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venerdì 22 novembre 2019

Luigi Natoli: Gli arresti dopo la rivolta di Giuseppe Campo e il tentato omicidio dell'ispettore Maniscalco. Tratto da: Rivedicazioni

Seguì la reazione. Molti come Tomaso Di Chiara, Enrico Amato, Salvatore Di Cristina (venuto poi anch’esso coi Mille) esularono; altri si nascosero. Giambattista Marinuzzi, ostinato nel cospirare, infaticabile, attivo, presente dovunque, eluse ogni ricerca; i fratelli De Benedetto si celarono nelle loro terre, presso Torretta, dove attesero a tener vive le fiamme della rivoluzione in tutti i comuni vicini.
Molti gli arrestati, per denunzia di un tristo, tra i quali Onofrio Di Benedetto, Gioacchino Siguro, il conte Federico, il vecchio padre dei Campo, Giovan Battista Alaimo e Salvatore La Licata o Alicata, che doveva capitanare le squadre dei Colli. L’arresto del quale avvenne in modo drammatico e vile. Era egli nascosto sotto una botola in casa di un guardiano della contessa di San Marco, dove piombati i birri, legato il guardiano e percossolo, nulla poteron sapere; onde si impadronirono della giovane ed avvenente moglie di costui, e, riuscito vano strapparle una delazione a furia di nerbate, la trascinarono all’aperto e cominciarono a spogliarla. Ella taceva; ma quando quei manigoldi furor per torle la camicia, e denudarla agli occhi di tutti, il suo pudore non resistette all’oltraggio, e indicò la botola. Il La Licata fu sottoposto a torture che fanno rabbrividire, e fu ridotto in pochi giorni a fin di vita, egli che era robusto e aitante: ma non rivelò nulla; e dei supplizi patiti fu avvertito il procuratore generale, sebbene senza frutto. Fra gli arrestati fu anche Paolo Paternostro, tornato da non molto da Tunisi, e con altri messosi a capo dell’agitazione in Misilmeri il quale, indi a non molto, reclamato dal console ottomano, perché avendo occupato cariche nella Reggenza, lo considerava come suddito della Sublime Porta, fu scarcerato ed espulso dal regno, non riuscendosi a trovar contro di lui gravi elementi di accusa.
Villabate, rea della parte presa, fu data in balìa dei compagni d’arme, che si installarono nelle case private, mangiando, bevendo, spillando danari e violando le fanciulle.
Si iniziò vasto processo, che rinnovando timori e sdegni, fece nelle secrete adunanze in casa del Lomonaco-Ciaccio, ventilar l’idea di sopprimere il Maniscalco; ritenendosi che la morte violenta di lui avrebbe troncato le persecuzioni feroci, e diffusa grande paura negli agenti della polizia.
Il pensiero era tristo, ché l’assassinio, anche se compiuto per fini politici, è sempre riprovevole; e nessuno del comitato, né il Lomonaco, né i De Benedetto, né altri si sentivano di tradurlo in atto, per natural ripugnanza. Ma si offerse o si trovò un braccio in un giovane, che per aver patito violenze poliziesche, avea ragioni d’odio contro Maniscalco. 
Era un tal Vito Farina, inteso Farinella; il quale appostato più volte il Maniscalco, finalmente la sera del 27 ottobre, lo ferì alle reni, dietro il Duomo. La ferita fu lieve; il Maniscalco però ne ebbe l’animo inacerbito. Tuttavia il Farinella, per quanto ricerche si facessero non fu mai conosciuto; e arrestato nei primi di dicembre, non fu neppure sospettato d’esser l’autore del colpo, che forse si credette ordinato dalla nobiltà. La cittadinanza, sperando essersi sbarazzata del tremendo direttore di polizia, non ebbe neppur la prudenza di celar la gioia; e il governo se ne adontava.

Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. 
Pagine 575 - Prezzo di copertina €24,00
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giovedì 21 novembre 2019

Luigi Natoli narra di Vincenzo Fuxa, figura presente del Risorgimento siciliano

Nell’agosto del 1855 l’emigrazione siciliana e calabrese, come seppe di poi la polizia da un Salvatore Mondino arrestato, disegnava una spedizione nell’isola; e alle adunanze che si tenevano a Genova, in casa Colonna, intervennero “l’avventuriere Garibaldi” e dei nostri Rosolino Pilo, Emerico Amari, Luigi Orlando, Francesco Ferrara, il principe di Scordia, Michele Bertolani, Vincenzo Fuxa, ai quali altri si aggiunsero, fra cui lo stesso propalatore. Propugnava il Pilo uno sbarco a Castellammare del Golfo; per cui si inviavano emissari a Nicola Fabrizi in Malta, e in Sicilia. Ma per varie circostanze, la spedizione non ebbe più luogo per allora, e gli scarsi mezzi di cui disponevano i cospiratori, si consumarono fra viaggi e insuccessi.
Nella battaglia di Calatafimi: Dopo il combattimento di Calatafimi, Garibaldi ordinò al La Masa di percorrere la provincia di Palermo, per suscitarvi la rivoluzione; il La Masa, scelse a compagni Vincenzo Fuxa di Bagheria, anche lui dei mille, piccolo, cavalleresco, audace, guizzi di fiamme gli atti e le parole; Pietro Lo Squiglio, cuor provato a tutti i cimenti; Giacomo Curatolo, veterano del 48; il barone Di Marco, cospiratore infaticabile che aveva sollevato Mezzojuso; i due fratelli La Russa e qualche altro: tutta gente questa che era andata incontro al Dittatore in Salemi, e si era già battuta a Calatafimi. 
Intanto si diffondevano per l’isola i proclami di Garibaldi “All’Esercito napoletano”, “Ai buoni preti”, “Agli Italiani”; altri se ne diffondevano del La Masa; quelli vibranti, a scatti: questi un po’enfatici: ma gli uni e gli altri sollevavano entusiasmi. Per eseguire gli ordini di Garibaldi, La Masa ordinava che le squadre dei vari comuni si concentrassero a Misilmeri, dove la cittadinanza e il municipio le accoglievano con fraterna esultanza. Ivi l’attivo ricostituito comitato rivoluzionario, occultamente dopo l’insuccesso del 4 aprile, palesemente al rinnovarsi delle speranze dopo la vittoria di Calatafimi, si era dato con ogni possa al lavoro per assicurare il trionfo della rivoluzione: e Misilmeri con Roccapalumba e Termini divise i sacrifici e la gloria di aver ordinato, sorretto, mantenuto il campo di Gibilrossa.
A fianco di Garibaldi: Il Fuxa intanto si recava in Bagheria, vi proclamava la dittatura di Garibaldi, nominava il comitato per l’amministrazione e la sicurezza, e formata una squadra la conduceva al campo di Gibilrossa dove continuamente giungevano dalle campagne e da Palermo altri armati, sicché in breve raggiunsero la somma chi dice di cinque, chi di quattromila; ma sulla scorta di documenti è facile indurre che furon meno. La Masa battezzò quella gente “2° Corpo dell’armata nazionale”, l’ordinò militarmente per quanto fosse possibile, con uno stato maggiore, un’intendenza, un corpo sanitario, uno di guide: il comando degli avamposti diede al Fuxa; a capo dello stato maggiore pose il Salvo: all’intendenza Pasquale Mastricchi antico patriotta. ran quasi tutti giovani contadini, i quali il vezzeggiativo del dialetto, picciotti, che significa “giovani” resero storico; erano incolti, e non avevano un’idea chiara del fine di quella rivoluzione: ma è una piacevolezza, e null’altro, rappresentarli cenciosi e a piedi nudi; mentre è saputo che i nostri contadini non vanno mai scalzi, e che in quei giorni furon largamente provveduti di vestiti e anche, per la stagione insolitamente fredda e piovosa, di cappotti; ed è qualcosa di peggio che piacevolezza, dire che essi credevano l’Italia moglie di Garibaldi!...
Al campo di Gibilrossa: Ma ciò che l’Eber non poteva sapere, e che non è meno vero per questo, è che la mattina del 26 qualche membro del Comitato andò al campo di Garibaldi per concretare i segni coi quali la città doveva essere avvertita dalla prossima discesa dei legionari; e che uno dei pretesi ufficiali inglesi era il giovane Michele Pojero travestito; il quale, come narrerò in altro luogo, portò a Garibaldi una pianta di Palermo, che s’era cinta a una gamba; cosicchè il generale sapeva quali e quante fossero le forze borboniche dalla parte di Porta di Termini, e come disposte; e sapeva che la resistenza sarebbe stata facilmente superabile. Il 26 maggio, il comitato a Palermo, sapeva già della prossima entrata di Garibaldi; il popolo, pur non avendone la certezza, sospettava qualche cosa; chi non sapeva nulla era il governo, che non trovò più un cane di spia. L’ultima spia fu un corriere postale, che passando il 25 da Misilmeri, e trovativi i capi delle squadre, il La Masa, il Fuxa, e tutte le forze rivoluzionarie, ne riferì a Maniscalco. Ma il governo non osò assalire gli insorti, perchè era prevalso il concetto di non dislocare le truppe da Palermo; tanto più che vi erano già fuori i famosi battaglioni di von Meckel e le colonne distaccate a Morreale e Boccadifalco.
All'adunanza delle squadre a Gibilrossa: In cinque giorni il La Masa disciplinò alla meglio quel corpo irrequieto e inadatto a un vero ordinamento. Gli diede uno stato maggiore, un corpo di guide, una intendenza, una ambulanza. A capo vi erano uomini provati, che in tutte le campagne garibaldine diedero esempi di valore eroico: Luigi La Porta, Vincenzo Garuso, Liborio Barranti, Luigi Bavin Pugliesi(129), Gaspare Nicolai, Nicolò Di Marco, Giacomo Curatolo, Vito Signorino, Ignazio Quattrocchi, Rosario Salvo, Domenico Corteggiani, e cento altri. V’era Vincenzo Fuxa, venuto coi Mille, e Pasquale Mastricchi, zio dei Campo, veterano delle cospirazioni, che Garibaldi chiamò il “vecchio di Gibilrossa”. Come si vede non si tratta d’accozzaglia rumorosa, turbolenta, inadatta, e stracciata come spacciò il De Cesare, a cui nella “Fine d’un regno”  piacque di celiare: si tratta di una organizzazione, non certamente perfetta, ma neppure tale da esser desiderabile farne a meno.
Garibaldi ci contò: e fece bene.
Alla presa di Palermo: I regi si ritirarono verso il convento di S. Antonino, dove era il grosso della difesa; e dietro la barricata, ma non per questo è libero il passo. Il generale in capo avvisato di quanto avveniva, ordinato al Marra di difendere le posizioni, gli manda in rinforzo un battaglione dell’8°; ma non per questo si può riprendere l’offensiva. I regi piegano, Garibaldi spedisce Fuxa, il temerario, coi “picciotti”, attraverso i giardini, dalla parte della Villa Giulia; altre squadriglie, per gli orti e i giardini, verso S. Antonino; altri picciotti e volontarii occupano le case dello stradone, donde possono saettare la barricata; il fuoco è vivo da ogni parte: dalla barricata i regi spazzano lo stradale dei Corpi Decollati. Tuköry, il nobile ungherese, dinanzi ai suoi, dopo aver oltrepassato il ponte, si avanza; una palla gli rompe il ginocchio; cadono feriti lì presso Benedetto Cairoli, Giorgio Manin, Stefano Canzio, Daniele Piccinini; Bixio è ferito anch’esso. 
Intanto i “picciotti” del Fuxa, attraversati gli orti, si gittano dentro la Villa Giulia, donde, sfidando audacemente la mitraglia della nave regia, irrompono nella città, entrando dalla Porta Reale prossima al mare. Sono circa le sei del mattino, e Garibaldi con Türr, con lo stato maggiore entra nella città già occupata dai suoi, e si ferma in piazza della Fieravecchia. Bixio intanto ha spinto i volontari fino alla via Toledo, incalzando i regi: il prode Mondino, raggiunto dai fratelli Michele e Gaetano, giunge con la sua squadriglia pel primo a Piazza Bologni, e ne scaccia il generale Landi, che si ritira al Palazzo reale. Per ogni parte si diffondono i volontari, coi picciotti, per animare la città, che ancora sonnolente e silenziosa, non pareva persuasa di quel miracolo.
Chi fu mandato pei giardini per proteggere alla sinistra i volontari, fu l’abate Rotolo, con la squadra dei Lercaresi, il quale costrinse la cavalleria appostata nella strada del Secco, a fuggire: a destra fu mandato Vincenzo Fuxa, alla testa di altre squadre, che attraversati gli orti, si gittò nella Villa Giulia, donde superando lo stradone di S. Antonino, ora Via Lincoln, spazzato dalla mitraglia, entrò in città dalla porta Reale, quasi nel tempo stesso che Garibaldi entrava da Porta di Termini.


