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martedì 4 aprile 2023

Giuseppe Ernesto Nuccio: Il massacro nel Convento della Gancia... Tratto da: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano

Ma ecco che sul campanile, la voce della campana che chiamava i cittadini s’è spenta, e nella scala è uno scalpore di gente che scende a precipizio. Pispisedda si muove alfine con uno sforzo grande e scorge al sommo della scala a chiocciola alcuni armati. Avanti a tutti ecco Gaspare Bivona e Filippo Patti che scendono guardinghi, curvi, i fucili nella destra. A mezzo la scala si fermano indecisi, quindi, uno dietro l’altro, piegandosi, s’imbucano per una piccola porticina.... L’ultimo, prima di entrare, guata intorno. “Vanno nel soffitto” dice Pispisedda, e torna indietro, scende, attraversa il corridoio; occhieggia oltre gli usci delle celle. I sette monaci sono tuttavia addossati in un angolo, sgomenti, con gli occhi di traverso sull’uscio donde verrà la morte.... Frate Giovannangelo è anche lui nella sua cella e sta ancora a pregare; ma è sereno ora, come aspettando la morte. E Pispisedda corre ancora verso giù. La campana della porta del convento suona alla disperata e quando tace segue il rombo del cannone e il crepitìo delle fucilate.
E Pispisedda scende a precipizio. Perché? Dove va? Non sa nulla, non ha deciso nulla. Non può star più fermo, altrimenti gli scoppia il cuore. Ecco, gli par di scorgere don Ciccio Riso fatto gigante e combatter da solo con un esercito infinito e uccider soldati a montagne....
E Pispisedda corre ancora, impazzato, alla ventura, senza mèta. Eccolo già al piano terreno; attraversa il corridoio; travede il cortile, la porta mezzo sfondata; e, presso la porta, Francesco Riso attorno ad alcuni morti. Pispisedda avanza istintivamente: Francesco Riso carica a stento il fucile; sta per prender la mira; s’ode uno scroscio! una scarica lo coglie, trempella, arranca con le braccia e si piega su se stesso.
Un urlo altissimo segue la sua caduta e fa arretrare Pispisedda. Ecco, ecco i soldati che dànno addosso alla porta, Pispisedda arretra sempre più.... e la porta sobbalza sotto i colpi, si squarcia e l’orda dei soldati irrompe urlando, nel cortile.
Pispisedda balza come un capriolo, rifà il corridoio, s’imbuca per la porticina segreta, e via per Terrasanta, a lanci come un gatto. Presso la panetteria tumultua un nugolo di soldati, ferendo e bastonando i monaci urlanti e gementi; ma Pispisedda non s’arresta, urta, spinge, balza su uno, due soldati, avventando pugni e morsi, infine taglia il gruppo, e, rapidissimamente, come una saetta, balza fuori attraversando altri gruppi di soldati....
Egli si sentiva ora, nell’animo, uno sfinimento grande, come se morta fosse per sempre la bella speranza ch’egli avea curata giorno per giorno con fervore sempre più acceso. E lo prendeva ora il vivo desiderio di morire. Perchè non s’era fatto uccidere là accanto a Francesco Riso ch’era caduto magnificamente come il più bello e il più glorioso paladino? E Pispisedda chiudeva gli occhi; ma il vento portava fino a lui, laggiù, un crepitìo attenuato, come di fucilate esplose dentro il chiuso.
