spedizione garibaldina dei Mille e l’unità nazionale. Non apologie, né esagerazioni: ma neppure silenzi, e peggio, menzogne e ingiurie, di che si compiacquero anche recenti narratori." Una rapida narrazione quindi, di circa 117 pagine, della quale non si discute la veridicità: "Affermo però nel modo più assoluto, che quanto io narro, e come lo narro, risulta oltreché dal confronto e dalla critica delle varie storie e biografie stampate dal 1860 in qua, anche da testimonianze dei tempi, da opuscoli rari e poco noti, da note, memorie, lettere, e in genere manoscritti ancora inediti, e principalmente dai documenti officiali dell’Archivio di Stato, specialmente di fonte borbonica, dai giornali del tempo, dai fogli volanti (di cui una ricchissima collezione raccolse il compianto dottor G. Lodi e donò alla Società di Storia Patria) e da memorie particolari raccolte dalla viva voce; e tutto ho messo in riscontro; perché la verità scaturisca limpidamente senza postume ire né inutili apoteosi, che oramai non son più di stagione". Così Luigi Natoli conclude la sua premessa, e lui stesso in modo molto chiaro spiega al lettore lo scopo del volumetto. 
Segue "Di un volume di documenti sulla Rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille" tratto dal mensile Rassegna storica del Risorgimento  Anno XXV – Fasc. II Febbraio 1938 – A. XVI - La Libreria dello Stato – Roma. In questa parte, che l'autore inizia così "Gli storici che si sono occupati della rivoluzione siciliana del 1860 e della spedizione dei Mille, hanno finora attinto a una sola fonte, hanno cioè pubblicato memorie, diari, opuscoli inediti o editi, rari o malnoti, documenti ufficiali, lettere, quasi tutti di parte liberale; e per la spedizione garibaldina, salvo uno o due libri borbonici, delle lettere, dei diari, degli opuscoli di coloro che ne fecero parte. Ne vennero fuori pubblicazioni, che avevano tutta la parvenza della verità per essere raccontate da un testimone oculare, tuttavia si differenziano l’una dall’altra; e non soltanto nel precisare le ore in cui avvenne questa o quell’altra cosa, quanto nel narrare i fatti. Basta leggere il libro dell’Agrati, che bellamente raccoglie dai vari diaristi e dai vari scrittori di lettere tutte le diversità e le contraddizioni, dinanzi alle quali il lettore non sa a chi credere". La rivoluzione siciliana narrata quindi dal punto di vista dei Borboni, con le loro intuizioni e con i loro errori. Ad esempio il clamoroso comunicato: "Dicesi che Garibaldi con un vapore, forse russo, verrà a Messina, e che altri siano costà” Oppure il rimprovero del re Francesco al principe di Castelcicala "Ma come luogotenente e con un Consiglio di direttori debbo chiaramente dirvi, caro principe, che oramai sono ben quarantuno giorni, e di spiacevolmente, non solo non si è alla fine della cosa, ma si può dire invece essere al bel principio”, oppure la comunicazione del Principe di Castelcicala del saccheggio al villaggio S. Lorenzo il 9 aprile 1860 “Per quanto grande era il disprezzo che si avea nella truppa, ora altrettanto forte è il timore che la più meschina recluta, incute ai più audaci”. E continua: “Stanotte ho spedito due colonne al villaggio di S. Lorenzo ov’erano trincerati il più gran numero de’ribelli” (è la terza spedizione).
Una delle colonne recata dall’Ercole è sbarcata alle loro spalle, mentre l’altra guidata dal maggiore Polyzzy, li ha attaccati di fronte. Ho visto col cannocchiale del telegrafo l’assalto dato alle case tutte di quel villaggio dalla valorosa truppa, che li ha snidati, facendone morti, feriti e prigionieri, e ridusse poscia in fiamme quel torbido villaggio, che è stato sempre il terrore della capitale".