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. 
Raccolta di scritti storici e storiografici nelle versioni originali dell'epoca. 
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 24,00
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Giuseppe La Masa: la casa paterna di Trabia gli fu bruciata nei movimenti reazionari del 1820...

Da sicure fonti storiografiche, a proposito della famiglia di Giuseppe La Masa riportiamo queste informazioni: 
Giuseppe La Masa nacque in Trabia il 30 novembre 1819, da Andrea La Masa ed Anastasia Pitissi.
La casa paterna di Trabia gli fu bruciata nei movimenti reazionari del 1820, ed i suoi genitori rimanevano, in seguito, vittime di quelle patrie sventure. Il bambino Giuseppe fu miracolosamente salvato dall'incendio da una familiare, Antonia Rinella Sunzeri, e nascosto in un vicino granaio. Raccolto insieme a due sorelline dagli zii materni, visse in Termini fino all'età di 11 anni. 
Appartenevano i La Masa ad antica e liberale famiglia siciliana dimorante in Termini, dove esisteva, fino a pochi anni addietro, la casa avita, situata a sinistra dell'antico Stabilimento dei Bagni termali di quella città. Però nel 1877 il La Masa, con nobilissimo pensiero, donò al Municipio di Termini Imerese, che aveva deliberato d'ingrandire lo Stabilimento dei Bagni Termali, le due terze parti a lui spettanti di quella casa che ricadeva nel piano di espropriazione. "Volendo con ciò dar prova di affetto verso la detta città di Termini Imerese, illustre per tante memorie e che fin dal 1848 lo coadiuvò efficacemente nell'opera del risorgimento nazionale". 
La casa paterna di Trabia gli fu bruciata nei movimenti reazionari del 1820, ed i suoi genitori rimanevano, in seguito, vittime di quelle patrie sventure. Il bambino Giuseppe fu miracolosamente salvato dall'incendio da una familiare, Antonia Rinella Sunzeri, e nascosto in un vicino granaio. Raccolto insieme a due sorelline dagli zii materni, visse in Termini fino all'età di 11 anni. 
Egli ritenne sempre Termini come patria adottiva "Trabia e Termini" egli scrisse "sono la mia terra natale". 
In questa casa, in vendita a Trabia, c'è una lapide che indica il luogo di nascita del La Masa, senza la data in cui è stata posta. Ma sulla fonte storica da cui abbiamo tratto queste informazioni noi non abbiamo dubbi… 

martedì 29 ottobre 2019

Giovanni Raffaele: Lo strumento angelico. Tratto da: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni

Figura 1. – Lo strumento angelico risulta da due righette di ferro (A A) quadrilunghe, lunghe sei pollici circa, larghe mezzo pollice. Dalla righetta inferiore, sorgono tre aste di ferro, due agli estremi, l’altra al centro. Di queste aste la centrale B è quadrata, le estreme (CC) rotonde ed a vite. La righetta (X) superiore ha tre fori, uno centrale quadrato, due agli estremi rotondi corrispondenti per forma e grandezza alle aste. Più, vi sono due pezzetti di ferro D D quadrati che girano nelle aste esterne a vite.
Quando si deve applicare lo strumento non si fa altro, che fare immettere i pollici del paziente, fino al punto centrale del corpo della prima falange fra i due spazi che lasciano le tre aste e poscia abbassando la righetta superiore facendo girare sulla stessa i pezzetti di ferro quadrato si comprimono orribilmente i pollici. (Vedi Figura 3).
I tormenti che risultano sono indicibili, perchè questo diabolico strumento di tortura, arriva a triturare le ossa.
Fig. 2a. – Chiave che serve per fare girare i pezzetti di ferro quadrati nelle aste a vite.


Giovanni Raffaele: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni ovvero Un periodo di cronaca contemporanea. Nella versione originale pubblicata dalla Tipografia dell'Unità Politica (1862)
Pagine 110 - Prezzo di copertina € 11,00
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lunedì 29 luglio 2019

Giovanni Raffaele: La cuffia del silenzio. Tratto da: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni. Un periodo di cronaca contemporanea.