E il ragazzo abbrividiva; intravedendo, con un tremito spasmodico, l’orda dei soldati scagliatisi come un nembo di procella dentro il convento e dilagar per le scale e per i corridoi e le celle, colpendo con le baionette i monaci genuflessi a pregare e gli insorti appostati presso le soglie o negli angoli.
Non potendo resistere all’angoscia, Pispisedda se ne rivenne verso la Gancia.
Salvatore La Placa, nello stesso momento in cui don Ciccio Riso saliva sul campanile, s’era buttato, con la squadra della Magione, in via Vetriera, per riunirsi a quelli ch’erano dentro Terrasanta; ma trovando la via sbarrata dal capitano Chinnici e dai compagni d’arme, anzichè indietreggiare aveva tentato di sfondar la compagnia. Così era cominciato un attacco. Nello stesso tempo Sebastiano Camarrone e Giuseppe Aglio si erano buttati sotto l’arco piccolo di Santa Teresa attaccando e facendo sbandare una compagnia di soldati. Ma Salvatore La Placa, colpito da una fucilata, s’arrovesciava mezzo morto sull’acciottolato. I compagni d’arme sorretti da nugoli di soldati, avanzavano sempre e quelli delle squadre badavano a tener testa sparando.
Salvatore La Placa era caduto fra due fuochi! Se giungevano i soldati lo finivano a baionettate. Ma tosto uscivano da una casetta alcuni palermitani pietosi e lo sollevavano e lo recavano dentro. Aveva uno squarcio nel petto e il sangue abbondava. Bisognava farlo ristagnare; e quelli spaccavano una gallina viva e la premevano sulla ferita.
- Per questo, quando nella fuga avevo cercato riparo dentro la casetta, mi fecero tirar diritto, dicendo che ci avevano un ferito. Era dunque La Placa il ferito – disse Pispisedda.
Sbucaron nella piazzetta del Cavallo marino e don Gaetanino tacque. Porta Felice era chiusa da una folla di soldati e anche il tratto di via Toledo, che correva da Porta Felice a piazza Marina, ne era zeppo.
E venivano altri cittadini a sorbire il caffè e a gettar rapidamente altre notizie: don Ciccio Riso era caduto col ventre squarciato da tre palle e col ginocchio spezzato. Il birro Ferro, vedendolo cadere, gli avea avventato un colpo di baionetta. Dei compagni di Francesco Riso, il primo a cadere ferito era stato Giuseppe Cordone; sporgendosi oltre la porta di Terrasanta per meglio tirar sulla truppa, una palla gli avea trapassato il collo. Il convento e la chiesa erano stati saccheggiati; feriti i monaci fra David, fra Luigi, fra Giovambattista, fra Venanzio; percossi tutti gli altri e i soldati s’eran bevuto nel convento più vino che avevano potuto e avean fatto man bassa di tutto: arraffando ogni oggetto degli altari, delle celle, della sagrestia e delle cantine; usando delle tonache dei frati come di sacchi.
Pispisedda scattava ad ogni racconto di nuova infamia e, infine, non riuscendo a durarla chiamò don Gaetanino per allontanarsi.