Segue un prezioso documento su I più piccoli garibaldini del 1860 Estratto da “La Sicilia nel Risorgimento italiano”  Palermo – 1931 dove l'autore ci fa conoscere i giovanissimi siciliani che volontariamente si uniscono alle squadre siciliane e ai Mille per la libertà dell'Isola: Erano costoro i giovanetti, che istituiti in battaglione con decreto di Garibaldi del 22 giugno di quell’anno, erano stati acquartierati nell’Ospizio di Beneficenza, per formare con essi dei sottouffiziali, e alla cui direzione era preposto il Mario. L’articolo 7 del Regolamento prescriveva che non potevano esservi ammessi “adolescenti minori di anni 10 e maggiori di anni 17”. Erano dunque ragazzi. Il documento è corredato anche dalla trascrizione di lettere dell'epoca trovate dall'autore
"Apro l’Unità Italiana del 2 agosto, e vi trovo la seguente letterina:
“Affezionatissimo padre,
“L’amore della Patria supera ogni altro amore, è lei che mi chiama a difenderla. Spero di ritornare vittorioso, ma se il destino vuole che io muoia son pronto a versare il mio sangue. Abbracciandola, ecc..”
Chi scrisse questa letterina? Un quattordicenne, Ignazio Zappalà di Palermo, che fuggì dalla casa paterna, si battè a Milazzo, e fece poi tutta la campagna nell’Italia meridionale. 
che narra in seguito le ricerche dell'allora sindaco di Palermo e Presidente della Società Garibaldina commendatore Albanese (1910) in occasione del cinquantenario del 27 maggio 1860, per ritrovare i "piccoli garibaldini" ma che, a quanto sembra, risultarono infruttuose per la maggior parte "I sindaci mandarono quel che poterono, che non sono tutti; molti o per accidia o per altre ragioni rimasero ignorati, perché non è possibile che di ventimila, quanti si presume che la Sicilia ne abbia dati a Garibaldi, la più parte giovani, siano morti circa diciottomila in cinquant’anni. L’elenco pubblicato dal comm. Albanese dà soltanto millenovecentosessantotto garibaldini viventi nel 1910"
Il volume si conclude con Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860, pubblicato dalla Cattedra Italiana di Pubblicità nel 1927. Nella premessa, l'autore illustra gli "intendimenti" che lo portarono a Rivendicazioni: Raccolgo in questo volume alcuni scrittarelli, dei quali alcuni veggono ora la luce per la prima volta, altri, già pubblicati su giornali, sono così interamente rifatti, che possono considerarsi nuovi.
Quali gli intendimenti che m’indussero a comporne un libro, il lettore vedrà da sè; e gli farei un torto se mi trattenessi a illustrarglieli. Dirò soltanto che questi scritti nacquero dalla mia passione per la Sicilia e specialmente per Palermo mia città natale: passione che invece di affievolirsi con gli anni, è divenuta più intensa via via che mi sono addentrato – quanto è possibile a una vita umana assillata dai bisogni della vita cotidiana – nello studio della storia; e mi sono accorto degli errori, dei pregiudizi, della superficialità e anche dell’ignoranza di che son pieni scrittori, anche valorosi, quando parlano e giudicano delle cose siciliane. Delle quali non si può parlare con tanta facilità e leggerezza; così vasta, molteplice, ricca di cose ancora ignote, inesplorate è la nostra storia. 
Si tratta dello scritto più completo sul Risorgimento, poiché narra storiograficamente la rivoluzione siciliana dal 1848 al 1860, con articoli dei giornali dell'epoca, testimonianze, dati storici minuziosamente descritti. Particolare la dedica: "Ai figli, perchè l'opera dei padri non dimentichino".
Un volume di 575 pagine, con la copertina di Niccolò Pizzorno, che tutti dovremmo leggere, per sentirci orgogliosi di essere siciliani e della nostra storia. E per dire grazie a quei padri che per noi e per la nostra libertà donarono la propria vita.

Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. 
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Luigi Natoli: 27 maggio 1860. L'ingresso dei Mille e dei Picciotti. Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860

Verso le sette del pomeriggio di quel giorno 26, mentre molti cittadini improvvisavano in barche una dimostrazione intorno alla nave sarda il Governolo, e ne seguivano arresti, Garibaldi ordinava si togliesse il campo, e cominciava la discesa dal colle. Non v’era allora la comoda strada carrozzabile che vi é oggi; non v’erano sentieri; bisognava discendere per ripido scoscendimento, fra sassi e sterpi; e in tante migliaia ciò riusciva lento e difficile. Molti incespicavano, scivolavano sopra i compagni che si trovavan dinanzi, e rotolavano insieme sopra altri, e si formavan viluppi di corpi che movevan compassione e risa in un tempo. A mano a mano che raggiungevano le falde del colle, le squadre e i volontari si aggruppavano intorno ai loro capi. La discesa durò circa cinque ore. Cominciò con qualche lentezza da parte delle squadre, che si mossero per le prime; onde Garibaldi se ne dolse col La Masa, che a sollecitare i guerriglieri mandò Pasquale Mastricchi; il quale postosi innanzi, con la squadra di Bagheria, spronò gli altri. A mezzanotte si ordinarono le squadre e le compagnie, su pei sentieri campestri, fra i giardini e i poderi che rallegrano quelle contrade.
La Masa aveva, per parte delle squadriglie, domandato l’onore d’esser posti i primi ad assalire il nemico; e Garibaldi divise allora il suo esercito in due corpi; il primo formato delle squadriglie, sotto gli ordini del La Masa; il secondo dei volontari, sotto il suo comando.
Ordine rigoroso non fumare, non cantare, non dir neppure una parola, non far alcun rumore, per giungere di sorpresa agli avamposti dei regi, e sgominarli prima che avessero il tempo di dar l’allarme.
Marciavano così, taciti; e nella notte odorosa di tutti i profumi della campagna ferace, rimbombavano quei passi, e destavano i latrati dei cani. Qualche lume si vedeva fra le piante; qualche finestra si apriva nelle case sparse; intorno sull’alto dei monti circostanti, ardevano i fuochi accesi dalle squadre, occhi veglianti della rivoluzione. Al tocco erano giunti a Rappallo, dove Garibaldi, raggiunta la squadra di Bagheria, visto l’orologio, domandò al Mastricchi, da lui piacevolmente chiamato il Vecchio di Gibilrossa, quale era la strada per giungere più presto a Palermo. Il Mastricchi indicò la strada dei Ciaculli, per la quale si avviavano: ma dopo percorso mezzo miglio, Garibaldi ordinò si piegasse a destra per la Favara, e presso il podere Guccia fece un primo alt. 
Accaddero alcuni incidenti. Un cavallo fugge; corre un grido: – La cavalleria! – Il grido mette il disordine non soltanto nelle ultime squadriglie, ma nelle stesse compagnie dei volontari. Fu un lampo; si riconobbe l’errore: qualcuno ne rise. Alla Favara dove le acque scorrono fresche e limpide, molti giovani delle squadre, che stavano alla testa, non usati alla disciplina militare, si fermarono per bere; ma il Bixio, che vedeva il danno dell’indugio, piombò sopra di loro, gridando, ingiuriandoli con la solita irruenza, e percotendoli: accorse La Masa, in tempo per contenere il risentimento di quei giovani: delle parole vivaci corsero fra La Masa e Bixio, che non ebbero seguito per l’intervento di Sirtori. Riordinate le colonne ripresero la marcia; alla testa erano stati posti trenta volontari scelti, armati di baionetta, comandati dal Tuköry, oltrecchè per poter fare un primo impeto nell’assalto più che probabile, anche per guidare e servire d’esempio alle squadre, che formavano la prima colonna.
La strada che essi percorrevano, detta dei Ciaculli, metteva capo a un bivio, detto della Scaffa, a pochi passi dal ponte dell’Ammiraglio, antico e bel monumento normanno, che attraversava il fiume Oreto. Dal ponte dell’Ammiraglio uno stradale, detto allora dei Corpi Decollati  –  ora dei Mille  –  lungo circa mezzo miglio, conduce in linea diritta alla strada urbana, detta di Porta di Termini, per la porta duratavi fino al 1849: le due strade son tagliate in croce dallo “stradone di S. Antonino” ora via Lincoln, che termina al mare.
Il comando delle truppe regie, sicuro della sconfitta di Garibaldi e della sua fuga verso Corleone, ignaro e della mossa strategica del Dittatore e del campo adunatosi in Gibilrossa, non aveva provveduto a difendere questo punto importante con forze considerevoli; aveva mandato alcune compagnie con due cannoni al convento di S. Antonino, per dominare la vicina porta dello stesso nome, lo stradone e l’entrata alla porta di Termini; aveva dinanzi a questa sul crocicchio fatto costruire una barricata, difesa da qualche altra compagnia, e spinto dei distaccamenti avanzati al ponte dell’Ammiraglio, al vicino ponte delle Teste, scaglionando anche un mezzo squadrone di cavalleria in una strada che obliquamente dal ponte andava a S. Antonino, detta allora del “Secco” ora sparita. Dalla parte del mare aveva fatto piazzare una fregata, di fronte allo stradone. Queste truppe erano sotto gli ordini del brigadiere Bartolo Mazza.
I volontari e le squadre dovevano dunque conquistare prima d’ogni altro il ponte, poi percorrere quel mezzo miglio di strada, gittarsi sulla barricata di Porta di Termini e, affrontando il fuoco incrociato dal mare e dal convento di S. Antonino, correre nel cuore di Palermo; non essendo la piazza della Fieravecchia, antico quartiere di rivoluzioni, lontana dalla porta che un quarto di miglio.
Tutto questo Garibaldi sapeva, disponendo la sua marcia; ma per quanto sapesse già che non avrebbe incontrato una forte difesa, era necessario sorprendere gli avamposti e piombare in Palermo, prima che il comando generale, destato, avesse il tempo di chiamare e spingere i battaglioni attendati nel piano del palazzo reale e alle finanze.
Ma la sorpresa mancò.
Giunti alle case del bivio della Scaffa, i “picciotti” che seguivano i trenta volontari del Tuköry, avvistate le sentinelle borboniche, e credendo forse di essere arrivati a Palermo, levarono alte grida, e tirarono qualche fucilata: al che, destatisi gli avamposti napoletani, che occupavano la testa del ponte dell’Ammiraglio, gridarono all’armi e fecero una scarica.
Avvenne un istante di disordine. I “picciotti” non abituati alla tattica delle colonne serrate, seguendo il loro costume, si sbandarono a destra e a sinistra, gittandosi nei giardini per appostarsi dietro gli alberi e i muri; e far fuoco, protetti; questo sbandamento produsse un rigurgito delle altre squadre nella seconda colonna, che poteva riuscire fatale, se Tuköry, in un baleno, non si fosse lanciato coi trenta volontari alla bajonetta, e se Garibaldi, avvertito da Bixio, non avesse spinto Carini con la 7^ compagnia a sorreggere Tuköry. L’esempio dei volontari, le acerbe rampogne dei capi-squadriglie, la voce potente di fra Pantaleo che, levato alto il Cristo corse innanzi tra le fucilate, trascinarono le turbe dei “picciotti”.