Non bastando al Baiona un cassettino di strumenti di tortura che si portò da Palermo, per non essere assordato e disturbato nelle sue inique operazioni dalle grida dei tormentati, immaginò uno strumento atto a chiuder la bocca, che subito fece eseguire ad un artefice in quella città.
Il quale strumento, nuovo nuovissimo in questo genere, e di cui vi acchiudo il disegno, fu applicato per la prima volta al signor Giuseppe Lo Re, e poi ad un certo De Medici. (v. Fig. 1° e 2°)
Fig. I.
ab) Cerchio di acciaio, che si allarga e restringe nel punto B per adattarsi alle teste di diversa grossezza.
c) Mentoniera di fil di ferro destinata a chiudere la bocca, serrando forzatamente la mascella inferiore contro la superiore.
d) Correggia di cuoio per assicurare la mentoniera dietro il collo del paziente.
e) Semicerchio di acciaio per mantenere fermo sulla testa il cerchio AB: in esso trovasi una vite di richiamo per inalzare la mentoniera fino ad impedire l’apertura della bocca ed i gemiti del torturato.
Fig. II.
La figura seconda presenta lo strumento applicato.
Il primo di questi due disgraziati fu talmente seviziato che restò lungamente privo di sensi; per cui un birro credendolo morto, o prossimo a morire, senza licenza del Baiona corse a cercare un medico ed un confessore. All’arrivo dei quali, il Baiona lasciò libero il torturato, ma il birro fu severamente punito. Un largo salasso praticato all’infelice Lo Re, e gli aiuti prodigatigli dal buon prete, e dal medico, lo richiamarono in vita.


Giovanni Raffaele: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni. Un periodo di cronaca contemporanea.
Pagine 110 - Prezzo di copertina € 11,00
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Giovanni Raffaele: Come furono trattati i compagni di Bentivegna? Tratto da: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni

Mi dimandate come furono trattati i compagni di Bentivegna che si presentarono spontaneamente, e quelli che furono arrestati dalla forza armata: infine vorreste sapere qualche notizia dei profughi; ed io che non ho nè speranze, nè timori, colla mia solita imparzialità rispondo alle vostre dimande.
Dopo il giudizio di Bentivegna, cambiato, come in altra mia vi scrissi, il presidente del Consiglio di guerra, si procedè subito al giudizio di Salvadore Guarnieri, uno dei capi dell’insurrezione di Cefalù, e fu condannato a morte. Ma siccome l’avvocato che lo difese, chiudeva il suo discorso dicendo:
«Io vi ripeto che l’ordinanza in forza della quale volete giudicare, non è più in vigore: e quando anche lo fosse, la gran Corte criminale ammise la vostra competenza per l’articolo 13 della stessa ordinanza: voi dunque, se condannerete l’accusato, non potete dispensarvi di farne rapporto al Re, come nell’istesso articolo si prescrive. Non voleste farlo per Bentivegna, e si commise così un omicidio; vorreste ora commetterne un secondo!»
Queste ardite parole, che in altri tempi avrebbero provocato la persecuzione dell’oratore, in questi tempi in cui la Francia e l’Inghilterra minacciano d’intervenire ovunque, nell’interesse dell’Umanità e della Civilizzazione, queste parole, io dico, produssero l’effetto desiderato. Il Consiglio di guerra condannando a morte il Guarnieri, lo raccomandava alla clemenza del re.
Della banda di Mezzoiuso manca un certo La Porta, che trovandosi allora a domicilio forzoso in Ciriminna, la polizia suppose che prese parte all’insurrezione, e diede ordine per arrestarlo: ma egli riuscì a salvarsi, ed ora si crede che si sia imbarcato e partito per l’estero.
Della banda di Cefalù mancavano Civello, i due fratelli Botta, Spinuzza, i due fratelli Maggio, un fratello di Guarneri. Il governo che li supponea sempre nel distretto di Cefalù, e attribuiva a pigrizia, e forse anche a connivenza di Gambero capitano d’armi di quel distretto, il non essere stati ancora arrestati, lo sospese, e vi spedì da Palermo l’ispettore di polizia Baiona, figlio di quel Baiona che fu iniquo strumento di tutte le laidezze di quell’Artale marchese ricordato da Botta, e il capitan d’armi Chinnici con trenta compagni.
Le iniquità che han commesso questi due uomini sorpassano ogni credenza umana. I più crudeli mezzi di tortura sono stati da essi adoperati sopra parenti e amici dei profughi per strappare dalla loro bocca la rivelazione del ricovero degli stessi. Il carcere di Cefalù ribocca di arrestati e di torturati…


Giovanni Raffaele: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni. Un periodo di cronaca contemporanea.
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Giovanni Raffaele: Rivolta e persecuzione del barone Francesco Bentivegna. Tratto da: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni

Eludendo ogni vigilanza della polizia, in novembre il Bentivegna percorse per l’ultima volta tutti i Comuni di Sicilia che doveano rispondere allo appello, e coi capi dei Comitati stabiliva d’inalberare la bandiera tricolore, contemporaneamente il 12 gennaro 1857 come anniversario della rivoluzione del 1848; menochè circostanze imprevedute non obbligassero di ritardare, o accelerare il movimento. Egli il 16 novembre fu in Palermo, domicilio inibitogli dalla polizia, la quale ne ebbe sospetto e lo cercò; ma non giunse ad arrestarlo, e fu giocoforza contentarsi di accrescere la sorveglianza, e di sospendere l’Ispettore di Corleone sig. Petini cui sin allora era stata affidata.
A vista dell’imminente pericolo di essere scoperto ed arrestato, il Bentivegna giudicò non potere più oltre differire il cominciamento dell’opera sua, per cui sabato 22 novembre alle ore 8 della sera, aiutato dal cavaliere Dimarco, da’ fratelli Figlia, e Romano zio e nipote, ricchi proprietari, inalberò la bandiera tricolore ed alla testa di 300 persone armate entrò in Mezzojuso. L’indomani domenica 23 tutte le Comuni ove Bentivegna potè far giungere la notizia della inaugurata rivoluzione risposero allo appello, e così il vessillo tricolore si vide sventolare a Villafrate, a Bocina, a Ventimiglia, a Mezzojuso, e poi a Cefalù, a Roccella e Collesano.
Ma da un canto, la prontezza con cui, mercè i mezzi de’ quali il governo disponea, potè far giungere le sue truppe su i luoghi dell’insurrezione; dall’altro lato, le piogge dirotte e prolungate che ingrossando i fiumi li rendeano impraticabili e impedivano che le notizie si comunicassero ai paesi più lontani e che la rivoluzione rapidamente si diffondesse, furon causa che la rivolta si arrestasse sul suo nascere. Nei paesi lontani e pronti ad insorgere, la notizia che la rivoluzione era stata compressa, arrivò prima che si sapesse di essere stata inaugurata.
La banda Bentivegna così si sciolse spontaneamente, e lo stesso avvenne delle altre di Cefalù, e di Roccella. Le truppe entravano in Mezzojuso il dì 24 novembre, e qualche giorno appresso a Cefalù, e con essi birri, ispettori e commissari di polizia.
Ripristinato il governo locale, quel giudice fece rapporto dell’accaduto al Procuratore generale della gran Corte criminale di Palermo, e questi facendo uso de’ suoi poteri, ed anche stimolato a farlo da ministeriale del governo del 28 novembre, autorizzava uno de’ suoi membri, il giudice Barcia, a portarsi sul luogo, e ovunque il bisogno lo richiedesse per istruire il processo. Così la Corte criminale si trovava in possesso del reato, non solo perchè avea fatto uso de’ suoi poteri, ma ancora perchè il governo l’avea ordinato: ed ordinandolo mostrava essere convinto che il reato fosse di competenza della suddetta Corte.
Alcuni individui delle disciolte bande si presentarono spontaneamente, o per dir meglio per le sevizie della polizia che esercitava sui padri e sulle madri, sui figli, sulle figlie e sulle sorelle dei profughi. Sono di questo numero Guarnieri, Dimarco, Guggino. Di molti altri non si ha notizia, specialmente di Civello da Roccella, di Spinuzza, e di due fratelli Botta da Cefalù. Le sevizie usate dalla polizia alle sorelle di questi tre ultimi sono rimaste senza risultato.


