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lunedì 29 luglio 2019

Giovanni Raffaele: La cuffia del silenzio. Tratto da: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni. Un periodo di cronaca contemporanea.

Non bastando al Baiona un cassettino di strumenti di tortura che si portò da Palermo, per non essere assordato e disturbato nelle sue inique operazioni dalle grida dei tormentati, immaginò uno strumento atto a chiuder la bocca, che subito fece eseguire ad un artefice in quella città.
Il quale strumento, nuovo nuovissimo in questo genere, e di cui vi acchiudo il disegno, fu applicato per la prima volta al signor Giuseppe Lo Re, e poi ad un certo De Medici. (v. Fig. 1° e 2°)
Fig. I.
ab) Cerchio di acciaio, che si allarga e restringe nel punto B per adattarsi alle teste di diversa grossezza.
c) Mentoniera di fil di ferro destinata a chiudere la bocca, serrando forzatamente la mascella inferiore contro la superiore.
d) Correggia di cuoio per assicurare la mentoniera dietro il collo del paziente.
e) Semicerchio di acciaio per mantenere fermo sulla testa il cerchio AB: in esso trovasi una vite di richiamo per inalzare la mentoniera fino ad impedire l’apertura della bocca ed i gemiti del torturato.
Fig. II.
La figura seconda presenta lo strumento applicato.
Il primo di questi due disgraziati fu talmente seviziato che restò lungamente privo di sensi; per cui un birro credendolo morto, o prossimo a morire, senza licenza del Baiona corse a cercare un medico ed un confessore. All’arrivo dei quali, il Baiona lasciò libero il torturato, ma il birro fu severamente punito. Un largo salasso praticato all’infelice Lo Re, e gli aiuti prodigatigli dal buon prete, e dal medico, lo richiamarono in vita.


Giovanni Raffaele: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni. Un periodo di cronaca contemporanea.
Pagine 110 - Prezzo di copertina € 11,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su Ibs
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica

Giovanni Raffaele: Come furono trattati i compagni di Bentivegna? Tratto da: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni

Mi dimandate come furono trattati i compagni di Bentivegna che si presentarono spontaneamente, e quelli che furono arrestati dalla forza armata: infine vorreste sapere qualche notizia dei profughi; ed io che non ho nè speranze, nè timori, colla mia solita imparzialità rispondo alle vostre dimande.
Dopo il giudizio di Bentivegna, cambiato, come in altra mia vi scrissi, il presidente del Consiglio di guerra, si procedè subito al giudizio di Salvadore Guarnieri, uno dei capi dell’insurrezione di Cefalù, e fu condannato a morte. Ma siccome l’avvocato che lo difese, chiudeva il suo discorso dicendo:
«Io vi ripeto che l’ordinanza in forza della quale volete giudicare, non è più in vigore: e quando anche lo fosse, la gran Corte criminale ammise la vostra competenza per l’articolo 13 della stessa ordinanza: voi dunque, se condannerete l’accusato, non potete dispensarvi di farne rapporto al Re, come nell’istesso articolo si prescrive. Non voleste farlo per Bentivegna, e si commise così un omicidio; vorreste ora commetterne un secondo!»
Queste ardite parole, che in altri tempi avrebbero provocato la persecuzione dell’oratore, in questi tempi in cui la Francia e l’Inghilterra minacciano d’intervenire ovunque, nell’interesse dell’Umanità e della Civilizzazione, queste parole, io dico, produssero l’effetto desiderato. Il Consiglio di guerra condannando a morte il Guarnieri, lo raccomandava alla clemenza del re.
Della banda di Mezzoiuso manca un certo La Porta, che trovandosi allora a domicilio forzoso in Ciriminna, la polizia suppose che prese parte all’insurrezione, e diede ordine per arrestarlo: ma egli riuscì a salvarsi, ed ora si crede che si sia imbarcato e partito per l’estero.
Della banda di Cefalù mancavano Civello, i due fratelli Botta, Spinuzza, i due fratelli Maggio, un fratello di Guarneri. Il governo che li supponea sempre nel distretto di Cefalù, e attribuiva a pigrizia, e forse anche a connivenza di Gambero capitano d’armi di quel distretto, il non essere stati ancora arrestati, lo sospese, e vi spedì da Palermo l’ispettore di polizia Baiona, figlio di quel Baiona che fu iniquo strumento di tutte le laidezze di quell’Artale marchese ricordato da Botta, e il capitan d’armi Chinnici con trenta compagni.
Le iniquità che han commesso questi due uomini sorpassano ogni credenza umana. I più crudeli mezzi di tortura sono stati da essi adoperati sopra parenti e amici dei profughi per strappare dalla loro bocca la rivelazione del ricovero degli stessi. Il carcere di Cefalù ribocca di arrestati e di torturati…