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1860, al tempo della Rivoluzione siciliana vista da un gruppo di adolescenti.
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice Bemporad nel 1919 ed è arricchita dai disegni dell'epoca di Diego della Valle.
Pagine 511- Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia) Potete contattarci alla mail ibuonicugini@libero.it, al whatsapp 3894697296 o al cell. 3457416697.
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Giuseppe Ernesto Nuccio: Quello che porta la bandiera è don Ciccio Riso...


Pispisedda s’addossò al muro per sentire il contatto d’un corpo qualsiasi, chè gli sembrava d’esser sospeso sull’orlo d’un abisso. Il rimestìo e il vocìo si fecero più vivi. Ognuno afferrava il suo fucile e lo preparava, che già era l’ora.
E nuovamente Pispisedda udì la voce di don Ciccio Riso: – Nicola di Lorenzo e Domenico Cucinotta con una cesta di bombe vadano sul campanile. Gaspare e Giuseppe Mortillaro, Giuseppe Cordone e Francesco Virzì vengano con me alla porta. Gli altri s’appostino lungo i corridoi, corrano alle finestre, sul tetto, dove può occorrere!
Un moto incomposto seguì le parole di Francesco Riso.
Pispisedda scorgeva gli uomini che uscivano a uno a uno, curvi, col fucile nella destra. Quando uscì l’ultimo, Pispisedda rifece rapidamente la strada che aveva fatta e giunse, con quelli che salivano verso il campanile, all’uscio di fra Salvatore, il portinaio. La luce smorta del giorno nascente tentava debolmente le imposte.
Pispisedda si tenne indietro; quelli bussarono.
- Chi è? – domanda una voce tremula di dentro. Ma i due non rispondono. La porticina s’apre e quelli irrompono dentro.
- Presto; conduceteci al campanile!
Fra Salvatore arretrò a vedere i due armati, poi prese la lanterna e si mise in cammino, avanti. Pispisedda li seguiva alla lontana. Ora salivano la scala. La luce della lanterna, portata con mano tremante dal monaco, balzando e squarciando l’oscurità, mostrava quando la volta, quando le pareti, quando gli scalini e proiettava addietro le tre ombre fuggenti, che lambivano Pispisedda. Il silenzio non era rotto che dallo zoccolìo dei tre. A un tratto Pispisedda, ch’era ancora in fondo alla scala, udì la voce di don Ciccio Riso che veniva dal di fuori:
- Viva l’Italia!
E un’altra voce gridare:
- Viva lu Re!
E tosto due colpi di fucile echeggiarono alti, seguìti da un rotolar incessante di altri colpi. Allora i due urlarono a fra Salvatore: – Avanti! – e spingendolo salirono rapidi.
Pispisedda ebbe un momento d’esitazione: quindi tornò risolutamente indietro per accorrere alla porta dove, già, combatteva don Ciccio Riso. Continuavano gli urli fra lo schioppettìo di cui già tremavano i muri del convento. E Pispisedda giù a precipizio. Ma ecco, incontro a lui uno, due, tre uomini: uno porta una bandiera tricolore, tutti e tre hanno i fucili, salgono gli scalini a balzi, eccoli vicinissimi. Pispisedda li scansa. Quello che porta la bandiera è don Ciccio Riso. Pispisedda ritorna a salire di corsa dietro a quelli, ansimando. In cima alla scala i monaci esterrefatti levano le braccia, fanno largo. Quelli passano avanti di corsa. Pispisedda dietro. Ma fra Giovannangelo lo agguanta esterrefatto.
- Dove vai ? Che succede ? Tu che sai? Parla!
Ma Pispisedda vuol correre al campanile, e si divincola; e il monaco gli grida:
- Sta’ queto! Parla! Tu che sai?
E altri monaci lo accerchiano per aver notizie.
Ma piove di lassù lo scampanare e le grida “Viva l’Italia! Viva l’Italia! All’armi! All’armi!” e colpi di fucili rintronano nell’alto e nel basso, e gli echi s’incrociano rotolando lungo le scale. E dalle scale del campanile qualcuno scende urlando: “Coraggio!” E i monaci s’intanano nelle celle, segnandosi e gemendo preghiere. E come uno grida, tutti gridano; e come uno tace, tutti tacciono.
Pispisedda vuol ridiscendere avendo scorto don Ciccio Riso che balza verso la porta col suo fucile; ma fra Giovannangelo avvinghia il ragazzo e se lo tira in una cella gridandogli sempre:
- Tu che sai, Pispisedda? Come è stato? Donde sono entrati?
Ma Pispisedda s’è buttato dietro i vetri e guarda con occhi spalancati. Sul campanile sventola la bandiera tricolore che don Ciccio Riso avea in mano. Dunque è accorso a piantarla lassù e se n’è tornato a combattere. Ecco il crepitìo delle fucilate è più spesso, rotto da grida, da urli e da gemiti. L’attacco deve infuriare da via Vetriera, perchè di là salgono alti nugoli di fumo bianco.
E infuria anche sul campanile donde scende la voce della campana grande; e donde la bandiera sembra che squilli a gloria con i suoi tre colori fiammanti.
Pispisedda adunghia la cimasa della finestra nel guardare; sì, piccoli nugoli di calcinaccio si staccano dal campanile spesseggianti, e a tratti, delle braccia si sporgono e lanciano bombe...