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Giovanni Raffaele: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni. Un periodo di cronaca contemporanea

La Campana della Gancia del 26 marzo annunziò semplicemente la scoperta di alcuni strumenti di tortura, fatta nel Castello di Palermo dall’avvocato Nani Veneziano, fra quali la Cuffia del Silenzio.
Un giornaletto prese subito negozio, e venne fuori facendo festa con un articolo di fondo, nel quale l’autore, a vista di questa scoperta, dicea –  di aver tanto maggior motivo di rallegrarsene, che non essendo estraneo alla compilazione di un libro che menò assai rumore in Europa: la Torture en Sicile par M. De La Varenne, vede che i fatti vengono adesso ad appoggiare vittoriosamente la veracità delle sue corrispondenze.
Ma l’autore di questo articolo non ignorava chi fu il primo che denunziò all’Europa l’esistenza della Cuffia del Silenzio e ne pubblicò il disegno e la descrisse. Egli non ignorava quanto tempo prima della pubblicazione dell’opuscolo di De La Varenne fu pubblicato il nostro lavoro che veramente fece il giro dell’Europa e la commosse, e al quale attinsero notizie Mr. De La Varenne e il suo corrispondente Palermitano. (Le nostre pubblicazioni fatte contemporaneamente nel Corriere Mercantile, e nell’organo officioso di Palmerston il Morning Post rimontano al 1856-57. Le pubblicazioni del De La Varenne sono del 1860.)
Eppure di tutto si parla dal signor De La Varenne, dal suo corrispondente, e dall’autore dell’articolo, menochè della sorgente cui attinsero le notizie. Tanto è potente lo spirito di parte! Così si scrive la Cronaca contemporanea!!
Niente di più penoso quanto il parlare e scrivere di sè stesso; ma quando l’ingratitudine, l’ingiustizia degli altri ci obbliga a farlo non c’è rimedio; bisogna rivendicare quel che ci appartiene, prendere il posto che ci spetta; e però ripubblichiamo, quanto da noi fu pubblicato nel 1856, in rapporto alla Cuffia del Silenzio.
E poichè la corrispondenza in cui trattasi di questo orribile strumento di tortura, fa seguito ad altra corrispondenza, così per migliore intelligenza dei lettori, e più ancora, per onorare la memoria di illustri vittime, cominceremo dalla prima in cui trattasi del processo e fucilazione del barone Bentivegna.
Le corrispondenze che pubblichiamo sono quattro; alla fine della pubblicazione di esse, per dare a ciascuno il merito che gli spetta, diremo le persone che ci fornirono le importanti notizie; riveleremo i nomi di coloro che fecero i disegni degli strumenti; ed i mezzi, che ci sarà permesso di rivelare, dei quali ci siamo serviti per farle giungere a Londra e a Genova.
In ultimo, dando uno sguardo all’opuscolo del signor De La Varenne, diremo in quali e quanti errori è caduto l’autore.

L'autore

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martedì 18 giugno 2019

Luigi Natoli: La strage borbonica del 03 settembre 1848 a Messina. Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1848 e altri scritti storici sul Risorgimento

Messina contrastò per cinque giorni il passo alle regie truppe, in una difesa disperata ed eroica, nella quale rifulgono esempi di eroismo; che dovrebbe porla, per lo meno accanto a quella di Brescia, se i narratori di storia rendessero giustizia alle nostre vicende. Essa non cedette, se non quando era ridotta un cumulo di macerie, le sue artiglierie insufficienti smantellate, consumate le ultime cartucce; straziati gli inermi con crudeltà efferate. E il Tempo e i miserabili giornali assoldati dal governo, che avevano aizzato prima, gongolavano ora alle notizie delle “vittorie” dei regi: ma altri giornali ne piangevano(81). Le barbarie furon fatte cessare dall’energico intervento degli ammiragli Parker e Baudin: ma l’eco se ne diffuse dovunque. Il 23 settembre il comitato centrale della società per la confederazione italiana, adunatosi a Torino, lanciava la sua protesta.
“Le scene di sangue e di sterminio, colle quali il re di Napoli ha or compiuto l’eccidio dell’eroica città di Messina, e i deplorabili tentativi coi quali non cessa di pretendere che la Sicilia sia ricondotta alla schiavitù, pongono la Società Nazionale nel dovere di appellarne alla forza della pubblica opinione, manifestando ai popoli e ai governi d’Italia la dolorosa impressione che essa ne ha risentita.
“Un rapido sguardo sopra le origini di tanta lotta, giustificherà pienamente il giudizio che la Società crede formarne, allorchè si dichiara affatto convinta che stanno in favore della Sicilia i più rispettabili titoli, sui quali un popolo possa mai appoggiare la domanda della propria indipendenza”.
Dopo aver esposto la storia della fusione di Napoli e Sicilia, e del tradimento perpetrato a danno di questa; dopo di aver affermato il diritto dei popoli di ribellarsi contro una crudele oppressione; tanto più, quando questa si fonda sulle “ambigue frasi del congresso di Vienna oramai esacrato nel mondo e cancellato dal diritto pubblico d’Europa”, e dopo aver riconosciuto che la Sicilia fu la prima a proclamare il vincolo federale, conclude: “Gli uomini i cui consigli han gareggiato in barbarie colle tendenze del loro re; gli uomini che ne han tanto degenerato la truppa e insozzato la bandiera; gli uomini che han mascherato di rancor nazionale e convertito in guerra sterminatrice ciò che era appena una miserabile pretesa di usurpazione dinastica; gli uomini che per accattare un sorriso di corte han gittata la desolazione in una delle più benemerite fra le italiane contrade; costoro porteranno sulla loro coscienza l’enorme responsabilità dell’uno fra i più gravi attentati che il cittadino d’Italia possa mai commettere contro la patria”. Questa protesta votata alla unanimità portava le firme del conte Luigi Sanvitale, del generale Racchia, di Francesco Freschi, Francesco Ferrara, Domenico Carutti, Antonio Gallenga(82). 


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Luigi Natoli: La spedizione del generale Filangeri di Satriano nel 1848. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860.

La spedizione in Sicilia, capitanata dal generale Filangeri di Satriano, fu allestita alla chetichella: il governo trovò il denaro; e gli ufficiali e i soldati quell’ardore combattivo, che non avevano avuto sulle rive del Po. La camera dei deputati non ne fu intesa; del resto nessun deputato interrogò il governo sulla quistione siciliana, ed appena se ne fece un cenno fuggevole e piuttosto amichevole nell’indirizzo di risposta al discorso della corona. Nella camera dei pari, il 5 agosto il principe di Strongoli, addebitava al primo ministro Bozzelli la condotta politica e militare verso la Sicilia, e al ministero attuale il non aver saputo ispirare nei Siciliani speranza di conciliazione: ma il principe di Torella, ministro, dichiarava di non poter rispondere su quanto riguardava la Sicilia, perchè era un segreto(77).
Il segreto era l’apparecchiarsi della spedizione: intanto i suoi agenti propalavano strepitose notizie: che il governo era disposto a mettere a disposizione dell’indipendenza italiana i mezzi preparati per riacquistare la Sicilia, se gli stati italiani si coordinassero subito in lega e assicurassero al regno “il quieto possesso della Sicilia, e più, a cose finite, la Sardegna e la provincia beneventana”(78). Ovvero che Ferdinando era disposto a concedere l’indipendenza alla Sicilia, se i siciliani avessero annullato l’elezione di Alberto Amedeo a loro re, ed eletto un principe borbonico. Fandonie. Il Governo apparecchiava la guerra. E i napoletani lasciavan fare. Pochi mesi prima, il Nazionale, illuso, aveva scritto: “La Sicilia sia certa che il popolo napoletano non patirà mai che si faccia aggressione contro i fratelli di Sicilia. Quando lo straniero sarà ricacciato oltr’Alpi, quando i popoli italiani saranno chiamati a formare definitivamente i comuni destini, gl’interessi di Napoli e di Sicilia non potranno essere opposti. Tutti ci troveremo Italiani, e non altro che Italiani”. Vane speranze, come vane eran quelle dei Siciliani che esortavano Carlo Alberto, il granduca di Toscana e il papa per persuadere il Borbone a una tregua, sì che le forze congiunte di tutti gli Italiani potessero convergersi nella guerra nazionale di indipendenza. Le nostre voci non erano raccolte:(79) un foglio volante esprimeva tutta l’amarezza dei Siciliani: quando essi si battevano per la loro indipendenza, la calunnia l’accusava di volersi separare dall’Italia. “Allora si gridava: – la Sicilia non vuol essere con noi” – ora che essa invocava aiuto “si grida: – Noi non possiamo essere con la Sicilia”(80).
La spedizione partiva il 30 agosto, sbarcava a Bagnara il 1 settembre; quel giorno stesso un decreto reale chiudeva il Parlamento. Il 3 settembre Messina era assalita: e l’Epoca di Roma scriveva: “I mali si accumulano su questa povera sventurata Italia. Napoli spinge le sue forze armate, il suo esercito contro la Sicilia. Quelle truppe che non potevano, non dovevano spingersi contro l’aborrito straniero, quelle truppe, sono spinte contro i fratelli. Quelle armi che il tradimento più infame deviava dal petto dell’Austriaco al momento in cui esse erano brandite e lanciate contro esso, quelle armi ora son volte omicide contro gl’Italiani. Ecco cosa ha fatto per l’Italia quel miserabile, quell’iniquo ministro Bozzelli!”.


