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mercoledì 31 gennaio 2024

Luigi Natoli: Ecco che cosa può l'ignoranza in cui è tenuta la patria nostra! Tratto da: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano

- Ecco che cosa può l’ignoranza in cui è tenuta la patria nostra! – osservò amaramente don Francesco – uomini di cuor generoso, di spiriti nuovi, atti ad affrontare e a vincere i pregiudizi sociali, sono sopraffatti dal pregiudizio politico, che rappresenta le nuove idee, i nuovi principii come qualcosa di innaturale, di spaventevole... Eh, giovanotto mio, tutto ciò che è nuovo, e che per conseguenza urta contro il vecchio, è in fondo rivoluzionario; e ciò che è rivoluzionario è giacobino... Voi avete creduto di compiere un atto di riconoscenza verso un uomo che la fortuna ha fatto nascere in un ceto ritenuto inferiore, un atto perfettamente cristiano... ma nel tempo stesso avete combattuto e vinto in voi il pregiudizio anticristiano che vi faceva considerar cotesto giovane come un vostro inferiore; avete cancellato la distanza che la vecchia società ha posto fra padroni e servi, e avete proclamato l'idea della vostra fratellanza.... Che cosa volete di più rivoluzionario nel vostro atto? Ebbene, giovanotto mio, cotesto giacobinismo che vi ha fatto paura, proclama appunto il gran principio che tutti gli uomini sono uguali e sono fratelli...
- E perchè dunque tutte le nazioni insorgono contro la Francia? – oppose Corrado.
- Le nazioni? No. Sono i re, ed è chiaro: sono i padroni che non vogliono perdere il dominio sugli uomini tenuti come schiavi, e.che hanno paura di quelle nuove idee proclamate in Francia...
- E perchè i giacobini offendono la Chiesa e perseguitano i sacerdoti?- Perché i preti, invece di prendere la difesa degli umili, e professar, come sarebbe loro dovere, il grande principio cristiano della fratellanza umana, si sono posti a servizio dei padroni, per ribadire le catene della schiavitù. Essa è contro il popolo e contro il precetto di Dio…
Corrado li ascoltava con stupore e con un certo piacere avido: bandito, posto fuori legge, vittima anche lui di oscure persecuzioni, di pregiudizi e di ingiustizie, intravedeva nelle parole di quegli uomini un mondo ideale nuovo, nel quale certi pensamenti, certe aspirazioni che gli parevano naturali e suggeriti dalla sua singolare condizione si coloravano di una luce nuova.
- È tempo in verità di snebbiare le menti, – continuò don Francesco accalorandosi; – è tempo che la luce del vero risplenda. Bisogna liberare il popolo dalla schiavitù; che il potere sia restituito alla nazione; che sia chiuso e per sempre il regno dell'ignoranza e della miseria!... Voi avete percorso tutte queste nostre regioni; avete veduto feudi immensi, senza un filo d'erba; abbandonati alla pastura; senza una casa; e di quando in quando un villaggio miserabile, abitato da contadini miserabili, proprietà di un patrizio, che non conosce neppure, che li fa morire di freddo, di fame, di malaria; ma che ogni anno spreme da quelle terre e dal lavoro di quei contadini di che rivestir di oro le sue carrozze, gittare una farina sopra un tavolino da giuoco o sul letto di una cantatrice o di una ballerina! Tutta la nostra isola, un dì fiorente e ricca, ora non è che un vasto campo di sfruttamento nelle mani della nobiltà e del clero. Non ci sono che tre ceti; due ricchi, nobiltà e clero; uno povero, il popolo. La povertà di questo costituisce la ricchezza degli altri, e lo tiene schiavo. Ora bisogna che il popolo abbia la sua parte di ricchezza; e, per averla, deve conquistare i medesimi diritti degli altri due ceti, o deve distruggere quelli in virtù dei quali nobiltà e clero hanno spogliato e assoggettano il popolo. Ecco, che cosa è questo giacobinismo che vi ha fatto paura: è la libertà per tutti, l'uguaglianza di tutti, la fraternità fra tutti. È un delitto? No. È riconoscere in ogni uomo un valore pari a quello di un altro uomo; e non riconoscere altro privilegio se non quello della virtù, dell'ingegno, e del valore. Voi, in coscienza, vi sentite come uomo forse inferiore al primo titolato, allo stesso vicerè? No? E perchè dunque ciò che sentite nella coscienza non deve essere riconosciuto da un diritto?
(Nella foto: Francesco Paolo Di Blasi, giureconsulto)


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine settecento, al tempo della rivoluzione francese. Al centro dell'opera il personaggio storico e giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi. L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Pagine 855 - Copertina di Niccolò Pizzorno
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Luigi Natoli: Rischiariamo un po' l'ombra che avvolge questi Siciliani... Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860