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1860, al tempo della Rivoluzione siciliana vista da un gruppo di adolescenti.
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice Bemporad nel 1919 ed è arricchita dai disegni dell'epoca di Diego della Valle.
Pagine 511- Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia) Potete contattarci alla mail ibuonicugini@libero.it, al whatsapp 3894697296 o al cell. 3457416697.
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Giuseppe Ernesto Nuccio: Francesco Riso raccoglie le armi... Tratto da: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano

Attraversata la Cala, Pispisedda gettò uno sguardo sul Castello a mare, fosco, che pareva urlasse minacce dalle innumeri bocche delle feritoie; ma attorno alla statua del Santo vide alcuni monelli, i quali faceano la ronda con alte, gioconde grida come a sfidar il colosso immane. Giunsero al Borgo. Il mare, a destra, battuto in pieno dal sole, avea vividi riflessi madreperlacei; a sinistra, dinanzi le piccole case dei pescatori, ruzzavan bimbi che parean fusi nel bronzo. In fondo alla piazza, il mercato risonava delle grida alte dei pescivendoli, che vociavano il pesce. Pareva a Pispisedda che, in quel luogo, la gente vivesse più libera che nella città, forse perchè stava sempre al cospetto del libero mare. Invece, più in là, l’immane mole della Vicarìa gettava tutt’intorno un vivo senso d’oppressione, tanto più che Pispisedda ebbe la visione di due occhi foschi dietro un finestrino; forse gli occhi folli di rabbia del povero Rocco.
Finalmente giunsero ai Colli. Giuseppe Bruno stava ad aspettarli.
Esaminò i barili; ma erano tuttavia bagnati. Non potevan recar le cartucce chè l’umidità le avrebbe guaste. E come si riparava? Come? Non c’era che da far asciugar presto i barili. Ma per far quello bisognò correr a Palermo e chiamar don Giovambattista Piazza il bottaio, il quale scoperchiò i barili, che, messi al sole, s’asciugarono ben presto. Allora otto furono ripieni di cartucce e quattro di vino. E si riprese la via del ritorno. Don Giuseppe Bruno e il fratello Domenico s’accompagnarono ai carrettieri. Pispisedda, ch’era rimasto lontano quando avevano riempito i barili e aveva fatto le viste di nulla accorgersi, ora veniva riguardando con aria smarrita quei fratelli Bruno di cui aveva sentito proclamar l’alto coraggio mostrato nella rivoluzione di dodici anni avanti. E bisognava, con quel carico, passar davanti all’uffizio daziario dove le guardie avrebbero saggiato l’interno dei barili. E se si fossero accorti che contenevano cartucce invece di vino? Non li avrebbero tratti immantinente alla fucilazione? Ma così saldo appariva l’animo di quelli, dalla imperturbata serenità dei visi, che Pispisedda non provò un momento di esitazione e accompagnò il cantilenare malinconioso dei carrettieri.
E giunsero all’ufficio del dazio che era accanto alla casina Airoldi. Quando le guardie s’avvicinarono al carro, Pispisedda sentì schiantarsi il cuore e serrò gli occhi. Visse un attimo di ansia vivissima, tese gli orecchi, parendogli d’udire, da un momento all’altro, le grida minacciose delle guardie. Ma non udì che la voce calma del carrettiere “Dodici barili: tutto vino!” e poi: “Baciamo le manu, brigadiere” e le zampate del cavallo e il cigolio delle ruote.... Salvi!
In piazza Ucciardone scontrarono Filippo Mortillaro, Giuseppe Bivona e Giuseppe Virzì.
- È arrivato bene il vino?
- Meglio non poteva arrivare.
Li aveva mandati don Ciccio Riso, il quale viveva in ansia. Giunsero in via Vetriera quattro ore dopo il tocco. Come giunsero, Pispisedda scorse don Ciccio Riso che accorreva incontro a loro con un lampo di viva gioia nell’occhio nero: – Bene! – mormorò; e non disse altro e aiutò febbrilmente a scaricar nella sua casa i barili.