Giovanni Raffaele: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni. Un periodo di cronaca contemporanea.
Pagine 110 - Prezzo di copertina € 11,00
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Giovanni Raffaele: Rivolta e persecuzione del barone Francesco Bentivegna. Tratto da: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni

Eludendo ogni vigilanza della polizia, in novembre il Bentivegna percorse per l’ultima volta tutti i Comuni di Sicilia che doveano rispondere allo appello, e coi capi dei Comitati stabiliva d’inalberare la bandiera tricolore, contemporaneamente il 12 gennaro 1857 come anniversario della rivoluzione del 1848; menochè circostanze imprevedute non obbligassero di ritardare, o accelerare il movimento. Egli il 16 novembre fu in Palermo, domicilio inibitogli dalla polizia, la quale ne ebbe sospetto e lo cercò; ma non giunse ad arrestarlo, e fu giocoforza contentarsi di accrescere la sorveglianza, e di sospendere l’Ispettore di Corleone sig. Petini cui sin allora era stata affidata.
A vista dell’imminente pericolo di essere scoperto ed arrestato, il Bentivegna giudicò non potere più oltre differire il cominciamento dell’opera sua, per cui sabato 22 novembre alle ore 8 della sera, aiutato dal cavaliere Dimarco, da’ fratelli Figlia, e Romano zio e nipote, ricchi proprietari, inalberò la bandiera tricolore ed alla testa di 300 persone armate entrò in Mezzojuso. L’indomani domenica 23 tutte le Comuni ove Bentivegna potè far giungere la notizia della inaugurata rivoluzione risposero allo appello, e così il vessillo tricolore si vide sventolare a Villafrate, a Bocina, a Ventimiglia, a Mezzojuso, e poi a Cefalù, a Roccella e Collesano.
Ma da un canto, la prontezza con cui, mercè i mezzi de’ quali il governo disponea, potè far giungere le sue truppe su i luoghi dell’insurrezione; dall’altro lato, le piogge dirotte e prolungate che ingrossando i fiumi li rendeano impraticabili e impedivano che le notizie si comunicassero ai paesi più lontani e che la rivoluzione rapidamente si diffondesse, furon causa che la rivolta si arrestasse sul suo nascere. Nei paesi lontani e pronti ad insorgere, la notizia che la rivoluzione era stata compressa, arrivò prima che si sapesse di essere stata inaugurata.
La banda Bentivegna così si sciolse spontaneamente, e lo stesso avvenne delle altre di Cefalù, e di Roccella. Le truppe entravano in Mezzojuso il dì 24 novembre, e qualche giorno appresso a Cefalù, e con essi birri, ispettori e commissari di polizia.
Ripristinato il governo locale, quel giudice fece rapporto dell’accaduto al Procuratore generale della gran Corte criminale di Palermo, e questi facendo uso de’ suoi poteri, ed anche stimolato a farlo da ministeriale del governo del 28 novembre, autorizzava uno de’ suoi membri, il giudice Barcia, a portarsi sul luogo, e ovunque il bisogno lo richiedesse per istruire il processo. Così la Corte criminale si trovava in possesso del reato, non solo perchè avea fatto uso de’ suoi poteri, ma ancora perchè il governo l’avea ordinato: ed ordinandolo mostrava essere convinto che il reato fosse di competenza della suddetta Corte.
Alcuni individui delle disciolte bande si presentarono spontaneamente, o per dir meglio per le sevizie della polizia che esercitava sui padri e sulle madri, sui figli, sulle figlie e sulle sorelle dei profughi. Sono di questo numero Guarnieri, Dimarco, Guggino. Di molti altri non si ha notizia, specialmente di Civello da Roccella, di Spinuzza, e di due fratelli Botta da Cefalù. Le sevizie usate dalla polizia alle sorelle di questi tre ultimi sono rimaste senza risultato.