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. 
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Luigi Natoli: Giuseppe La Masa e il campo di Gibilrossa. Tratto da La rivoluzione siciliana nel 1860


Dopo il combattimento di Calatafimi, Garibaldi ordinò al La Masa di percorrere la provincia di Palermo, per suscitarvi la rivoluzione; il La Masa, scelse a compagni Vincenzo Fuxa di Bagheria, anche lui dei mille, piccolo, cavalleresco, audace, guizzi di fiamme gli atti e le parole; Pietro Lo Squiglio, cuor provato a tutti i cimenti; Giacomo Curatolo, veterano del 48; il barone Di Marco, cospiratore infaticabile che aveva sollevato Mezzojuso; i due fratelli La Russa e qualche altro: tutta gente questa che era andata incontro al Dittatore in Salemi, e si era già battuta a Calatafimi.
Giunto a Roccamena, il La Masa lanciava il 17 maggio uno dei suoi proclami magniloquenti, com’era la natura dell’uomo, incitando alla rivolta e a proclamare la dittatura di Garibaldi: indi muoveva per Mezzojuso dove organizzava le prime squadre; e ne avvertiva Francesco Avellone di Roccapalumba, che fu uno dei più ardenti e operosi promotori della rivoluzione, non soltanto sollevando i vicini comuni per mezzo di emissari, come l’abate Rotolo e Calcedonio Nicolosi; ma armando squadre del suo, sovvenendo di danari, frumenti, munizioni il campo degli insorti.
Il comitato di Termini, insorta come dicemmo il 16, levate squadriglie nei dintorni, con a capo Liborio Barrante e Ignazio Quattrocchi valorosissimi, Michele Mondini e Stefano De Maria, arguto poeta, ricercato nelle conversazioni pel suo spirito; saputo dell’arrivo del La Masa, gli spedì a Mezzoiuso, come commissario, il cavaliere Rosario Salvo. Da quel giorno Termini, pur sotto la minaccia della sua rocca, divenne vera e feconda fucina di patriottismo e officina d’armi, munizioni, bende; e sebbene non sapesse ancor nulla di Garibaldi né del quartier generale, ordinava alle squadre di concentrarsi presso Palermo: cercando nel tempo stesso scuotere la non lontana Cefalù, ancor timida e intorpidita dall’eccidio dello Spinuzza.
Il La Masa lieto di questo risveglio di patriottismo, del formarsi e accorrere delle bande armate, benché non sempre bene armate, scrisse il 19 a Garibaldi, dandogli conto di quel che aveva fatto, e domandando se dovesse avanzarsi con le squadre a Piana dei Greci o a Misilmeri. Garibaldi “contentissimo” di quanto il La Masa aveva operato, e felicitandosene, lo lasciava libero di concentrare le forze dove credesse più conveniente, pur di esserne avvertito; poi, come narrammo, dal Sirtori gli fece scrivere di concentrarsi al Parco, e indi a Gibilrossa. Così formossi quel campo di Gibilrossa che rese possibile l’assalto e la presa di Palermo.
Intanto si diffondevano per l’isola i proclami di Garibaldi “All’Esercito napoletano”, “Ai buoni preti”, “Agli Italiani”; altri se ne diffondevano del La Masa; quelli vibranti, a scatti: questi un po’enfatici: ma gli uni e gli altri sollevavano entusiasmi. Per eseguire gli ordini di Garibaldi, La Masa ordinava che le squadre dei vari comuni si concentrassero a Misilmeri, dove la cittadinanza e il municipio le accoglievano con fraterna esultanza. Ivi l’attivo ricostituito comitato rivoluzionario, occultamente dopo l’insuccesso del 4 aprile, palesemente al rinnovarsi delle speranze dopo la vittoria di Calatafimi, si era dato con ogni possa al lavoro per assicurare il trionfo della rivoluzione: e Misilmeri con Roccapalumba e Termini divise i sacrifici e la gloria di aver ordinato, sorretto, mantenuto il campo di Gibilrossa.
Il Fuxa intanto si recava in Bagheria, vi proclamava la dittatura di Garibaldi, nominava il comitato per l’amministrazione e la sicurezza, e formata una squadra la conduceva al campo di Gibilrossa dove continuamente giungevano dalle campagne e da Palermo altri armati, sicché in breve raggiunsero la somma chi dice di cinque, chi di quattromila; ma sulla scorta di documenti è facile indurre che furon meno.
La Masa battezzò quella gente “2° Corpo dell’armata nazionale”, l’ordinò militarmente per quanto fosse possibile, con uno stato maggiore, un’intendenza, un corpo sanitario, uno di guide: il comando degli avamposti diede al Fuxa; a capo dello stato maggiore pose il Salvo: all’intendenza Pasquale Mastricchi antico patriotta.
Eran quasi tutti giovani contadini, i quali il vezzeggiativo del dialetto, picciotti, che significa “giovani” resero storico; erano incolti, e non avevano un’idea chiara del fine di quella rivoluzione: ma è una piacevolezza, e null’altro, rappresentarli cenciosi e a piedi nudi; mentre è saputo che i nostri contadini non vanno mai scalzi, e che in quei giorni furon largamente provveduti di vestiti e anche, per la stagione insolitamente fredda e piovosa, di cappotti; ed è qualcosa di peggio che piacevolezza, dire che essi credevano l’Italia moglie di Garibaldi!...
La Masa scrisse nuovamente a Garibaldi, dandogli conto di ciò che aveva fatto; ma esagerando, per la sua fervida natura e pel gran concetto che aveva di sé, la portata delle sue forze. Spiegava nondimeno gli avamposti sul monte Grifone, e nella notte faceva accendere grandi fuochi. Garibaldi gli commetteva di molestare i corpi avanzati dei regi, di difendere la destra dei volontari, di tener le comunicazioni. Questa non era impresa difficile; difficile era tener compatta quella gente non abituata ad alcuna disciplina, e fornirla di quanto occorreva; e fu fortuna che Termini, non ostante subisse in quei giorni i danni di un inutile bombardamento, Misilmeri e Roccapalumba non facessero mancar pane e polveri e palle: Termini anzi sacrificò il piombo delle antiche tubolature romane, tolte all’acquedotto Cornelio, per farne palle: e non vi fu sacrificio di danaro che l’eroica Misilmeri non affrontasse, per fornire il campo di Gibilrossa di quanto il quartiere generale domandava per le squadre, per l’ambulanza, per la segreteria del comando.
 La Masa magnificò i suoi: Garibaldi, ristette un po’, come per concentrarsi, poi gli disse: “Andate al campo, e dite ai vostri Siciliani che verrò fra breve a passarli in rassegna”.