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Luigi Natoli: Il processo a Francesco Riso. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860

Poichè, non ostante un vano divieto, del processo furono già estratte alcune copie, e qualcuna pubblicata, non sarà inutile fermarsi a parlarne con serenità. Gli interro­gatori che figurano nel processo sono tre: il primo è del 5 aprile, e il Riso serbò un rigoroso silenzio; l'ul­timo è del 17, compilato, cioè, dopo il colloquio col Ma­niscalco dal giudice Prestipino, per ordine del governo, come si rileva da una lettera del luogotenente generale dello stesso 17. Ora tra la relazione del direttore di polizia, riprodotta nella citata lettera, e il verbale del giudice Prestipino vi sono notevoli differenze: e soltanto si accordano nei nomi dei creduti componenti del comi­tato segreto; i quali, si noti bene, erano già noti alla polizia, ed erano quelli delle persone arrestate già fra il 7 e il 12, prima ancora, cioè, che il Riso avesse fatte le volute rivelazioni. Nessun altro nome vi figura; pure il Riso avrebbe potuto denunziare il Bruno-Gior­dano, il Tondù, i De Benedetto, il Marinuzzi, il Corteg­giani, l'Albanese, avrebbe potuto rivelare come e dove s'eran preparate le armi; avrebbe potuto dire il nome di chi aveva ferito il Direttore di Polizia. Le rivela­zioni non aggiungevano nulla a ciò che la polizia sapeva da altre fonti; e principalmente da G. Battista d'Angelo uno dei congiurati, che, preso il 4, non resistendo alle torture, fece propalazioni, indicò dov'erano nascoste le armi, fu cagione che la polizia mettesse a prezzo la testa del Bruno; e di lì a non molto fu trovato impic­cato alla inferriata del carcere. Rimorso o giustizia.
Il documento e per le singolari condizioni onde venne redatto, e per la mancanza di forme legali e sopratutto della firma dell'interrogato, che pur sapeva leg­gere e scrivere, dà adito a non ingiustificati sospetti sulla sua autenticità e veridicità, in un tempo in cui la polizia creava anche documenti; e con uomini, conte il Maniscalco, che anelavano raccogliere prove o fabbri­carne, per procedere con estremi rigori contro gli arre­stati, e segnatamente i nobili.
Ho voluto indugiare su queste accuse per scrupo­losità di storico, e per ristabilire la verità; non sti­mando equo, per altro, il rigido giudizio di chi, credendo alle confessioni del Riso od esagerandone la portata, vorrebbe anche disconoscerne il sacrificio. Nessuno di coloro che all'ospedale gli stettero vicini lo credette pro­palatore, anzi il cav. Balsano, il cappellano Chiarenza e i medici curanti, che avevano stabilito intorno al ferito un servizio di quasi spionaggio, negano con testi­monianze scritte, che il Riso abbia fatto le rivelazioni che gli si attribuiscono.
La città, più sicura nei giudizi, ne pianse la morte, e allora e poi l'onorò pel martirio, che segnò la irre­vocabile caduta dei Borboni e l'unità della patria.
Nella foto: Lapide nel cortile della Gancia 


Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano – Raccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 575 – Prezzo di copertina € 24,00
Tutti i volumi della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
È possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia.

Luigi Natoli: Francesco Riso, di bell'aspetto e di gran cuore... Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