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venerdì 14 giugno 2019

Luigi Natoli: Ignazio Zappalà piccolo garibaldino. Tratto da: I più piccoli garibaldini nel 1860

Narra Alberto Mario, che nel settembre del 1860, Garibaldi, ritornato improvvisamente da Napoli per troncare le mene del Depretis, e nominare prodittatore Antonio Mordini, volle passare in rivista il “Battaglione degli adolescenti”. Erano costoro i giovanetti, che istituiti in battaglione con decreto di Garibaldi del 22 giugno di quell’anno, erano stati acquartierati nell’Ospizio di Beneficenza, per formare con essi dei sottouffiziali, e alla cui direzione era preposto il Mario. L’articolo 7 del Regolamento prescriveva che non potevano esservi ammessi “adolescenti minori di anni 10 e maggiori di anni 17”. Erano dunque ragazzi.
Avvenne la rivista. Erano questi adolescenti più d’un migliaio, quasi tutti palermitani, che stavano disciplinati, rigidi come vecchi soldati; ma il fascino di Garibaldi trasfigurava le ancor tenere sembianze in immagini di lioncelli. Egli disse al Mario: “Fatemi un paio di battaglioni di questi giovanetti: ho visto a Milazzo come si battono e voglio condurli con me”.
I battaglioni garibaldini allora si componevano da 200 a 600 uomini; comunque furono pronti, e partirono; erano i più di 17 anni, ma ve n’erano anche di 16, di 15 e perfino di 14 anni. E il 1 ottobre si batterono. Gli elogi che dei Siciliani tesserono spontaneamente i generali Dezza, Avezzana, Bixio, Türr, e Bixio anche alla Camera, vanno pure a questi piccoli garibaldini.
Ma il Generale fece un’allusione a Milazzo. Infatti ve ne furono che, fuggiti o dall’Ospizio o dalla casa paterna, seguirono i garibaldini e presero parte al combattimento: e ce n’erano di appena 14 anni.
Apro l’Unità Italiana del 2 agosto, e vi trovo la seguente letterina:
“Affezionatissimo padre,
“L’amore della Patria supera ogni altro amore, è lei che mi chiama a difenderla. Spero di ritornare vittorioso, ma se il destino vuole che io muoia son pronto a versare il mio sangue. Abbracciandola, ecc..”
Chi scrisse questa letterina? Un quattordicenne, Ignazio Zappalà di Palermo, che fuggì dalla casa paterna, si battè a Milazzo, e fece poi tutta la campagna nell’Italia meridionale. Il signor Antonino, padre, corse a Milazzo, ma se ne tornò col cuore gonfio d’orgoglio, e pubblicò nella stessa Unità questo certificato:
“Cacciatori della Alpi – 2° Battaglione.
Costa al sottoscritto che il quattordicenne Ignazio Zappalà di Antonino seguì da Palermo il suddetto battaglione all’insaputa di suo padre, e prese parte attiva, anzi si distinse nel combattimento del 20 luglio avvenuto nelle campagne di Milazzo, il cui esito felice ci rese padroni della città.
A richiesta e in fede,
Milazzo 25 luglio 1860
Il capitano comandante la 1^ compagnia
Pasquale Mileti
“Visto: Il maggiore comandante
“Sprovieri Francesco”.
Ma non è il solo che a 14 anni se ne andò con Garibaldi: Ferdinando Oddo, eccolo lì istoriato nella prosa secca e, nella sua brevità, solenne, dell’estratto dall’Archivio di Stato di Torino. Egli si arruolò il 10 di giugno, vuol dire quindici giorni dopo l’entrata di Garibaldi in Palermo; e fu assegnato nell’artiglieria di fortezza. Questo garibaldino minuscolo (era piccolo di statura) fu mandato alla batteria di Torre del Faro, e nei giorni 21, 22, 23 agosto, nel duello con le navi borboniche “per coraggio e fermezza militare” fu sul campo promosso caporale.


I più piccoli garibaldini nel 1860 (Estratto da “La Sicilia nel Risorgimento italiano”  Palermo 1931) fa parte di: 
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. 
Pagine 546 - Prezzo di copertina € 24,00
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martedì 28 maggio 2019

Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento

Il volume Rivendicazioni che fa parte della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli, raccoglie gli scritti storiografici dell'autore sulle Rivoluzioni siciliane, dal 1848 al 1860.
Per una maggiore chiarezza del lettore, abbiamo preferito introdurre gli scritti con una "Premessa storica", ovvero la narrazione dei fatti che coinvolgono la Sicilia dal Congresso di Vienna al 1848, tratta da Storia di Sicilia dalla preistoria al Fascismo ed. Ciuni anno 1935.
Segue "La rivoluzione siciliana nel 1860", pubblicata ad opera del Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 dalla Società editrice Marraffa (1910). 
L'autore, nella piccola prefazione, così presenta il testo: "Questo libro vuol essere una rapida narrazione dei rivolgimenti siciliani del 1860, e segnatamente di Palermo; non critico dunque, non discuto: pure molte cose inesattamente narrate fin qui o alterate o taciute, dico e procuro correggere secondo verità; e tutta quella parte che i nostri vi ebbero dal 15 maggio in poi, la quale ordinariamente non apparisce nelle storie, ho cercato di lumeggiare nelle sue giuste proporzioni, parendomi non soltanto ingiustizia, ma anche ingratitudine lasciar nell’ombra o menomar le opere e i sacrifici dei nostri, che prepararono prima, e spianarono, resero possibile poi e vittoriosa la spedizione garibaldina dei Mille e l’unità nazionale. Non apologie, né esagerazioni: ma neppure silenzi, e peggio, menzogne e ingiurie, di che si compiacquero anche recenti narratori." Una rapida narrazione quindi, di circa 117 pagine, della quale non si discute la veridicità: "Affermo però nel modo più assoluto, che quanto io narro, e come lo narro, risulta oltreché dal confronto e dalla critica delle varie storie e biografie stampate dal 1860 in qua, anche da testimonianze dei tempi, da opuscoli rari e poco noti, da note, memorie, lettere, e in genere manoscritti ancora inediti, e principalmente dai documenti officiali dell’Archivio di Stato, specialmente di fonte borbonica, dai giornali del tempo, dai fogli volanti (di cui una ricchissima collezione raccolse il compianto dottor G. Lodi e donò alla Società di Storia Patria) e da memorie particolari raccolte dalla viva voce; e tutto ho messo in riscontro; perché la verità scaturisca limpidamente senza postume ire né inutili apoteosi, che oramai non son più di stagione". Così Luigi Natoli conclude la sua premessa, e lui stesso in modo molto chiaro spiega al lettore lo scopo del volumetto. 
Segue "Di un volume di documenti sulla Rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille" tratto dal mensile Rassegna storica del Risorgimento  Anno XXV – Fasc. II Febbraio 1938 – A. XVI - La Libreria dello Stato – Roma. In questa parte, che l'autore inizia così "Gli storici che si sono occupati della rivoluzione siciliana del 1860 e della spedizione dei Mille, hanno finora attinto a una sola fonte, hanno cioè pubblicato memorie, diari, opuscoli inediti o editi, rari o malnoti, documenti ufficiali, lettere, quasi tutti di parte liberale; e per la spedizione garibaldina, salvo uno o due libri borbonici, delle lettere, dei diari, degli opuscoli di coloro che ne fecero parte. Ne vennero fuori pubblicazioni, che avevano tutta la parvenza della verità per essere raccontate da un testimone oculare, tuttavia si differenziano l’una dall’altra; e non soltanto nel precisare le ore in cui avvenne questa o quell’altra cosa, quanto nel narrare i fatti. Basta leggere il libro dell’Agrati, che bellamente raccoglie dai vari diaristi e dai vari scrittori di lettere tutte le diversità e le contraddizioni, dinanzi alle quali il lettore non sa a chi credere". La rivoluzione siciliana narrata quindi dal punto di vista dei Borboni, con le loro intuizioni e con i loro errori. Ad esempio il clamoroso comunicato: "Dicesi che Garibaldi con un vapore, forse russo, verrà a Messina, e che altri siano costà” Oppure il rimprovero del re Francesco al principe di Castelcicala "Ma come luogotenente e con un Consiglio di direttori debbo chiaramente dirvi, caro principe, che oramai sono ben quarantuno giorni, e di spiacevolmente, non solo non si è alla fine della cosa, ma si può dire invece essere al bel principio”, oppure la comunicazione del Principe di Castelcicala del saccheggio al villaggio S. Lorenzo il 9 aprile 1860 “Per quanto grande era il disprezzo che si avea nella truppa, ora altrettanto forte è il timore che la più meschina recluta, incute ai più audaci”. E continua: “Stanotte ho spedito due colonne al villaggio di S. Lorenzo ov’erano trincerati il più gran numero de’ribelli” (è la terza spedizione).
Una delle colonne recata dall’Ercole è sbarcata alle loro spalle, mentre l’altra guidata dal maggiore Polyzzy, li ha attaccati di fronte. Ho visto col cannocchiale del telegrafo l’assalto dato alle case tutte di quel villaggio dalla valorosa truppa, che li ha snidati, facendone morti, feriti e prigionieri, e ridusse poscia in fiamme quel torbido villaggio, che è stato sempre il terrore della capitale".
Segue un prezioso documento su I più piccoli garibaldini del 1860 Estratto da “La Sicilia nel Risorgimento italiano”  Palermo – 1931 dove l'autore ci fa conoscere i giovanissimi siciliani che volontariamente si uniscono alle squadre siciliane e ai Mille per la libertà dell'Isola: Erano costoro i giovanetti, che istituiti in battaglione con decreto di Garibaldi del 22 giugno di quell’anno, erano stati acquartierati nell’Ospizio di Beneficenza, per formare con essi dei sottouffiziali, e alla cui direzione era preposto il Mario. L’articolo 7 del Regolamento prescriveva che non potevano esservi ammessi “adolescenti minori di anni 10 e maggiori di anni 17”. Erano dunque ragazzi. Il documento è corredato anche dalla trascrizione di lettere dell'epoca trovate dall'autore
"Apro l’Unità Italiana del 2 agosto, e vi trovo la seguente letterina:
“Affezionatissimo padre,
“L’amore della Patria supera ogni altro amore, è lei che mi chiama a difenderla. Spero di ritornare vittorioso, ma se il destino vuole che io muoia son pronto a versare il mio sangue. Abbracciandola, ecc..”
Chi scrisse questa letterina? Un quattordicenne, Ignazio Zappalà di Palermo, che fuggì dalla casa paterna, si battè a Milazzo, e fece poi tutta la campagna nell’Italia meridionale. 
che narra in seguito le ricerche dell'allora sindaco di Palermo e Presidente della Società Garibaldina commendatore Albanese (1910) in occasione del cinquantenario del 27 maggio 1860, per ritrovare i "piccoli garibaldini" ma che, a quanto sembra, risultarono infruttuose per la maggior parte "I sindaci mandarono quel che poterono, che non sono tutti; molti o per accidia o per altre ragioni rimasero ignorati, perché non è possibile che di ventimila, quanti si presume che la Sicilia ne abbia dati a Garibaldi, la più parte giovani, siano morti circa diciottomila in cinquant’anni. L’elenco pubblicato dal comm. Albanese dà soltanto millenovecentosessantotto garibaldini viventi nel 1910"
Il volume si conclude con Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860, pubblicato dalla Cattedra Italiana di Pubblicità nel 1927. Nella premessa, l'autore illustra gli "intendimenti" che lo portarono a Rivendicazioni: Raccolgo in questo volume alcuni scrittarelli, dei quali alcuni veggono ora la luce per la prima volta, altri, già pubblicati su giornali, sono così interamente rifatti, che possono considerarsi nuovi.
Quali gli intendimenti che m’indussero a comporne un libro, il lettore vedrà da sè; e gli farei un torto se mi trattenessi a illustrarglieli. Dirò soltanto che questi scritti nacquero dalla mia passione per la Sicilia e specialmente per Palermo mia città natale: passione che invece di affievolirsi con gli anni, è divenuta più intensa via via che mi sono addentrato – quanto è possibile a una vita umana assillata dai bisogni della vita cotidiana – nello studio della storia; e mi sono accorto degli errori, dei pregiudizi, della superficialità e anche dell’ignoranza di che son pieni scrittori, anche valorosi, quando parlano e giudicano delle cose siciliane. Delle quali non si può parlare con tanta facilità e leggerezza; così vasta, molteplice, ricca di cose ancora ignote, inesplorate è la nostra storia. 
Si tratta dello scritto più completo sul Risorgimento, poiché narra storiograficamente la rivoluzione siciliana dal 1848 al 1860, con articoli dei giornali dell'epoca, testimonianze, dati storici minuziosamente descritti. Particolare la dedica: "Ai figli, perchè l'opera dei padri non dimentichino".
Un volume di 575 pagine, con la copertina di Niccolò Pizzorno, che tutti dovremmo leggere, per sentirci orgogliosi di essere siciliani e della nostra storia. E per dire grazie a quei padri che per noi e per la nostra libertà donarono la propria vita.

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Luigi Natoli: 27 maggio 1860. L'ingresso dei Mille e dei Picciotti. Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860