Sul concorso dei Siciliani a Calatafimi, lo storico Luzio si limita a ricordare i frati francescani, che combattevano valorosamente, che erano 6 o 12, pel Bandi, e due per l’Abba, più esatto.Ma quanto alle squadre, gli scrittori garibaldini o tacciono o travisano o calunniano: chi scrisse che esse erano di imbarazzo; e che Garibaldi, a Calatafimi, le relegò sopra un colle dove stettero a vedere; e chi, misero cuore e più misero cervello, aggiunse che stavan lì per gittarsi dalla parte del vincitore: tutti tacquero o negarono che esse si fossero battute accanto ai Mille sul colle fatale: salvo quei frati francescani. E non mancò chi scrisse che solo quattordici “valentuomini” spacconi, si presentarono a Garibaldi, ma per rubare i fucili ai volontari e sparire!(122).
Or bene degli storici venuti dopo, e il Luzio con essi, nessuno si domandò come mai Garibaldi avesse potuto formare a Salemi una nona compagnia al comando del Grizziotti. La verità è invece che a Salemi raggiunsero Garibaldi le squadre di monte San Giuliano con Giuseppe Coppola; di Alcamo coi fratelli Sant’Anna; di Partanna, di Santa Ninfa; non tutte armate pei disarmi avvenuti pochi giorni innanzi; inoltre una quarantina di Marsalesi e più di trenta Salernitani che vi si aggiunsero; molti di costoro che non formavano distinte squadriglie, incorporati nei Mille, resero possibile la formazione della 9.a compagnia. Il 15 Garibaldi pose le squadre del Coppola alla sua sinistra: la squadra di Salemi sopra un colle a destra. Sui colli più lontani mandò quelli armati di lance, a gridare e spaventare il nemico.
A questo punto voglio citare una testimonianza, quella di Alessandro Dumas padre. Un romanziere? Sì, un romanziere che assai spesso è più esatto di molti storici: e del resto, poichè il Luzio cita la testimonianza di Ippolito Nievo, poeta e romanziere, voglio ben ricorrere anch’io a un romanziere. Dunque il Dumas che scrisse i primi capitoli dei suoi Garibaldiens, nel giugno del 1860, a Palermo, sulle notizie fornitegli da Garibaldi e da Stefano Türr, descrivendo la battaglia di Calatafimi, dice: “Les volontaires essuient le premier feu assis et sans bouger; seulement, a ce premier feu, une partie des picciotti disparait”. (Disparait forse non è esatto, e bisogna dire che si sparpagliarono, non avvezzi a combattere all’aperto e in ordine serrato; ma non monta, andiamo innanzi). “Cent cinquante, à peu prés, tiénnent ferme, retenus par Sant’Anna et Coppola, leur chefs, et deux franciscains quì, armés chacun d’un fusil, combattent dans leurs rangs”.
Dunque solo una parte, concediamolo pure, si dileguò al primo fuoco; ma almeno centocinquanta siciliani combatterono tra le file dei Mille, quel glorioso 15 Maggio. Perchè il Luzio non ha citato il Dumas? Che se egli sdegnò la testimonianza del Dumas, perchè non raccolse e non citò quella dello stesso Garibaldi, sulla quale gli storici passano allegramente sopra? Il domani del combattimento, scrivendo alla Direzione del fondo pel Milione dei fucili, l’Eroe diceva: “Avvenne un brillante fatto d’armi avant’ieri coi Regi capitanati dal generale Landi, presso Calatafimi. Il successo fu completo, e sbaragliati interamente i nemici. Devo confessare però che i Napoletani si batterono da leoni... Da quanto vi scrivo, dovete presumere quale fu il coraggio dei nostri vecchi Cacciatori delle Alpi e dei Siciliani che ci accompagnavano”. Ma rischiariamo un po’ l’ombra che avvolge questi Siciliani.
Dopo la battaglia si ebbe doverosa premura di raccogliere devotamente i nomi di quelli dei Mille che caddero morti o feriti: ma non si fece altrettanto di quelli dei Siciliani che furono loro pari in valore e in sacrificio. Or bene, le pubblicazioni fatte nel 1910 ci mettono in grado di supplire, benchè tardi, alla ingiusta dimencanza. Sul colle di Calatafimi, dei Siciliani che si batterono, morirono Carlo Bertolino, Sebastiano Colicchia, Francesco Agosta; vi furono feriti Stefano Sant’Anna, Antonino Barraco, Ignazio Pandolfo, Nicolò Messina, Giuseppe Catalano, un Cangemi, Carmelo Rizzo, Vito La Porta(123). Altri morti e feriti ebbe la squadra del Coppola, dei quali non si conoscono i nomi. E non son tutti; chè quei nostri antichi, modesti e silenziosi, ritrattisi nell’ombra non vantarono l’opera propria nè curarono di tramandare l’altrui. Molti morirono dimenticati. E del loro valore non mancano prove segnalate: Giacomo Curatolo-Taddei fu promosso tenente il giorno dopo il combattimento: il Colicchia morì colpito in bocca, mentre si slanciava per strappare all’alfiere napoletano la bandiera; Simone Marino, o fra Francesco, fu il primo a lanciarsi per prendere il cannone nemico, e se ne diè vanto solo al Cariolato e al Meneghetti, che erano con lui. V’eran fra combattenti siciliani giovanetti di quindici anni, come Antonino Umile di Marsala: e perfino una donna, Maria Giacalone, la quale volle seguire il marito, Federico Messana, e con lui fece poi tutta la campagna e a S. Maria di Capua fu promossa caporala(124). E tutto ciò consta da documenti e testimonianze.
Ora rendere omaggio a quelli dei Mille che morirono o ebbero ferita, è dovere: ma tacere i nomi dei Siciliani caduti, negare anzi che si siano battuti, peggio ancora calunniarli, non è soltanto ingiustizia, è viltà.
Ma il torto è però nostro. Dal 4 aprile a tutto il 1860, noi in Sicilia demmo alla causa della libertà e dell’unità centinaia di morti; dei quali non raccogliemmo i nomi, nè si seppe mai chi fossero. I morti dei volontari potevano essere identificati agevolmente, con l’aiuto dei registri dell’Intendenza; ma quelli delle squadre, no. Neppure i capi-guerriglia conoscevano i nomi dei loro uomini; quei contadini lasciavano le loro terre, le loro case, le loro famiglie; andavano a ingrossare una squadra, combattevano, taciti, senza chiedere altro che il loro pane e le munizioni; morivano avvolti nello stesso silenzio; nessuno domandava chi erano, donde venivano; e i più, la gran maggioranza, restò ignota, anonima, senza postuma gloria, senza compianto, senza onori. Martiri oscuri diedero la vita alla Patria e non contesero la gloria a nessuno.


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. Una raccolta di scritti storici e storiografici rigorosamente nella originalità dei documenti:
Storia di Sicilia dalla Preistoria al Fascismo (I Buoni Cugini 2020 - Per la parte di storia siciliana che va dal 1820 al 1860) 
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione. (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910) 
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille. (Estratto mensile "Rassegna storica del Risorgimento Anno XXV Fasc. II Febbraio 1938 - XVI) 
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto da "La Sicilia nel Risorgimento italiano - anno 1931")
Rivendicazioni. Attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927).
Prezzo di copertina € 24,00 - pagine 544
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile: 
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Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
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giovedì 11 gennaio 2024

Luigi Natoli: Santa Miloro, l'eroina del 12 gennaio 1848. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860.