Agiato fontanaro, di bell’aspetto, di gran cuore, Francesco Riso era stato attratto nella cospirazione da Giuseppe Bruno-Giordano; e ne era divenuto uno dei più attivi e audaci. Assunto il periglioso incarico, avea preso a pigione un magazzino dei frati della Gancia, contiguo al convento e vicino a casa sua, col pretesto di conservarvi doccionati e strumenti del mestiere, in realtà per depositarvi armi e munizioni; e altro magazzino aveva appigionato alla Magione per lo stesso scopo, dove durante quei giorni di preparazione, lentamente, eludendo ogni vigilanza, s’erano venuti trasportando le armi. E in quello della Gancia, il tre di aprile, in sporte di carbone, furono portate le bombe fuse dallo Chentrens e le mitraglie e i pezzi del cannone di legno, smontato. Le quali armi perciò non si trovavano ancora tutte raccolte, quando il primo di aprile il barone Pisani figlio, per incarico del comitato andò a verificare, per cui, non ricevendo buona impressione corsero parole vivaci fra il Pisani e il Riso: ma il dado era tratto, e non si dovea più aspettare.
La forza di cui poteva disporre l’animoso popolano si trovò essere di poco più che ottanta uomini, che il Riso ripartì in tre squadre; una di venti uomini, capo lui stesso, doveva appostarsi nel magazzino della Gancia; l’altra di cinquanta, alla Magione, e doveva capitanarla Salvatore La Placa, bovaro, audace e valoroso; la terza doveva capitanarla Salvatore Perricone. Delle bombe furono portate nel palazzo Rudinì, ai Quattro Canti, per essere lanciate sulla truppa quando sarebbe scesa dalle caserme: altre armi avevano raccolto i fratelli Carlo e Carmelo Trasselli, nella loro casa, presso la Gancia, dove nella notte del tre aspettavan uomini fidati; e altri uomini presso la porta di Termini dovevano adunarsi coi fratelli Antonino e Serafino Lomonaco-Ciaccio. Di due bandiere cucite da un Impallomeni mercante di berretti, una portava egli stesso, il 3 aprile, al Riso, l’altra consegnava all’avvocato Mancuso, e doveva sventolare ai Quattro Canti.
Gli storici raccolsero che la spia fosse stata un frate della Gancia. È falso. L’equivoco nacque dal vedere il 4 aprile un fra’ Michele da Prizzi col casco dei poliziotti, unito con la sbirraglia; ma fra Michele non era della Gancia. La polizia o per essere più esatti, l’ispettore Catti, aveva ricevuto la denunzia dalla guardia di polizia segreta Francesco Basile, al quale, per imbe­cillità, certi Muratore e Urbano, avevano confidato che il 4 sarebbe scoppiata la rivolta, e lo avevano invitato a unirsi con loro, non sapendo forse che il Basile fosse un agente segreto. E ciò risulta da documenti ufficiali.
Nella foto: La bandiera di Francesco Riso, esposta al museo di Storia Patria


Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana del 1860 fa parte della raccolta: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
Il volume comprende le seguenti opere nelle versioni originali:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. I Buoni Cugini
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 525 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it. Puoi contattarci alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o al whatsapp 3894697296
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. 

Luigi Natoli: Chi ruppe l'indugio fu Francesco Riso... Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