Verso le sette del pomeriggio di quel giorno 26, mentre molti cittadini improvvisavano in barche una dimostrazione intorno alla nave sarda il Governolo, e ne seguivano arresti, Garibaldi ordinava si togliesse il campo, e cominciava la discesa dal colle. Non v’era allora la comoda strada carrozzabile che vi é oggi; non v’erano sentieri; bisognava discendere per ripido scoscendimento, fra sassi e sterpi; e in tante migliaia ciò riusciva lento e difficile. Molti incespicavano, scivolavano sopra i compagni che si trovavan dinanzi, e rotolavano insieme sopra altri, e si formavan viluppi di corpi che movevan compassione e risa in un tempo. A mano a mano che raggiungevano le falde del colle, le squadre e i volontari si aggruppavano intorno ai loro capi. La discesa durò circa cinque ore. Cominciò con qualche lentezza da parte delle squadre, che si mossero per le prime; onde Garibaldi se ne dolse col La Masa, che a sollecitare i guerriglieri mandò Pasquale Mastricchi; il quale postosi innanzi, con la squadra di Bagheria, spronò gli altri. A mezzanotte si ordinarono le squadre e le compagnie, su pei sentieri campestri, fra i giardini e i poderi che rallegrano quelle contrade.
La Masa aveva, per parte delle squadriglie, domandato l’onore d’esser posti i primi ad assalire il nemico; e Garibaldi divise allora il suo esercito in due corpi; il primo formato delle squadriglie, sotto gli ordini del La Masa; il secondo dei volontari, sotto il suo comando.
Ordine rigoroso non fumare, non cantare, non dir neppure una parola, non far alcun rumore, per giungere di sorpresa agli avamposti dei regi, e sgominarli prima che avessero il tempo di dar l’allarme.
Marciavano così, taciti; e nella notte odorosa di tutti i profumi della campagna ferace, rimbombavano quei passi, e destavano i latrati dei cani. Qualche lume si vedeva fra le piante; qualche finestra si apriva nelle case sparse; intorno sull’alto dei monti circostanti, ardevano i fuochi accesi dalle squadre, occhi veglianti della rivoluzione. Al tocco erano giunti a Rappallo, dove Garibaldi, raggiunta la squadra di Bagheria, visto l’orologio, domandò al Mastricchi, da lui piacevolmente chiamato il Vecchio di Gibilrossa, quale era la strada per giungere più presto a Palermo. Il Mastricchi indicò la strada dei Ciaculli, per la quale si avviavano: ma dopo percorso mezzo miglio, Garibaldi ordinò si piegasse a destra per la Favara, e presso il podere Guccia fece un primo alt. 
Accaddero alcuni incidenti. Un cavallo fugge; corre un grido: – La cavalleria! – Il grido mette il disordine non soltanto nelle ultime squadriglie, ma nelle stesse compagnie dei volontari. Fu un lampo; si riconobbe l’errore: qualcuno ne rise. Alla Favara dove le acque scorrono fresche e limpide, molti giovani delle squadre, che stavano alla testa, non usati alla disciplina militare, si fermarono per bere; ma il Bixio, che vedeva il danno dell’indugio, piombò sopra di loro, gridando, ingiuriandoli con la solita irruenza, e percotendoli: accorse La Masa, in tempo per contenere il risentimento di quei giovani: delle parole vivaci corsero fra La Masa e Bixio, che non ebbero seguito per l’intervento di Sirtori. Riordinate le colonne ripresero la marcia; alla testa erano stati posti trenta volontari scelti, armati di baionetta, comandati dal Tuköry, oltrecchè per poter fare un primo impeto nell’assalto più che probabile, anche per guidare e servire d’esempio alle squadre, che formavano la prima colonna.
La strada che essi percorrevano, detta dei Ciaculli, metteva capo a un bivio, detto della Scaffa, a pochi passi dal ponte dell’Ammiraglio, antico e bel monumento normanno, che attraversava il fiume Oreto. Dal ponte dell’Ammiraglio uno stradale, detto allora dei Corpi Decollati  –  ora dei Mille  –  lungo circa mezzo miglio, conduce in linea diritta alla strada urbana, detta di Porta di Termini, per la porta duratavi fino al 1849: le due strade son tagliate in croce dallo “stradone di S. Antonino” ora via Lincoln, che termina al mare.
Il comando delle truppe regie, sicuro della sconfitta di Garibaldi e della sua fuga verso Corleone, ignaro e della mossa strategica del Dittatore e del campo adunatosi in Gibilrossa, non aveva provveduto a difendere questo punto importante con forze considerevoli; aveva mandato alcune compagnie con due cannoni al convento di S. Antonino, per dominare la vicina porta dello stesso nome, lo stradone e l’entrata alla porta di Termini; aveva dinanzi a questa sul crocicchio fatto costruire una barricata, difesa da qualche altra compagnia, e spinto dei distaccamenti avanzati al ponte dell’Ammiraglio, al vicino ponte delle Teste, scaglionando anche un mezzo squadrone di cavalleria in una strada che obliquamente dal ponte andava a S. Antonino, detta allora del “Secco” ora sparita. Dalla parte del mare aveva fatto piazzare una fregata, di fronte allo stradone. Queste truppe erano sotto gli ordini del brigadiere Bartolo Mazza.
I volontari e le squadre dovevano dunque conquistare prima d’ogni altro il ponte, poi percorrere quel mezzo miglio di strada, gittarsi sulla barricata di Porta di Termini e, affrontando il fuoco incrociato dal mare e dal convento di S. Antonino, correre nel cuore di Palermo; non essendo la piazza della Fieravecchia, antico quartiere di rivoluzioni, lontana dalla porta che un quarto di miglio.
Tutto questo Garibaldi sapeva, disponendo la sua marcia; ma per quanto sapesse già che non avrebbe incontrato una forte difesa, era necessario sorprendere gli avamposti e piombare in Palermo, prima che il comando generale, destato, avesse il tempo di chiamare e spingere i battaglioni attendati nel piano del palazzo reale e alle finanze.
Ma la sorpresa mancò.
Giunti alle case del bivio della Scaffa, i “picciotti” che seguivano i trenta volontari del Tuköry, avvistate le sentinelle borboniche, e credendo forse di essere arrivati a Palermo, levarono alte grida, e tirarono qualche fucilata: al che, destatisi gli avamposti napoletani, che occupavano la testa del ponte dell’Ammiraglio, gridarono all’armi e fecero una scarica.
Avvenne un istante di disordine. I “picciotti” non abituati alla tattica delle colonne serrate, seguendo il loro costume, si sbandarono a destra e a sinistra, gittandosi nei giardini per appostarsi dietro gli alberi e i muri; e far fuoco, protetti; questo sbandamento produsse un rigurgito delle altre squadre nella seconda colonna, che poteva riuscire fatale, se Tuköry, in un baleno, non si fosse lanciato coi trenta volontari alla bajonetta, e se Garibaldi, avvertito da Bixio, non avesse spinto Carini con la 7^ compagnia a sorreggere Tuköry. L’esempio dei volontari, le acerbe rampogne dei capi-squadriglie, la voce potente di fra Pantaleo che, levato alto il Cristo corse innanzi tra le fucilate, trascinarono le turbe dei “picciotti”.


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Luigi Natoli: Giuseppe La Masa e il campo di Gibilrossa. Tratto da La rivoluzione siciliana nel 1860


Dopo il combattimento di Calatafimi, Garibaldi ordinò al La Masa di percorrere la provincia di Palermo, per suscitarvi la rivoluzione; il La Masa, scelse a compagni Vincenzo Fuxa di Bagheria, anche lui dei mille, piccolo, cavalleresco, audace, guizzi di fiamme gli atti e le parole; Pietro Lo Squiglio, cuor provato a tutti i cimenti; Giacomo Curatolo, veterano del 48; il barone Di Marco, cospiratore infaticabile che aveva sollevato Mezzojuso; i due fratelli La Russa e qualche altro: tutta gente questa che era andata incontro al Dittatore in Salemi, e si era già battuta a Calatafimi.
Giunto a Roccamena, il La Masa lanciava il 17 maggio uno dei suoi proclami magniloquenti, com’era la natura dell’uomo, incitando alla rivolta e a proclamare la dittatura di Garibaldi: indi muoveva per Mezzojuso dove organizzava le prime squadre; e ne avvertiva Francesco Avellone di Roccapalumba, che fu uno dei più ardenti e operosi promotori della rivoluzione, non soltanto sollevando i vicini comuni per mezzo di emissari, come l’abate Rotolo e Calcedonio Nicolosi; ma armando squadre del suo, sovvenendo di danari, frumenti, munizioni il campo degli insorti.
Il comitato di Termini, insorta come dicemmo il 16, levate squadriglie nei dintorni, con a capo Liborio Barrante e Ignazio Quattrocchi valorosissimi, Michele Mondini e Stefano De Maria, arguto poeta, ricercato nelle conversazioni pel suo spirito; saputo dell’arrivo del La Masa, gli spedì a Mezzoiuso, come commissario, il cavaliere Rosario Salvo. Da quel giorno Termini, pur sotto la minaccia della sua rocca, divenne vera e feconda fucina di patriottismo e officina d’armi, munizioni, bende; e sebbene non sapesse ancor nulla di Garibaldi né del quartier generale, ordinava alle squadre di concentrarsi presso Palermo: cercando nel tempo stesso scuotere la non lontana Cefalù, ancor timida e intorpidita dall’eccidio dello Spinuzza.
Il La Masa lieto di questo risveglio di patriottismo, del formarsi e accorrere delle bande armate, benché non sempre bene armate, scrisse il 19 a Garibaldi, dandogli conto di quel che aveva fatto, e domandando se dovesse avanzarsi con le squadre a Piana dei Greci o a Misilmeri. Garibaldi “contentissimo” di quanto il La Masa aveva operato, e felicitandosene, lo lasciava libero di concentrare le forze dove credesse più conveniente, pur di esserne avvertito; poi, come narrammo, dal Sirtori gli fece scrivere di concentrarsi al Parco, e indi a Gibilrossa. Così formossi quel campo di Gibilrossa che rese possibile l’assalto e la presa di Palermo.
Intanto si diffondevano per l’isola i proclami di Garibaldi “All’Esercito napoletano”, “Ai buoni preti”, “Agli Italiani”; altri se ne diffondevano del La Masa; quelli vibranti, a scatti: questi un po’enfatici: ma gli uni e gli altri sollevavano entusiasmi. Per eseguire gli ordini di Garibaldi, La Masa ordinava che le squadre dei vari comuni si concentrassero a Misilmeri, dove la cittadinanza e il municipio le accoglievano con fraterna esultanza. Ivi l’attivo ricostituito comitato rivoluzionario, occultamente dopo l’insuccesso del 4 aprile, palesemente al rinnovarsi delle speranze dopo la vittoria di Calatafimi, si era dato con ogni possa al lavoro per assicurare il trionfo della rivoluzione: e Misilmeri con Roccapalumba e Termini divise i sacrifici e la gloria di aver ordinato, sorretto, mantenuto il campo di Gibilrossa.
Il Fuxa intanto si recava in Bagheria, vi proclamava la dittatura di Garibaldi, nominava il comitato per l’amministrazione e la sicurezza, e formata una squadra la conduceva al campo di Gibilrossa dove continuamente giungevano dalle campagne e da Palermo altri armati, sicché in breve raggiunsero la somma chi dice di cinque, chi di quattromila; ma sulla scorta di documenti è facile indurre che furon meno.
La Masa battezzò quella gente “2° Corpo dell’armata nazionale”, l’ordinò militarmente per quanto fosse possibile, con uno stato maggiore, un’intendenza, un corpo sanitario, uno di guide: il comando degli avamposti diede al Fuxa; a capo dello stato maggiore pose il Salvo: all’intendenza Pasquale Mastricchi antico patriotta.
Eran quasi tutti giovani contadini, i quali il vezzeggiativo del dialetto, picciotti, che significa “giovani” resero storico; erano incolti, e non avevano un’idea chiara del fine di quella rivoluzione: ma è una piacevolezza, e null’altro, rappresentarli cenciosi e a piedi nudi; mentre è saputo che i nostri contadini non vanno mai scalzi, e che in quei giorni furon largamente provveduti di vestiti e anche, per la stagione insolitamente fredda e piovosa, di cappotti; ed è qualcosa di peggio che piacevolezza, dire che essi credevano l’Italia moglie di Garibaldi!...
La Masa scrisse nuovamente a Garibaldi, dandogli conto di ciò che aveva fatto; ma esagerando, per la sua fervida natura e pel gran concetto che aveva di sé, la portata delle sue forze. Spiegava nondimeno gli avamposti sul monte Grifone, e nella notte faceva accendere grandi fuochi. Garibaldi gli commetteva di molestare i corpi avanzati dei regi, di difendere la destra dei volontari, di tener le comunicazioni. Questa non era impresa difficile; difficile era tener compatta quella gente non abituata ad alcuna disciplina, e fornirla di quanto occorreva; e fu fortuna che Termini, non ostante subisse in quei giorni i danni di un inutile bombardamento, Misilmeri e Roccapalumba non facessero mancar pane e polveri e palle: Termini anzi sacrificò il piombo delle antiche tubolature romane, tolte all’acquedotto Cornelio, per farne palle: e non vi fu sacrificio di danaro che l’eroica Misilmeri non affrontasse, per fornire il campo di Gibilrossa di quanto il quartiere generale domandava per le squadre, per l’ambulanza, per la segreteria del comando.
 La Masa magnificò i suoi: Garibaldi, ristette un po’, come per concentrarsi, poi gli disse: “Andate al campo, e dite ai vostri Siciliani che verrò fra breve a passarli in rassegna”.