La mattina del 12 gennaio 1848, mentre scoppiavano le prime fucilate, e un pugno di giovani audaci, sfidava le truppe borboniche, fu vista una giovane donna percorrere le strade di Palermo, chiamando alle armi i neghittosi, spronando i timidi, e distribuendo coccarde tricolori.
Sola, armata della sua bellezza, non paventando le armi, come sicura del destino, a quella rivoluzione scop­piata con cavalleresca puntualità aggiungeva un sapore di romanzo e di poesia.
Quella donna era Santa Diliberto, che rimasta ve­dova a venti anni, di un Astorina, e passata dopo non molto, in seconde nozze con Pasquale Miloro, uno dei cospiratori, era stata messa a parte dei segreti con­vegni; uscito il Miloro lo aveva seguito, con quelle coccarde.
Poche donne erano note come “donna Santuzza”. Ella doveva la sua notorietà a tre cose: la sua bellezza, la sua eleganza semplice ma originale, la sua bottega di guanti.
Non v'erano in Palermo guanti migliori di quelli di “donna Santa”, nè v'era chi sapesse increspare o stendere con maggior gusto la spoglia di quei graziosi ombrellini che usavano allora, simili a ninnoli. La sua fabbrica aveva venti tagliatori di guanti; le cucitrici erano un centinaio. Aveva la bottega in Via Cintori­nai, in sul principio, a destra di chi vi entra dalla via detta oggi di Vittorio Emanuele; e questa bottega era sempre affollata. Tutta la nobiltà di Palermo, ed anche quella dell'isola si serviva di guanti, ombrellini, e ven­tagli, da “donna Santa”.
Ella era alta e slanciata. I capelli bruni, copiosi, spartiti sulla fronte, raccolti intorno alle tempie e sugli orecchi, le incorniciavano il volto ovale e bianco.
Il naso piccolo, appena appena arcuato, gli occhi grandi, neri, sereni, la bocca un po' sottile, piccola, fiorita d'un tenue sorriso.
Nel portamento un'aria giunonica, consapevole, quale apparisce ancora da una fotografia di quando era nella piena maturità della vita e della bellezza impe­riosa e magnifica.
L'avevano sposata fanciulla poco men che sedicenne ad un Astorina; era rimasta vedova a venti anni, con una industria fiorente; qual folla di cospiratori, e quali tentazioni, non dovevano circondarla? quali insidie non avvilupparla? Ma donna Santa era saggia ed avveduta.
“Io, mi diceva, non avrei sposato mai un uomo che avesse potuto parere un coperchio; volevo un uomo serio, un uomo che avesse imposto rispetto; ed ecco perchè accettai la mano di Pasquale Miloro, e diventai la signora Miloro!...”.
Ho scritto “mi diceva”. Ebbene, sì: donna Santa, il rudere di questa bellezza, la dispensatrice delle coccarde all'alba del 12 gennaio, questa unica e sola superstite del manipolo che iniziò la rivoluzione famosa, que­sta figura eroica e poetica, della giornata memoranda, che con le belle mani statuarie diffondeva il simbolo della libertà, e affrontava le fucilate; era ancor viva quando nel 1910, io la scopersi nella casetta dove viveva ritirata e silenziosa. Aveva allora novantasei anni ed era svelta; sebbene un po' curva: e malgrado le rughe e solcassero la fronte, gli occhi avevano ancora l'antico lampo; la mente era lucida, e i ricordi vivaci. Nella soli­tudine in cui viveva dimenticata, sopravissuta alla sua storia, serbava gli entusiasmi giovanili nell'animo rimas­to ancora rivoluzionario del '48.
Io andai a trovarla nella sua casetta, al numero 33 della via Volturno. Era seduta in un’ampia poltrona; e appena mi vide entrare, si alzò e mi porse le mani affabilmente. Io volevo udire dalla sua bocca l’episodio del 12 gennaio: ma prima di parlare, ella andò a prendere da un cassetto un libro, lo aprì e me lo porse.
- Legga, legga! – mi disse.
Il libro era la raccolta di scritture, proclami, memorie della rivoluzione, stampati nel 1848; e la pagina mostratami conteneva un cenno encomiativo di Santa Miloro, additata alla pubblica ammirazione, e riconosciuta benemerita della patria.
- Vede chi son io? – aggiunse poco dopo, con un certo tono di orgoglio nel quale c’era anche un po’ di vanità. – Io sono stata una di coloro che liberarono la patria dalla tirannia!...


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano – Raccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 575 – Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia, sconto 15%)
Disponibile su tutti gli store di vendita online.
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi) Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), Libreria Forense (Via Maqueda 185)

Luigi Natoli: Spiriti repubblicani nella rivoluzione del 12 gennaio 1848 - Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860