La sera del 31 marzo, in casa Albanese, conveni­vano Giambattista Marinuzzi, Casimiro Pisani, Giuseppe Bruno-Giordano, Andrea Rammacca, Antonino Lomo­naco-Ciaccio, Antonino Urso, Ignazio Federico, France­sco Perrone-Paladini, Silvestro Federico; e deliberarono d’insorgere tra il 6 e il 7 di aprile. La deliberazione da Casimiro Pisani venne comunicata a Messina, per­chè si tenesse apparecchiata, e insorgesse a un dispac­cio che annunciava “il matrimonio della figlia”. I comi­tati dei dintorni vennero avvertiti: ma ecco, la sera del 2 la polizia arresta Mariano Indelicato uno dei cospiratori; Casimiro Pisani, avvertito per confidenza di un amico del suo imminente arresto, si mette in salvo col padre, dopo avere deposto ogni incarico nelle mani dei fratelli Lo Monaco. Parve non doversi aspettare oltre, e fu decisa l’insurrezione pel 4 aprile, mercoledì santo. Chi ruppe l'indugio fu Francesco Riso.
Era stato dapprima destinato a capitanare le squadre di Misilmeri; ma quando si cercò chi dovesse dare il segno della rivolta in Palermo e affrontare il fuoco pel primo, volle per sè questo onore. A Misilmeri doveva andare Domenico Corteggiani, ma fu sostituito da An­tonino Ferro, attivo e ostinato cospiratore in quel de­cennio. Francesco Riso aveva accumulato intanto le armi in un magazzino da lui tolto a pigione accanto al convento della Gancia, donde con gli uomini della sua squadra doveva dare il segno.
Una leggenda narrò che i frati fossero consapevoli e partecipi della cospirazione; un'altra che un frate avesse denunciato a Maniscalco gli apparecchi, il luogo il giorno della insurrezione. E non è vero. I frati non seppero nulla fino all' alba del 4 aprile; e la denun­cia fu fatta dallo agente segreto Basile, al quale certi Muratori e Urbano, la mattina del 3, ignorando che fosse una spia, confidavano ogni cosa. Probabilmente la leggenda nacque dal vedere, la mattina del 4, un frate col famoso berretto imposto da Maniscalco alle spie. Si chiamava fra Michele da Prizzi, ma non era della Gancia.
Maniscalco reggeva in quei giorni il governo, per l'assenza del luogotenente generale Castelcicala: finse non saper nulla, ma convocò un consiglio di generali. Nella notte dal 3 al 4 fece circondare il convento della Gancia e le strade adiacenti. Riso aveva in tutto ottan­tadue uomini divisi in tre squadre: una di cinquanta­due capitanata da Salvatore La Placa, uomo di grande audacia, s’era radunata in un magazzino alla Magione; la seconda di dieci, in una casetta nella via della Zecca; la terza di venti uomini con lui nel magazzino della Gancia. Altre squadre dovevano adunarsi qua e là; una nel vicino palazzo S. Cataldo, presso Carlo e Carmelo Trasselli; altra alla Fieravecchia coi fratelli Lomonaco. Si doveva cominciare con l’impadronirsi del Commis­sariato e del corpo di guardia di Porta di Termini, per aprire libero il passo alle squadre di Misilmeri e Baghe­ria concentrate alla Guadagna e al ponte delle Teste. All'alba Riso fu avvertito che erano circondati dalle truppe: non si sgomentò, disse che non era tempo di ritrarsi: egli avrebbe dato l'esempio: se lo vedevano tremare, l'uccidessero. E per vedere come stessero le cose, uscì dal suo magazzino. S'imbattè in una pattu­glia di compagni d'armi e soldati: “Chi viva”? – “Viva il re”! – dicono. – “Viva l’Italia!” – rispon­de. Si fa fuoco: un birro, certo Cipollone, cade. Così comincia la mischia. Riso e quel pugno d'uomini sosten­gono l’assalto delle truppe regie: Domenico Cucinotta e Nicola Di Lorenzo salgono sul campanile e suonano a stormo. Accorre Salvatore La Placa con la sua squa­dra; cade ferito gravemente: mani pietose lo raccol­gono, lo celano, lo curano. Questo eroico giovane, sot­tratto così alla morte, il 27 maggio riprenderà il suo posto di combattimento, e sarà ferito ancora una volta.
Cadono Michele Boscarello, Damiano Fasitta, Matteo Ciotta, Francesco Migliore, Giuseppe Cordone, un Ran­dazzo: Riso dopo esser corso al campanile a piantarvi il tricolore, scende, si batte, cade ferito da quattro colpi all'addome e al ginocchio; un birro, che qualcuno dice l’Ispettore Ferro, gli è sopra, gli ruba l'orologio, e gli dà una bajonettata all'inguine.
Qualche ora dopo il combattimento era finito. Per vincere questo pugno d'uomini, c'eran voluti un batta­glione di linea, un plotone di cacciatori a cavallo, una sezione d'artiglieria, compagni d'armi, gendarmi e birri; c'era voluto un generale, il Sury; s'era dovuto atter­rare una porta con gli obici, e un obice il tenente Bian­chini aveva dovuto portare fin sopra al convento!
Le soldatesche si abbandonarono all'orgia del sac­cheggio e della strage: finirono a bajonettate uno dei caduti, ancor vivo; uccisero un frate, Giovannangelo da Montemaggiore, altri ne ferirono; il resto percossero, sputarono, legarono, trascinarono al comando di Piazza e alla Prefettura di polizia, insieme coi ribelli presi.
La città sgomenta non seguì il moto. Il comitato si sbandò. Qualcuno che doveva capitanare una squadra si ecclissò: comparve dopo il 27 maggio, nelle sale del Municipio, vestito di velluto all’Ernani, e n’ebbe ricom­pensa: gli altri, disanimati dal vedere scoperta la trama, creduta l’insurrezione domata in sul nascere, giudicaron vano ogni altro tentativo.
Ma nei dintorni della città seguirono fieri scontri, in quello e nei giorni successivi, fra le squadre e le colonne mobili, spedite dal generale Salzano, coman­dante in capo...