(26 maggio 1860): Garibaldi chiamò a sé i capi delle squadriglie e i più noti liberali: v’erano Raffaele De Benedetto, l’abate Agostino Rotolo, Luigi Bavin-Pugliesi, Giovanni Forceri, il barone Di Marco, Ignazio Quattrocchi, Liborio Barrante, molti altri, ai quali domandò se fidavano nei loro uomini. Essi lo assicurarono. Stavano adunati sotto un olivo, e la notte magnifica stendeva sopra di loro la sua volta costellata; e pareva che le stelle col tremolìo delle loro fiamme si gloriassero dell’alta impresa che si maturava nell’ombra silenziosa e corruscante. Garibaldi si fece innanzi sul ciglio del colle, e mirò l’ampia valle che si allargava, la città dormente o vegliante, forse pavida del prossimo evento, e i monti in giro fiammeggianti, e disse: “Domani, dunque a Palermo”. Le quali parole semplici e senza enfasi, ripetè poco dopo Nino Bixio alle sue compagnie schierate, aggiungendovi, come riferiscono, un altro motto: “Andremo a Palermo o all’inferno!”.
Stabilito ciò, il Generale spedì la guida Stassi al Corrao accampato all’Inserra, con l’ordine di fare ogni sforzo per entrare in Palermo, dal lato nord, la notte sopravegnente. 
E intanto quel giorno medesimo lo stato maggiore borbonico pubblicava il seguente bollettino….