Gli storici siciliani della rivoluzione del 1848, mossi da non so quale paura, più della parola che della cosa, o non parlano o diminuiscono l’importanza delle manifestazioni repubblicane, che non vi mancarono, negando perfino l’esistenza di un partito repubblicano, pel solo fatto che esso era scarsamente rappresentato in Parlamento. E ciò, non ostante che più volte uomini di parte repubblicana, per la loro tutorità, fossero stati chiamati al governo.
Che un partito organizzato come lo intendiamo oggi non ci fosse, è vero: ma non è da maravigliarsene. Nel ‘48 le Camere non rappresentavano divisioni nette di partiti; v’erano certamente i più temperati a destra, e v’erano i più accesi a sinistra; ma poiché si era, e si fu, per tutti i sedici mesi in un periodo rivoluzionario, col nemico ai fianchi, e con la necessità impellente di costituirsi e assicurarsi l’indipendenza, il comune interesse offriva un terreno nel quale le frazioni del Parlamento, anche senza preventivi accordi, si intendevano e procedevano insieme, superando le divergenze programmatiche. Così si spiega come nel primo periodo il piccolo gruppo repubblicano, senza per questo rinunciare ai suoi principii, concorresse con uomini suoi alla composizione del Ministero, accanto a uomini di parte moderata; e come dall’altro lato i più inclini alla monarchia riconoscessero il contributo morale che questi repubblicani portavano al Governo.
L’odio accumulato per trentatre anni, aveva spezzato ogni legame coi Borboni: la stessa nobiltà, che per tradizioni è sempre legata al trono, si era staccata da essi; eccetto pochi, che, per altro, non erano disposti a farsi massacrare per Ferdinando e Maria Teresa, come i cavalieri brettoni per Maria Antonietta. I monarchici puri, quelli cioè che consideravano la monarchia con anima religiosa eran pochi; molti quelli che l’accettavano come una necessità; i più, perchè era nella tradizione o per poltroneria spirituale.
I repubblicani al Parlamento erano un piccolo gruppo, ma di prim’ordine; fuori del Parlamento erano più numerosi che non si creda. Michele Amari lo storico, Giuseppe La Farina, Francesco Crispi, Vincenzo Errante, Giuseppe La Masa, Pasquale Calvi, Michele Bertolami, Giovanni Interdonato, Angelo Marrocco, Saverio Friscia e pochi altri alla Camera dei Comuni; e accanto a essi i simpatizzanti, come Paolo Paternostro, Francesco Ferrara, Gabriele Carnazza e altri più o meno, che sedevano a sinistra; fuori del Parlamento, Gabriele Dara, Carlo Papa, Pietro d’Alessandro, Rosolino Pilo, Francesco Milo-Guggino, Giorgio Tamaio, Rosario Bagnasco, Giuseppe Vergara-Craco, Carlo F. Bonaccorsi, Paolo Morello, Giovanni Corrao, Giuseppe Benigno, Giuseppe Badia, poeti, scrittori, giornalisti, combattenti, e una folla di ignoti, che non mancava di manifestare i suoi sentimenti in foglietti anonimi, in poesiole. Ma più nei giornali. Tra il 1848 e il 1849 se ne pubblicarono sette od otto di principî repubblicani, alcuni vissero come le rose, un mattino; qualche altro tirò più a lungo; maggior durata ebbe l’Apostolato di Francesco Crispi, che fu anche il più serio, e uno dei migliori che si pubblicassero in Palermo; degli altri ricordiamo la Propaganda, la Democrazia, la Repubblica, la Sentinella del popolo. Non citiamo la Giovane Sicilia, i cui ardori repubblicani erano di assai dubbia purezza, perché fondata e diretta da un tal Salvatore Abbate e Migliore, che al 1849 si rivelò triste arnese del Borbone, e forse incitava a repubblica per provocare disordini.
Ma i repubblicani non scrivevano soltanto nei giornali di lor parte; essi trovavano accoglienza – senza riserve – anche in altri giornali. L’Indipendenza e la Lega di Francesco Ferrara, il miglior giornale della Sicilia e uno dei migliori che vedessero la luce in Italia in quei tempi, era preferito dagli scrittori repubblicani. Uno dei redattori più assidui era C. F. Bonaccorsi, amico del Mazzini, da lui conosciuto a Londra, e che avremo occasione di citare più innanzi.
Gl’inni stessi, esaltatori di vittoria o incitatori alla guerra, non si sottraggono a questo sentimento: uno di essi, che io fanciullo sentivo ancora canticchiare da qualche vecchio del ‘48, aveva questa strofe, la sola che io ricordi:

Dall’Alpi allo Stretto
s’innalzi una voce;
si pianti la croce
sul trono dei re!

Gabriele Dara, che, come dissi, era il Berchet della Sicilia, nei segreti convegni dei giovani leggeva le sue ardenti poesie, che, ricopiate si diffondevan celatamente. Nel 1847 in un’ode a Pio IX poetava:
Quest’unico patto tra’popoli e i re:

“Secura non fia d’Italia la sorte
se il seme perverso distrutto non è;
In un’altra ode all’Italia:
Esulta! Si appressa... sonata è quell’ora
l’estremo momento dei Regi sono!
ed evocando il Genio di Roma aggiungeva:
Sull’Etna e sull’Alpe posate le piante
dal crin la corona ritoglie ai suoi re,
e in fascio raccolte le insegne fatali
le frange, e sdegnoso le calca col piè...




Luigi Natoli: Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano – Raccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
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I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
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Luigi Natoli: Così ebbe inizio la rivoluzione del 12 gennaio 1848... Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860