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Giovanni Raffaele: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni. Un periodo di cronaca contemporanea

La Campana della Gancia del 26 marzo annunziò semplicemente la scoperta di alcuni strumenti di tortura, fatta nel Castello di Palermo dall’avvocato Nani Veneziano, fra quali la Cuffia del Silenzio.
Un giornaletto prese subito negozio, e venne fuori facendo festa con un articolo di fondo, nel quale l’autore, a vista di questa scoperta, dicea –  di aver tanto maggior motivo di rallegrarsene, che non essendo estraneo alla compilazione di un libro che menò assai rumore in Europa: la Torture en Sicile par M. De La Varenne, vede che i fatti vengono adesso ad appoggiare vittoriosamente la veracità delle sue corrispondenze.
Ma l’autore di questo articolo non ignorava chi fu il primo che denunziò all’Europa l’esistenza della Cuffia del Silenzio e ne pubblicò il disegno e la descrisse. Egli non ignorava quanto tempo prima della pubblicazione dell’opuscolo di De La Varenne fu pubblicato il nostro lavoro che veramente fece il giro dell’Europa e la commosse, e al quale attinsero notizie Mr. De La Varenne e il suo corrispondente Palermitano. (Le nostre pubblicazioni fatte contemporaneamente nel Corriere Mercantile, e nell’organo officioso di Palmerston il Morning Post rimontano al 1856-57. Le pubblicazioni del De La Varenne sono del 1860.)
Eppure di tutto si parla dal signor De La Varenne, dal suo corrispondente, e dall’autore dell’articolo, menochè della sorgente cui attinsero le notizie. Tanto è potente lo spirito di parte! Così si scrive la Cronaca contemporanea!!
Niente di più penoso quanto il parlare e scrivere di sè stesso; ma quando l’ingratitudine, l’ingiustizia degli altri ci obbliga a farlo non c’è rimedio; bisogna rivendicare quel che ci appartiene, prendere il posto che ci spetta; e però ripubblichiamo, quanto da noi fu pubblicato nel 1856, in rapporto alla Cuffia del Silenzio.
E poichè la corrispondenza in cui trattasi di questo orribile strumento di tortura, fa seguito ad altra corrispondenza, così per migliore intelligenza dei lettori, e più ancora, per onorare la memoria di illustri vittime, cominceremo dalla prima in cui trattasi del processo e fucilazione del barone Bentivegna.
Le corrispondenze che pubblichiamo sono quattro; alla fine della pubblicazione di esse, per dare a ciascuno il merito che gli spetta, diremo le persone che ci fornirono le importanti notizie; riveleremo i nomi di coloro che fecero i disegni degli strumenti; ed i mezzi, che ci sarà permesso di rivelare, dei quali ci siamo serviti per farle giungere a Londra e a Genova.
In ultimo, dando uno sguardo all’opuscolo del signor De La Varenne, diremo in quali e quanti errori è caduto l’autore.

L'autore

Giovanni Raffaele: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni. Un periodo di cronaca contemporanea. 
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