La banda di Garibaldi incalzata sempre si ritira in disordine, traversando il distretto di Corleone. Gli insorti che l’associavano, si sono dispersi e vanno rientrando nei rispettivi comuni scorati e abbattuti per essersi lasciati ingannare dagli invasori stranieri venuti per suscitare la guerra in Sicilia. Le reali truppe l’inseguono. 

Il Capo dello Stato Maggiore
V. Polizzy

E partiva per Napoli il colonnello Nunziante, portando, come un trofeo della vittoria, le spoglie tolte al povero Carlo Mosto, dei carabinieri genovesi, morto nella fazione di Parco!... E il generale Lanza se ne andava a dormire tranquillamente lieto di aver distrutto con tanta facilità il nemico, né dubitando punto della tempesta che fra poche ore gli sarebbe scoppiata sul capo. 


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martedì 21 maggio 2019

Luigi Natoli: Ciò che si disse dopo la morte di Rosolino Pilo. Tratto da Rivendicazioni.


Con la morte di Pilo finisce l’azione autonoma delle squadre durata dal 5 aprile al 21 maggio: da questo momento esse seguono la fortuna dei Mille, e di loro gli storici non terranno parola, o forse per dileggiarle: dimenticando che senza di esse e senza la rivoluzione i Mille non avrebbero potuto fare un passo, e sarebbero rimasti vittime della loro audacia.

Ma che non dissero gli storici? Uno, più grave perché uso a non affermar nulla senza documentazione, non accolse come verità le fanfaronate di uno dei Mille, che fra le altre cose affermava che Palermo pareva una città di morti, e che i Garibaldini, il 27 maggio erano costretti a snidare i Palermitani “per far fare loro la rivoluzione?” 

Questi storici hanno anche un altro torto: quello di credere che la spedizione dei Mille sia tutta la rivoluzione siciliana; o che, forse, questa sia scoppiata per virtù di quella. Per cui essi, appena appena si degnano di dare uno sguardo all’episodio del 4 aprile, allo stato insurrezionale durato fino al 27 maggio, alla spedizione di Rosalino Pilo e di Giovanni Corrao; e pare non sospettino neppure che senza questa e quello, né Garibaldi né i Mille sarebbero salpati da Quarto.

Ora a tanti anni di distanza, quando i fatti storici si possono guardare con maggior serenità, e altri documenti son venuti in luce, è bene ristabilire la verità storica, senza esagerazioni, cadute ormai nel dominio dei luoghi comuni, e senza reticenze inutili. E appunto per questo non bisogna fondarsi unicamente sulle testimonianze raccolte da una parte sola: per quanto meritevoli di credito esse vanno riscontrate con altre testimonianze, e saggiate sulla pietra di paragone dei documenti. I Mille che seguirono Garibaldi sono veramente mille eroi, e l’impresa alla quale si accinsero, fu meravigliosa e miracolosa; ma per esser tali non è necessario tacere, travisare e qualche volta calunniare il potentissimo aiuto che direttamente e indirettamente ebbero in Sicilia dai Siciliani; non è necessario tacere l’efficacia risolutiva dello ambiente; giacchè è bene affermarlo ancora una volta e chiaramente, se la spedizione dei Mille non avesse trovato, neppure il solo concorso morale di tutto un popolo in rivoluzione (dico rivoluzione, non ribellione) Garibaldi e i Mille avrebbero incontrato la sorte dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane. Anzi, per rimanere in tema garibaldino, la campagna di Sicilia del 1860, non avrebbe avuto esito diverso della campagna dell’Agro Romano del 1867, che pure si compiè in condizioni numeriche e d’armamento superiori. Vincitori, anche, a Calatafimi, i Mille avreb­bero avuta a Palermo una Mentana assai più disastrosa.

Ora gli esperti di cose militari, che studiano le cose senza lirismo, hanno oramai riconosciuto che la marcia trionfale da Marsala a Palermo e le vittorie strepitose dei legionari, oltre che al valore di essi e all'azione dell’ambiente, si debbono anche agli errori innumerevoli e madornali del comando generale delle truppe borbo­niche; e questi errori madornali furono l’effetto della paura. Paura di combattere in un paese nemico in rivo­luzione; paura di vedersi assaliti da ogni parte dalla popolazione; paura di vedersi tagliate le comunicazioni e la ritirata; paura di mancare – come mancarono – ­di viveri, di ospedali, di medicine, di tutto.