Il mese di gennaio 1848 entrava carico di foschi presentimenti; le agitazioni crescevano, le stampe rivoluzionarie si moltiplicavano; le spie riferivano al Prefetto di polizia che pel giorno 12 tutti sarebbero usciti con coccarde tricolori. Il luogotenente generale Di Maio chiudeva l’Università, rimandando nei paesi natali gli studenti. Ma la mattina del 9 apparvero sui muri, e furon distribuiti e spediti in gran numero nella provincia, foglietti a stampa che contenevano questo memorabile proclama:
“Siciliani, il tempo delle preghiere inutilmente passò. Inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni, Ferdinando tutto ha spezzato; e noi, popolo nato libero, ridotto fra le catene nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i legittimi diritti? – Alle armi, figli della Sicilia! la forza di tutti è onnipotente: l’unirsi dei popoli è la caduta dei re. – Il giorno 12 gennaio 1848 segnerà l’epopea gloriosa della universale rigenerazione. Palermo accoglierà con trasporto quei Siciliani armati che si presenteranno al sostegno della causa comune, a stabilire riforme e istituzioni conformi al progresso del secolo, volute dall’Europa, dall’Italia, da Pio. – Unione, ordine, subordinazione ai capi, rispetto a tutte le autorità e che il furto si dichiari tradimento alla causa della patria, e come tale sia punito. – Chi sarà mancante di mezzi sarà provveduto. – Con giusti principi, il cielo seconderà la giustissima impresa. – Siciliani, alle armi!”
Questa sfida, che si credette lanciata da un Comitato e stampata dal tipografo Giliberti, era stata ideata e scritta da Francesco Bagnasco, causidico, di sua iniziativa.
Lo stesso giorno si diffondeva un Ultimo avvertimento al tiranno, e con termini energici si invitavano i Siciliani alle armi, pel 12 gennaio. Il Luogotenente Generale allora si scosse, e ordinò arresti; la notte stessa del 9 la polizia arrestò e fece chiudere nel Castello undici cittadini, tra i quali erano Francesco Ferrara, Francesco Paolo Perez ed Emerico Amari. Egli credeva avere posto le mani sui capi; ma a disingannarlo, il domani 10 apparve una dichiarazione firmata da un Comitato direttore che confermando la sfida, dava istruzioni alle squadre cittadine e delle campagne, prometteva capi ed armi, e metteva in guardia i cittadini contro le manovre della polizia.
All’alba del 12 poca gente disarmata uscì curiosa per le strade; un certo Vincenzo Buscemi, vedendosi il solo armato, credette ad un tradimento, e tirò la prima fucilata.
Sopraggiunsero altri nella piazza della Fieravecchia e fra essi Giuseppe La Masa armato, venuto da due giorni nascostamente da Firenze, che cominciò ad esortare i convenuti. Giovane, di bell’aspetto, con una pronuncia toscaneggiante, ignoto a tutti, fu creduto uno dei capi venuto dal Continente. Allora il giovane avvocato Paolo Paternostro, salì sulla fontana che orna la piazza, ed arringò la folla che si veniva facendo. Si gridò Viva Pio IX! Viva l’Italia! Viva la Sicilia! Il La Masa scrisse un breve proclama, in nome di un Comitato provvisorio della Piazza d’armi della Fieravecchia, e improvvisò una bandiera legando un cencio bianco uno rosso e uno verde a una canna. Ma Santa Astorina, moglie di Pasquale Miloro, uno degli accorsi, portò una bandiera e coccarde tricolori preparate dal marito nella notte. Si cominciarono a sonare le campane a stormo. Gli insorti erano qualche centinaio e si divisero a squadre; avvenne uno scontro contro la cavalleria, e vi trovò la morte Pietro Omodei, il primo cittadino caduto. Se il Comando non avesse ritirato le truppe, avrebbe potuto troncare i pochi insorti, ma memore del 1820, forse temendo imboscate, non osò prendere una vigorosa offensiva, e segnò la sua condanna.
Un vero Comitato provvisorio della Piazza d’Armi, fu costituito in piazza Fieravecchia coi nomi del La Masa, di Giuseppe Oddo-Barone, barone Bivona, di Tommaso Santoro, di Salvatore Porcelli, di Damiano Lo Cascio, di Sebastiano Corteggiani, di Giulio Ascanio Enea, di Mario Palizzolo, di Pasquale Bruno, dei tre fratelli Cianciolo, di Giacinto Carini, di Rosario Bagnasco, di Leonardo Di Carlo, del principe di Villafiorita, di Giovanni Faija, di Rosolino Pilo, dei fratelli d’Ondes; ai quali poi si aggiunsero Salvatore Castiglia, Filippo Napoli, Ignazio Calona, Vincenzo Fuxa, il principe di Grammonte e qualche altro.
Il giorno dopo cominciarono ad arrivare le squadre dei dintorni, e si ripresero i combattimenti per espugnare i Commissariati e i posti avanzati, come quelli delle Finanze e della vicina gendarmeria. Intanto, essendo necessario provvedere ai bisogni della città e della rivoluzione, fu convocata, dal pretore marchese di Spedalotto, la municipalità con l’intervento dei membri del Comitato della Fieravecchia e di altri cittadini, e si convenne la costituzione di un grande Comitato, diviso in quattro Comitati minori, uno per la guerra e la sicurezza, presieduto dal Principe di Pantelleria, il secondo per l’annona, presieduto dal Pretore, il terzo per raccogliere le somme, presieduto dal marchese di Rudinì, il quarto per le notizie, la stampa, la propaganda, presieduto da Ruggero Settimo, il quale fu posto anche a capo del Comitato generale, con Mariano Stabile segretario. Si istituirono inoltre ospedali pei feriti nella Casa Professa dei Gesuiti e nei conventi di S. Domenico e Sant’Anna; il fiore dei medici offerse l’opera sua, gratuitamente. Due Commissioni, delle quali una di donne, attesero alla beneficenza...


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano – Raccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 575 – Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia, sconto 15%)
Disponibile su tutti gli store di vendita online.
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi) Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), Libreria Forense (Via Maqueda 185)

Luigi Natoli: Il 12 gennaio 1848 la Sicilia fu italiana... Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860

Al 1848 la Sicilia fu italiana; come e quanto, se non più, le altre regioni. Come al 1860 volle e rese possibile l’unità nazionale con lo slancio della sua rivo­luzione, così al 1848 volle l'unione federale; e insorse prima di tutte per attuare questo programma.
Il 12 gennaio 1848, dopo l'audace sfida che rompeva gli indugi, Palermo insorse. Combattè per ventiquattro giorni, espugnando a una a una tutte le posizioni delle truppe regie, e respingendo i rinforzi venuti da Napoli col conte d'Aquila e il generale de Sauget. Ma Napoli non si mosse, non incoraggiò nè soccorse il fiacco moto di Salerno; non seppe o non potè; o non volle compro­mettersi.
Verso la fine di gennaio del 1848, un ignoto scrit­tore di foglietti volanti, annunziando la fuga del gene­rale Vial e delle truppe regie, e dicendo non rimanere altro a conquistare che il castello; conchiudeva con que­ste parole: “La deve sventolare l’italiana bandiera, e i naviganti della bella penisola, scoprendola di lontano grideranno: – Ecco la patria nostra!”.
La patria nostra, l’Italia! Ecco quel che per l'ignoto scrittore significava il vessillo innalzato sul mastio del castello: e l’immagine lirica esprimeva tutto il pen­siero, tutto il sentimento, tutte le speranze della rivo­luzione siciliana.
La caduta della quale, pei grandi irreparabili er­rori dei suoi ministri e per l'atteggiamento infedele da prima, ostile poi, dei fratelli napoletani, precedette di quarantotto giorni quella di Roma, di tre mesi quella di Venezia: ma mentre a queste due città si rende la glo­ria e l'onore cui han diritto, sulla rivoluzione siciliana si è gittata l'ombra di un giudizio calunnioso, che, come tutte le calunnie, vi si è attaccato, ed è difficile liberar­nela. Ciò non toglie che sia dovere di storico onesto non ripeterlo, ma indagare la verità, perchè la sua luce disperda per sempre quell'ombra, e dia a ciascuno il suo.


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano – Raccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 575 – Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
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Angelo Coppola: La rivoluzione la faccio io! Il sacrificio dei pochi laverà la macchia che hanno gettato sulla Sicilia... Tratto da: La vita di Giuseppe La Masa nella storia del Risorgimento italiano.