La Rivoluzione siciliana del 1860 fa parte di:
Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano – Raccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" I Buoni Cugini 2020
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (1938)
I più piccoli garibaldini del 1860 (1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (1927)
Pagine 575 – Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Tutti i volumi della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
È possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia

Luigi Natoli: L'alba del 4 aprile 1860. Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

E venne l’alba del 4, dopo una notte che dovette parer lunga alle anime, aspettanti fra le armi il segnale convenuto. Avevano esse il presentimento che il loro segreto era stato tradito? Forse l’ebbe Francesco Riso, l’aveva avuto anzi qualche giorno prima, quando all'avvocato Pennavaria aveva detto “Ho dato la mia parola, e sebbene son per­suaso che nel pericolo mi abbandoneranno, non la ri­tiro”.
Poco prima dell’alba, Riso mandò qualcuno a esplo­rare la vicina piazza della Fieravecchia dove doveva essere sparato il mortaretto: il messo la trovò deserta, il che parve cattivo indizio, e scorò qualcuno; ma fu un baleno. Alle cinque del mattino, Riso mandò sul cam­panile della chiesa Nicola Di Lorenzo e Domenico Cu­cinotta con bombe all’Orsini, appostò là altri com­pagni, e si avviò con alcuni de’ suoi alla porta d’uscita. Al suo apparire una pattuglia di compagni d’armi in agguato gridò: – Alto, chi va là? – Rispose: – Chi viva? – Viva il re! –Viva Italia! – ribattè il Riso, e tirò due colpi di fucile, che uccisero il soldato Cipollone. Fu il segno dell'attacco. Il Di Lorenzo ed il Cucinotta suonano a stormo le campane; il Riso corre al cam­panile, e piantata la bandiera tricolore, ritorna giù a so­stenere il fuoco: cadono Giuseppe Cordone, Mariano Fasitta, Matteo Ciotta, Michele Boscarello e Francesco Migliore. Agli spari e allo scampanio, accorre per la Vetriera la squadra della Magione: Sebastiano Camar­rone e Giuseppe Aglio, audaci, girando sotto l’arco pic­colo di S. Teresa, respingono un plotone di soldati; ma invano. Cade Salvatore La Placa, ferito al petto, e raccolto da pietosi e celato, scampa così all’eccidio. Guaritosi appena, corse poi a raggiungere le squadre, com­battè il 27 maggio a Porta Carini, e fu ferito alla gamba.
La squadra della Zecca, uscita anche essa, trovatasi di fronte al grosso della truppa, e non potendo affron­tarla si disperse.
Tra il fumo, gli spari, gli urli, parte della squadra ripara nel convento. Il Riso grida energicamente: “Co­raggio; la città sta per insorgere; sostenetemi tre ore di fuoco, e saremo salvi”.
E intanto le campane squillavano sulle fucilate, e pa­reva chiamassero disperatamente la città, che o impre­parata o sgomenta non si moveva, e lasciava compiere il sacrificio; squillavano, terribile voce di libertà, non ostante la sconfitta. ll generale Sury appunta i cannoni contro il campanile per far tacere le campane: atterra la porta del convento con gli obici, e allora i regi, fanti, cacciatori, artiglieri, compagni d'arme si lanciano all'as­salto. Per snidare gl'insorti, il tenente Bianchini porta a braccia un obice sul piano superiore del convento. Gl' insorti si sbandano: Giuseppe Virzì e Bartolomeo Castellana, sbarazzatisi delle armi, si buttan dall'alto e si rompono le gambe: raccolti da buona gente e oc­cultati, e dopo alcuni giorni portati all'ospedale come muratori precipitati da una fabbrica, così scamparono alla strage. Francesco Riso, colto da quattro palle al ventre e al ginocchio cade. La sua caduta mette fine alla resistenza.
Caddero in poter loro alcuni insorti: testimoni oculari narrano di un birro, che rubato l’orologio al Riso, caduto per terra, lo ferì di baionetta all’inguine; e di un altro che finì ferocemente un giovane insorto ferito e impotente a muoversi...



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I più piccoli garibaldini del 1860 (1931)
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