Il che risulta dai documenti, che hanno maggior valore delle lettere di un esaltato…



Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
Raccolta di scritti storiografici sul Risorgimento siciliano, tratte dai documenti originali. 
Indice dell'opera: 
Premessa storica dalla rivoluzione francese al 1820 tratta da: Storia di Sicilia ed. Ciuni (1935)
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Soc. editrice Marraffa Abate - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal Mensile Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Febbraio 1938)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto da La Sicilia nel Risorgimento anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Treviso 1927)

Luigi Natoli: 21 maggio 1860 muore Rosolino Pilo. Tratto da: Rivendicazioni.


Il 21 di maggio, mentre Garibaldi studiava la sua marcia strategica, le squadre di Pilo erano attaccate da tre forti colonne borboniche. I nostri non eran più di trecento cinquanta; i borbonici oltre un migliaio; ed eran padroni di alture. Corrao sosteneva il fuoco; ma il pericolo d'essere soverchiato era imminente; Pilo ac­corso con Calvino, salito, contro il consiglio di Corrao, in alto per vedere le posizioni, riconosciuto il pericolo pensò di rivolgersi a Garibaldi, per aver aiuti: Calvino e Corrao, stavano in basso; e voltavan le spalle al Pilo, che aveva con sè Andrea Soldano, di Lipari.

Veramente, per accorrere in aiuto delle squadre, non era forse necessario domandarlo. Gli avamposti garibaldini si spingevano presso la Boarra, e, oltre la loro estrema punta, a Lenzitti era la squadra di Pietro Piediscalzi, attaccata anch'essa dai regi. Il combatti­mento dunque si svolgeva poco lontano. Nondimeno il Piediscalzi a Lenzitti, Pilo e Corrao alla Niviera furon lasciati soli, senza soccorso, a sostenere il fuoco dei regi, che movevano da Monreale e da Palermo. Era una necessità dolorosa, non un abbandono, badiamo; e la rilevo qui, perchè questo fatto d'arme, nel quale, con altri, lasciarono la vita Pietro Piediscalzi e Rosalino Pilo appaia veramente quello che fu: un olocausto, una immolazione per impedire che il campo garibaldino fosse assalito, e rendere possibile a Garibaldi la sua stra­tegica diversione. Rosalino Pilo fu colpito alla testa, mentre scriveva, in piedi, fra due rocce, appoggiando la carta sulle spalle del Soldano. Alle grida del quale accorsero il Corrao, il Calvino e altri, sollevarono il Pilo boccheggiante, e lo portarono nella casa della Neviera, d'onde poi l'abate Castelli, avvertito, lo fece di sera trasportare nel monastero di S. Martino.

 La morte dell'eroe fu avvolta di tristi voci: la ver­sione più ovvia, più naturale, che egli sia stato ucciso da palla borbonica, (non essendo i regi, che eran ben armati, più lontani di 700 metri; ed avendo egli il capo scoperto); questa versione, che consacrava il suo mar­tirio, si è voluta scartare, e si cominciò col l'accusare di averlo ucciso a tradimento Giovanni Corrao, che invece – e risulta da testimonianze, – stava in basso col Calvino e volgendogli le spalle: e l’invereconda e infame accusa contro chi era stato il compagno, il fra­tello di Rosalino, e che pel coraggio leonino, per la fran­chezza, per tutta la sua vita, non avrebbe mai com­messa una viltà, aveva forse il fine partigiano e astioso di offuscare l'eroica figura del fiero popolano repubbli­cano, alla cui lealtà Garibaldi rese omaggio e allora e poi.

Scartata, perchè bugiarda e ignominiosa, l’accusa contro il Corrao, si volle ucciso Rosalino Pilo ora da un Morrealese, or da uno di Capaci, e ora da uno di Carini: per quale insania, io non so; forse, per quelle stesse ragioni che dissero Carlo Mosto, une dei Mille caduto alla fazione di Parco, ucciso da uno di quei terrazzani; quando il Rivalta, che gli era vicino, lo vide morire per mano dei regi! Questa nostra rivoluzione era così incol­pevole, gli entusiasmi le davano tanta purezza, che occorreva forse gittare un'ombra oscura su quelle squa­dre e su quelle popolazioni, che pur davano il loro sangue, agevolavano e salvavano la marcia di Garibaldi.

 Con la morte di Pilo finisce l’azione autonoma delle squadre durata dal 5 aprile al 21 maggio: da questo momento esse seguono la fortuna dei Mille, e di loro gli storici non terranno parola, o forse per dileggiarle: dimenticando che senza di esse e senza la rivoluzione i Mille non avrebbero potuto fare un passo, e sarebbero rimasti vittime della loro audacia. 