 
Con proponimenti d’immediata azione il giorno 3 gennaio 1848, Giuseppe La Masa, con passaporto svizzero procuratogli dal Merighi, sotto il nome di Vincenzo Pozzo, presenti il cav. Rosario Salvo di Pietraganzili, Francesco Crispi e Salvatore Castiglia, s’imbarcava sul piroscafo Duca di Calabria. Dopo breve approdo a Paola, sulla costa delle Calabrie, salpò sopra un piccolo schifo alla volta di Messina, munito soltanto della spada ispirata di Giovanna d’Arco e del gonfalone intemerato della propria fede.
Sbarcato il giorno 5 in Messina, avvicinò solamente il Bertolami e l’avv. Pisani, raccomandando loro d’impedire qualunque movimento prima che arrivassero disposizione da Palermo. Nello stesso giorno partì alla volta di Catania da dove, sempre agitando ed animando, nella notte dell’8 gennaio si ridusse in Palermo nascondendosi nel palazzo Aiutamicristo prossimo alla Fieravecchia. Ivi s’incontrò con Vincenzo Errante, Giacinto Carini e Rosolino Pilo; dal quale ultimo, nel giorno 9, venne informato che “ogni mezzo era completo e verrebbe manifestato al popolo la dimane”.
Non è a dire, in quell’epoca di terrorismo, a quanti e quali pericoli andasse incontro e come sfuggisse ai sospetti della polizia, trasformandosi e nascondendosi di soffitta in soffitta; pericoli che dimostrano di quale coraggio e quale fede fosse animato quel prode, in tempi in cui gli avvocati non avevano ancora accreditata la forza irresistibile ed i sovrani non usavano di far grazia sulle pene capitali; molto meno per coloro come il La Masa, sul cui capo pesava già la taglia di rivoluzionario.
Domenico Cirillo e Mario Pagano che affrontarono la morte centellinandola fin sulla forca, dimostrarono certamente maggior animo di coloro che la sfidarono nell’impeto delle battaglie.
La sera del giorno 10 il La Masa si rivolgeva a Rosalino Pilo per avere notizie sui lavori del Comitato insurrezionale. La risposta, questa volta, non fu rassicurante; tanto che il La Masa cominciò a dubitare della energia del Comitato. Ma non per questo desistette dai suoi propositi.
Spuntò finalmente l’alba del 12 gennaio ed i cannoni di Castellammare, annunziavano il giorno di gala di Re Ferdinando. Il La Masa, ch’era rimasto rifugiato dentro il palazzo Aiutamicristo, attendeva il grido degl’insorti, le armi, gli armati ed i soccorsi del Comitato rivoluzionario. Qualcuno che più ardimentoso era uscito per le vie, si ritirava scoraggiato; ed il La Masa che, impaziente, ebbe agio d’interrogare qualcuno del Comitato segreto, si ebbe in risposta parole sconfortanti e preghiera di non mostrarsi.
“Ti preghiamo caldamente” gli scrisse Vincenzo Errante “a non uscir di casa. Il Comitato direttivo non si è fatto vedere, i capi della rivoluzione neppure, la gente tutta inerme e disperata si ritira nelle proprie case, sbandata dalle forti pattuglie che percorrono le vie”.
Ma il La Masa era uomo d’azione, di coraggio, di fermezza e di ardire.
“Ma che Comitato direttivo!” grida deciso; “la rivoluzione la faccio io. Il sacrificio dei pochi laverà la macchia che hanno gettato sulla Sicilia, anche innocentemente, coloro che hanno impreso a dirigere la sua rivoluzione che, spenta questa volta, resterà spenta per sempre”.
Non si credette tenuto di rispettare e aspettare.
Preso il suo schioppo, ottenuto libero il passaggio, che otto contadini armati di fucili, colà destinati a custodia del palazzo, gli contrastavano, ratto si ridusse in Piazza della Fieravecchia. Non si sgomenta della solitudine, “lega in vetta ad una canna”, scrive Giuseppe La Farina, “una pezzuola bianca, un’altra rossa ed un nastro verde, e fa sventolare i tre colori italiani. E: Dio aiuti la santa causa solenne! esclama. Ecco il momento; il mio cuore batte di gioia, Dio protegga i nostri sforzi.
“I popolani accorsi al rumore chiedeano le armi e i capi promessi: vider La Masa, che ha aspetto ed accento forestiero, e che non conosceano perché da pochi giorni rimpatriato con falso nome; credettero foss’egli il capo, e seguironlo”.
E qualificandosi come rappresentante del Comitato Direttivo, brandisce il seguente proclama che in varie copie manoscritte fu dagl’insorti affisso sui canti delle vie non occupate dalle truppe.
 
Palermo all’alba del 12 gennaio 1848
“Il Comitato provvisorio della piazza d’armi della Fieravecchia.
Fratelli!
L’alba del 12 è spuntata. La solenne disfida si compie nella piazza della Fieravecchia, dove il Comitato Direttivo è sorto in armi e v’invita alla battaglia.
Ognuno di voi manterrà la promessa.
All’armi o fratelli! Chiunque ha un ferro o uno schioppo, e un cuore siciliano, si raduni sulla piazza rivoluzionaria, alla Fieravecchia.
Cristo è con noi, viva Pio IX, viva la Costituzione, viva l’Indipendenza.
 
 Pel Comitato Direttivo
Il segretario Giuseppe La Masa

E promettendo armi agl’inermi, incominciò dal disarmare gli otto contadini destinati alla custodia del palazzo dal quale era uscito ed a raccogliere le armi che possedevano i vari inquilini ivi abitanti. E così, inebriando i timidi col fascino del suo aspetto, con la prontezza del suo spirito e con l’efficacia della sua parola, la fiducia faceva rinascere.
Intanto nella piazza della Fieravecchia non più di 20 cittadini muniti chi di armi bianche e chi da fuoco, col nastro tricolore nel petto e sul capo, smisurato ardire, stanno ansiosi aspettando che altri venisse a far massa più imponente e compatta. Fu tremenda quell’ora di aspettativa e di dubbio; ma si aggiungevano altri volenterosi di aumentarsi e senza armi. alcuni di questi ne vanno in cerca nelle case delle prossime vie, pregando i timidi a darle o invogliando gli animosi a seguirli.
Il La Masa passando per via Macqueda, impone al sacrista della chiesa di S. Orsola di suonare a stormo le campane, per ridestare la magica fantasia del Vespro. L’esempio si propaga…


Angelo Coppola: La vita di Giuseppe La Masa nella storia del Risorgimento italiano. 
Prefazione di Pietro Zambito. 
Pagine 438 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia, sconto 15).
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria Macaione (Via M. Villabianca 102), Libreria Forense (via Maqueda 185)


Angelo Coppola: I proclami del 12 gennaio 1848 di Francesco Bagnasco. Tratto da: La vita di Giuseppe La Masa nella storia del Risorgimento Italiano

 


Nella notte dal 9 al 10 gennaio, circolava per la città un proclama sedizioso:
“Fratelli!!
Il re ci tiene nella schiavitù e nella miseria. Mostriamo il nostro coraggio, corriamo alle armi e che il giorno 12 gennaio 1848 sia nefasto al tiranno e ai suoi vili satelliti, e sia a noi foriero di gioia. Alle armi! alle armi!
 