(26 maggio 1860): Garibaldi chiamò a sé i capi delle squadriglie e i più noti liberali: v’erano Raffaele De Benedetto, l’abate Agostino Rotolo, Luigi Bavin-Pugliesi, Giovanni Forceri, il barone Di Marco, Ignazio Quattrocchi, Liborio Barrante, molti altri, ai quali domandò se fidavano nei loro uomini. Essi lo assicurarono. Stavano adunati sotto un olivo, e la notte magnifica stendeva sopra di loro la sua volta costellata; e pareva che le stelle col tremolìo delle loro fiamme si gloriassero dell’alta impresa che si maturava nell’ombra silenziosa e corruscante. Garibaldi si fece innanzi sul ciglio del colle, e mirò l’ampia valle che si allargava, la città dormente o vegliante, forse pavida del prossimo evento, e i monti in giro fiammeggianti, e disse: “Domani, dunque a Palermo”. Le quali parole semplici e senza enfasi, ripetè poco dopo Nino Bixio alle sue compagnie schierate, aggiungendovi, come riferiscono, un altro motto: “Andremo a Palermo o all’inferno!”.
Stabilito ciò, il Generale spedì la guida Stassi al Corrao accampato all’Inserra, con l’ordine di fare ogni sforzo per entrare in Palermo, dal lato nord, la notte sopravegnente. 
E intanto quel giorno medesimo lo stato maggiore borbonico pubblicava il seguente bollettino….

La banda di Garibaldi incalzata sempre si ritira in disordine, traversando il distretto di Corleone. Gli insorti che l’associavano, si sono dispersi e vanno rientrando nei rispettivi comuni scorati e abbattuti per essersi lasciati ingannare dagli invasori stranieri venuti per suscitare la guerra in Sicilia. Le reali truppe l’inseguono. 

Il Capo dello Stato Maggiore
V. Polizzy

E partiva per Napoli il colonnello Nunziante, portando, come un trofeo della vittoria, le spoglie tolte al povero Carlo Mosto, dei carabinieri genovesi, morto nella fazione di Parco!... E il generale Lanza se ne andava a dormire tranquillamente lieto di aver distrutto con tanta facilità il nemico, né dubitando punto della tempesta che fra poche ore gli sarebbe scoppiata sul capo. 


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. 
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 25,00
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martedì 21 maggio 2019

Luigi Natoli: Ciò che si disse dopo la morte di Rosolino Pilo. Tratto da Rivendicazioni.


Con la morte di Pilo finisce l’azione autonoma delle squadre durata dal 5 aprile al 21 maggio: da questo momento esse seguono la fortuna dei Mille, e di loro gli storici non terranno parola, o forse per dileggiarle: dimenticando che senza di esse e senza la rivoluzione i Mille non avrebbero potuto fare un passo, e sarebbero rimasti vittime della loro audacia.

Ma che non dissero gli storici? Uno, più grave perché uso a non affermar nulla senza documentazione, non accolse come verità le fanfaronate di uno dei Mille, che fra le altre cose affermava che Palermo pareva una città di morti, e che i Garibaldini, il 27 maggio erano costretti a snidare i Palermitani “per far fare loro la rivoluzione?” 

Questi storici hanno anche un altro torto: quello di credere che la spedizione dei Mille sia tutta la rivoluzione siciliana; o che, forse, questa sia scoppiata per virtù di quella. Per cui essi, appena appena si degnano di dare uno sguardo all’episodio del 4 aprile, allo stato insurrezionale durato fino al 27 maggio, alla spedizione di Rosalino Pilo e di Giovanni Corrao; e pare non sospettino neppure che senza questa e quello, né Garibaldi né i Mille sarebbero salpati da Quarto.

Ora a tanti anni di distanza, quando i fatti storici si possono guardare con maggior serenità, e altri documenti son venuti in luce, è bene ristabilire la verità storica, senza esagerazioni, cadute ormai nel dominio dei luoghi comuni, e senza reticenze inutili. E appunto per questo non bisogna fondarsi unicamente sulle testimonianze raccolte da una parte sola: per quanto meritevoli di credito esse vanno riscontrate con altre testimonianze, e saggiate sulla pietra di paragone dei documenti. I Mille che seguirono Garibaldi sono veramente mille eroi, e l’impresa alla quale si accinsero, fu meravigliosa e miracolosa; ma per esser tali non è necessario tacere, travisare e qualche volta calunniare il potentissimo aiuto che direttamente e indirettamente ebbero in Sicilia dai Siciliani; non è necessario tacere l’efficacia risolutiva dello ambiente; giacchè è bene affermarlo ancora una volta e chiaramente, se la spedizione dei Mille non avesse trovato, neppure il solo concorso morale di tutto un popolo in rivoluzione (dico rivoluzione, non ribellione) Garibaldi e i Mille avrebbero incontrato la sorte dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane. Anzi, per rimanere in tema garibaldino, la campagna di Sicilia del 1860, non avrebbe avuto esito diverso della campagna dell’Agro Romano del 1867, che pure si compiè in condizioni numeriche e d’armamento superiori. Vincitori, anche, a Calatafimi, i Mille avreb­bero avuta a Palermo una Mentana assai più disastrosa.

Ora gli esperti di cose militari, che studiano le cose senza lirismo, hanno oramai riconosciuto che la marcia trionfale da Marsala a Palermo e le vittorie strepitose dei legionari, oltre che al valore di essi e all'azione dell’ambiente, si debbono anche agli errori innumerevoli e madornali del comando generale delle truppe borbo­niche; e questi errori madornali furono l’effetto della paura. Paura di combattere in un paese nemico in rivo­luzione; paura di vedersi assaliti da ogni parte dalla popolazione; paura di vedersi tagliate le comunicazioni e la ritirata; paura di mancare – come mancarono – ­di viveri, di ospedali, di medicine, di tutto.

Il che risulta dai documenti, che hanno maggior valore delle lettere di un esaltato…



Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
Raccolta di scritti storiografici sul Risorgimento siciliano, tratte dai documenti originali. 
Indice dell'opera: 
Premessa storica dalla rivoluzione francese al 1820 tratta da: Storia di Sicilia ed. Ciuni (1935)
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Soc. editrice Marraffa Abate - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal Mensile Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Febbraio 1938)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto da La Sicilia nel Risorgimento anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Treviso 1927)