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
Raccolta di scritti storiografici sul Risorgimento siciliano, tratte dai documenti originali. 
Indice dell'opera: 
Premessa storica dalla rivoluzione francese al 1820 tratta da: Storia di Sicilia ed. Ciuni (1935)
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Soc. editrice Marraffa Abate - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal Mensile Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Febbraio 1938)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto da La Sicilia nel Risorgimento anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Treviso 1927)

giovedì 2 maggio 2019

Luigi Natoli: La morte di Francesco Riso. Tratto da Rivendicazioni.


Il 27 aprile moriva Francesco Riso. Trasportato sopra un carretto all'ospedale, vi subiva un primo interrogatorio dal commissario di polizia Carrega, che al cavaliere Balsano, deputato del pio luogo, testimoniava essersi il Riso “battuto come un leone”. Interrogato il domani dal giudice Uzzo, onesto magistrato, serbò il silenzio: la polizia tentò aver nelle mani il ferito, per sottoporlo chi sa a quali torture, non l’ebbe per la ferma resistenza di quei sanitari. Ciò non distolse il Maniscalco dal tormentare il Riso, non solo con gli inter­rogatori processuali, ma con mentite promesse e tristi lusinghe di liberargli il padre, già fucilato. E il 16 lo sottopose a lungo stanchevole esame, in segreto; col quale fece di poi compilare in ufficio un verbale dal giu­dice Prestipino, uomo di pochi scrupoli, sostituito all' Uzzo, giudicato onesto: il qual verbale allora e poi, diffusa ad arte la voce di gravi rivelazioni, offuscando il nome dell'eroico popolano, servì a discreditare gli uomini della rivoluzione.
Il Riso ebbe sentore delle dicerie, e qualche giorno prima di morire, se ne dolse amaramente, dicendole infamie; e si afferma aver richiesto una pistola per uccidere Maniscalco appena ripresentatosi. Ora, poichè, non ostante un vano divieto, del processo furono già estratte alcune copie, e qualcuna pubblicata, non sarà inutile fermarsi a parlarne con serenità. Gli interro­gatori che figurano nel processo sono tre: il primo è del 5 aprile, e il Riso serbò un rigoroso silenzio; l'ul­timo è del 17, compilato, cioè, dopo il colloquio col Ma­niscalco dal giudice Prestipino, per ordine del governo, come si rileva da una lettera del luogotenente generale dello stesso 17. Ora tra la relazione del direttore di polizia, riprodotta nella citata lettera, e il verbale del giudice Prestipino vi sono notevoli differenze: e soltanto si accordano nei nomi dei creduti componenti del comi­tato segreto; i quali, si noti bene, erano già noti alla polizia, ed erano quelli delle persone arrestate già fra il 7 e il 12, prima ancora, cioè, che il Riso avesse fatte le volute rivelazioni. Nessun altro nome vi figura; pure il Riso avrebbe potuto denunziare il Bruno-Gior­dano, il Tondù, i De Benedetto, il Marinuzzi, il Corteg­giani, l'Albanese, avrebbe potuto rivelare come e dove s'eran preparate le armi; avrebbe potuto dire il nome di chi aveva ferito il Direttore di Polizia. Le rivela­zioni non aggiungevano nulla a ciò che la polizia sapeva da altre fonti; e principalmente da G. Battista d'Angelo uno dei congiurati, che, preso il 4, non resistendo alle torture, fece propalazioni, indicò dov'erano nascoste le armi, fu cagione che la polizia mettesse a prezzo la testa del Bruno; e di lì a non molto fu trovato impic­cato alla inferriata del carcere. Rimorso o giustizia. 
Il documento e per le singolari condizioni onde venne redatto, e per la mancanza di forme legali e sopratutto della firma dell'interrogato, che pur sapeva leg­gere e scrivere, dà adito a non ingiustificati sospetti sulla sua autenticità e veridicità, in un tempo in cui la polizia creava anche documenti; e con uomini, conte il Maniscalco, che anelavano raccogliere prove o fabbri­carne, per procedere con estremi rigori contro gli arre­stati, e segnatamente i nobili.
Ho voluto indugiare su queste accuse per scrupo­losità di storico, e per ristabilire la verità; non sti­mando equo, per altro, il rigido giudizio di chi, credendo alle confessioni del Riso od esagerandone la portata, vorrebbe anche disconoscerne il sacrificio. Nessuno di coloro che all'ospedale gli stettero vicini lo credette pro­palatore, anzi il cav. Balsano, il cappellano Chiarenza e i medici curanti, che avevano stabilito intorno al ferito un servizio di quasi spionaggio, negano con testi­monianze scritte, che il Riso abbia fatto le rivelazioni che gli si attribuiscono.
La città, più sicura nei giudizi, ne pianse la morte, e allora e poi l'onorò pel martirio, che segnò la irre­vocabile caduta dei Borboni e l'unità della patria.


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. 
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