I Palermitani
 
Il giorno 10 poi il Comitato Direttivo rivoluzionario emanava il seguente cartello di sfida:
 
Siciliani!
Il tempo delle preghiere inutilmente passò! Inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni. Ferdinando tutto ha sprezzato; e noi popolo nato libero, ridotto fra catene, nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i legittimi diritti? All’armi figli di Sicilia. La forza di tutti è onnipossente, l’unirsi dei popoli è la caduta dei re. Il giorno 12 gennaio 1848 all’alba, segnerà l’epoca gloriosa della universale rigenerazione. Palermo accoglierà con trasporto quanti siciliani armati si presenteranno al sostegno della causa comune, a stabilire riforme e istituzioni analoghe al progresso del secolo, volute dall’Europa, dall’Italia, da Pio.
“Unione, ordine, subordinazione ai capi. Rispetto a tutte le proprietà e che il furto sia dichiarato tradimento della patria e come tale punito. Chi sarà mancante di mezzi, ne sarà provveduto. Con questi principii il cielo seconderà la giustissima impresa.
Siciliani all’armi!”

Tale cartello fu, nello stesso giorno seguito dal seguente avviso:

“Le masse armate che dall’interno del Regno corrono a prestare man forte alla causa nazionale, prenderanno posizione nei vari punti delle nostre campagne, indicati dai rispettivi condottieri. Costoro dipenderanno dagli ordini del Comitato Direttore composto dei migliori cittadini di ogni rango.
“La popolazione di Palermo uscirà armata di fucili all’alba del 12 gennaio, mantenendo il più imponente contegno, e si fermerà nelle parti centrali aspettando i capi che si faranno conoscere e la dirigeranno. Non si tirerà sulla truppa se non dopo serie provocazioni e aperte ostilità.
“In ogni intervallo, nessuno ardisca criticare gli ordini e i provvedimenti del Comitato. Ciò è del maggiore interesse perché non si alteri l’esecuzione del piano generale, diretto ad assicurare i destini della nazione e la salute pubblica.
“Qualunque movimento che sarà suscitato in Palermo e fuori, prima del giorno dodici, si avverte esser manovra di quella polizia che cerca di aggravare le pubbliche catene.
“Non si domanderanno contribuzioni ai proprietari, quando non sieno volontarie e spontaneamente esibite. Ciò serva a smentire quanto la polizia va indegnamente praticando per discreditare il Comitato, incapace di esercitare concussioni di migliaia di once, a carico di negozianti e proprietari”.

Erroneamente si è attribuita la paternità del cartello di sfida a Rosario Bagnasco, scultore, mentre fu scritto dal fratello di lui Francesco, forense; tanto è vero che quest'ultimo ottenne dal Parlamento Siciliano una pensione di tarì 12 (L. 5,10) al giorno. Avvenuta la ristaurazione borbonica fu arrestato, e fatto perire in carcere per effetto di durissimi trattamenti. 


Angelo Coppola: La vita di Giuseppe La Masa nella storia del Risorgimento italiano. 
Prefazione di Pietro Zambito. 
Pagine 438 - Prezzo di copertina € 22,00
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Luigi Natoli: Le dimostrazioni cominciarono a Palermo la sera del 27 novembre nel teatro Carolino (oggi Bellini). Tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo

Nelle adunanze di Napoli Giandomenico Romeo di Reggio disse che era tempo d’agire, e ritenendosi giunta l’ora, i Comitati segreti di Reggio e di Messina s’accordarono per insorgere simultaneamente. Però l’impazienza dei Messinesi rese vano il tentativo, perché colta l’occasione che tutti gli ufficiali s’adunavano il 1 settembre a banchetto all’Hôtel Gran Bretagna, i giovani cospiratori si levarono in armi. Ma la sorpresa fallì. Accorsero le milizie, e il numero potè più del valore: dopo qualche ora, messi in salvo i feriti, gl’insorti si dileguarono. Anche il debole tentativo del 2 andò a vuoto. Soldati e birri si abbandonarono a violenze; molti furono arrestati anche innocenti.
Saputosi a Reggio l’accaduto, i cittadini costrinsero il comandante del presidio a innalzare il tricolore italico; e giunto la sera del 3 Giandomenico Romeo con un forte numero di armati, si costituì una Giunta provvisoria con a capo Paolo Pellicano. Questo parve una sfida generale, e mostrò ai liberali di Napoli e di Sicilia che non c’era altra via che la rivoluzione per costringere il Re alle nuove idee. Ma il 4 sbarcarono da due fregate truppe e artiglierie, e non ostante il valore degli insorti, Reggio fu ripresa. Gl’insorti si sbandarono; il Romeo e i suoi congiunti presero la via dei monti, cercati da birri e da paesani allettati dalla grossa taglia imposta sul capo di Giandomenico. Infatti, trovato in un pagliaio, fu brutalmente ucciso, e il capo mozzo fu infilato in una pertica e portato in trionfo a Reggio.
Seguirono processi statali. Degli arrestati in Messina Giuseppe Pulvirenti, l’abate Giovanni Krymy e Giuseppe Sciva furono condannati a morte; ma soltanto l’ultimo fu fucilato. Dei fuggiaschi furono dichiarati fuorbando il Pracanica, il Miloro, due De Mari, il Saccà, e qualche altro, che i contadini aiutarono a salvarsi, e così poterono esulare. Non mancarono arresti di militari, fra i quali i tenenti Longo e Giordano-Orsini, accusati di cospirare coi fratelli Gallo, che furono anch’essi arrestati.
Tuttavia il Re nel novembre fece qualche mutamento nel Governo: l’11 mutò il ministro delle finanze; il 16 licenziò l’odiatissimo ministro Santangelo; indi congedò monsignor Cocle suo confessore, reazionario non meno odiato del Santangelo. Ma non andò oltre.
In quel torno di tempo giunse al Re una petizione firmata da illustri Piemontesi e Romani, fra i nomi dei quali si leggevano quelli di Cesare Balbo, Camillo di Cavour, Carlo Alfieri, Silvio Pellico, Michelangelo Gaetani duca di Sermoneta e Pietro Sterbini, che lo esortavano a seguire l’esempio del Papa e di Carlo Alberto. Ma Ferdinando dichiarò che i suoi avi gli avevano trasmesso potere assoluto, e tale lo doveva trasmettere ai suoi discendenti. Ma giunta a Napoli la notizia dell’insediamento della Consulta istituita da Pio IX, il Comitato promosse il 22 novembre grandi dimostrazioni, e incaricò Rosalino Pilo di andare a Palermo, per suscitarne altre.
E difatti le dimostrazioni cominciarono a Palermo la sera del 27 nel teatro Carolino (oggi Bellini), con grida di Viva il Re! Viva la Lega Italiana! Viva Pio IX! Viva la Sicilia! Si ripeterono poi la mattina dopo nella Villa Giulia, durante il trattenimento musicale, e si rinnovarono la sera.
Il Governo impensierito proibì le dimostrazioni, ma non potè impedire che si coprisse di migliaia di firme una petizione per avere la Guardia Nazionale, nè che la sera del 30 un’altra e più imponente dimostrazione scoppiasse nella piazza della Cattedrale. Le stampe clandestine si moltiplicarono; cartelli veementi apparivano a Messina, a Catania, a Siracusa, ad Agrigento, a Trapani: circolavano poesie suscitatrici di liberi sentimenti, inneggianti all’Italia, alla Federazione italica, alla libertà, alla indipendenza della Sicilia; ne seguivano conflitti e sevizie.
Verso la fine di dicembre, poi, apparve e si diffuse rapidamente in Sicilia, la cosidetta Lettera di Malta, che, fingendo essere brani di una lettera anonima mandata da Palermo per dar ragguaglio degli avvenimenti del novembre, era invece una fiera requisitoria contro il malgoverno borbonico, e concludeva col programma siciliano: indipendenza da Napoli e Federazione italiana. La lettera, che si sapeva scritta da Francesco Ferrara, ebbe effetti pari alla Protesta del Settembrini.
Oramai gli avvenimenti incalzavano: fra i due Comitati di Palermo e di Napoli, riconfermati i patti, e cioè che avrebbero combattuto insieme la comune tirannia e poi ciascuno avrebbe preso il suo posto, si convenne che Palermo sarebbe insorta nel gennaio prossimo e Napoli avrebbe seguito. Gli altri Comitati furono avvertiti.


Luigi Natoli: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo.
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Luigi Natoli: La fucilazione dei fratelli Bandiera fece al Borbone più male di tutte le altre rivolte fino allora scoppiate... Tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo.

 
Appunto in quegli anni si riaccendevano le cospirazioni fra Napoli e la Sicilia.
La polizia raddoppiò i rigori, che crebbero per la paura destata dalla rivolta di Cosenza nel marzo 1844, per cui vi furono sei fucilati, e che fu sprone alla infelice quanto eroica spedizione dei fratelli Bandiera. La fucilazione di questi e dei loro compagni sollevò tanta commozione, e apparve così inumana, che fece al Borbone più male di tutte le altre rivolte fino allora scoppiate; incoronò di gloria i nomi delle vittime, ed infiammò il lavorìo di propaganda segreta, non ostante che Palermo si effondesse in letizia per la venuta dei sovrani di Russia; e che la bellezza e la bontà della figlia Olga, cui dai medici era stato prescritto il clima di Palermo, facessero dimenticare le stragi di Polonia.
Ma nel resto dell’Italia le agitazioni crescevano; il Piemonte, già reazionario, andavasi temperando. Fra il 1843 e il 1845 Vincenzo Gioberti pubblicò il Primato e i Prolegomeni, che fecero gran rumore, ed eccitarono il sentimento nazionale degli Stati Italiani. Alla maggioranza l’idea di una federazione sembrò di più facile conquista e più adattabile, che l’idea unitaria del Mazzini; onde quella raccolse il maggior numero di seguaci; e in Sicilia, accordandosi col concetto di indipendenza da Napoli, diventò il programma delle cospirazioni; al quale anche i Mazziniani davano il loro contributo di forze, considerandolo come il primo passo per conseguire l’unità.
In questo fermento di idee salì al pontificato, il 16 giugno del 1846, Giovanni Maria Mastai col nome di Pio IX, che inaugurando il regno con l’amnistia politica e con riforme civili, suscitò entusiasmi ed esaltazioni generose, le quali costrinsero lo stesso Pio IX ad altre innovazioni; e con la concessione della Civica, l’istituzione della Consulta, l’assunzione di uomini non ecclesiastici a cariche dello Stato, la riforma della legislazione criminale, i provvedimenti finanziari, la permissione entro certi limiti di poter stampare giornali, non soltanto empì di grandi dimostrazioni di giubilo Roma, ma tutta l’Italia ebbe il suo nome come simbolo di rigenerazione politica. Però i duchi di razza borbonica e austriaca si mostrarono restii ad ogni nuova concessione, è più che restio fu avverso Ferdinando II. Allora Luigi Settembrini concepì l’idea di far pervenire direttamente al Re una voce di protesta. Infatti scrisse un opuscolo, che comunicato in segreto a pochi amici e dopo che Carlo Poerio e Giovanni Raffaele vi ebbero aggiunto qualche periodo, fu diffuso col titolo di Protesta del Popolo delle Due Sicilie. Le prime copie furono da Giuseppe Del Re ed Ercole Lanza di Trabia portate a Palermo, dov’era il Re per le feste di Santa Rosalia; ed una fu gettata, non si seppe da chi, nella sua carrozza.


Luigi Natoli: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo. 
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