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giovedì 29 dicembre 2016

Luigi Natoli: il presunto "Regno delle due Sicilie". Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni del 1848-1860


Bisogna prima di tutto fissare i termini del conflitto fra la Sicilia e Napoli. La Sicilia non fu mai, come davano a intendere i napoletani, una dipendenza da Napoli: quegli storici – e anche i maggiori – che parlano di un “regno di Napoli, o peggio delle due Sicilie” innanzi al 1815, dicono uno sproposito madornale. Sino al 1282 vi fu un “regno di Sicilia con capitale Palermo”, cui erano annessi il ducato delle Puglie e il principato di Capua con Napoli; dal 1282 in poi vi furono due regni distinti, quello della Sicilia propriamente detta, e quello che si disse comunemente di Napoli e che ufficialmente quei re continuavano a chiamare regno di Sicilia. Quello di Sicilia si governava con una costituzione che temperava il potere del re e con un Parlamento che toglieva al Sovrano molte prerogative; quello di Napoli, no. Questo Parlamento, per quanto imperfetto, era il vanto e la salvaguardia del regno; anche Carlo V lo rispettò; e quando Carlo III, rendendo indipendenti dallo straniero i due regni, ne cinse le corone, non toccò l’ordinamento particolare di ognuno di essi: ebbero comune soltanto il sovrano. La Sicilia aveva propria bandiera, propria monetazione, propria armata, proprie milizie. Tollerava soltanto guarnigioni non siciliane nei castelli regi. Ebbe anche propri ambasciatori. Ferdinando III di Sicilia e IV di Napoli rispettò questo stato di cose; e se ne giovò due volte, quando, cacciato da Napoli, potè in grazia della Sicilia rimanere re. Durante la seconda dimora, sorti conflitti fra lui e il parlamento, e ricorrendo egli a violenze, che potevano compromettere la tranquillità dell’isola, necessaria agli Inglesi come base di operazioni contro Napoleone, si volle rimodernare la costituzione siciliana, modellandola, per suggerimento di lord Bentink, su quella inglese. La costituzione del 1812, che ai vecchi tre bracci sostituiva le due camere, fu il primo statuto liberale apparso in Italia. Il re giurò di osservarla. Essa riconsacrava l’indipendenza e le libere istituzioni della Sicilia. Il nuovo parlamento, sebbene insidiato, esercitò il suo ufficio, fino al 1816, quando fu prorogato, non sciolto, né abolito. Ma in quell’anno, di sorpresa avveniva un fatto nuovo: il congresso di Vienna, dove, come sarebbe stato doveroso, non fu mandato nessun rappresentante della Sicilia, riconfermava semplicemente il Borbone re delle due Sicilie, senza nulla toccare della loro costituzione; il che implicitamente riconosceva l’indipendenza e le libere istituzioni dell’isola; ma il principe di Castelcicala, rappresentante di Ferdinando, tradusse liberamente la dizione del testo francese in quest’altra: “re del Regno delle due Sicilie”; e con questa infedeltà, pagata centocinquanta mila ducati, annunciata dal R. Decreto dell’8 dicembre 1816, seguito da quello dell’11, si sopprimeva di fatto, non in diritto, la indipendenza della Sicilia; si istituiva un nuovo regno, unico, e il re prendeva titolo di Ferdinando I. Il parlamento siciliano ancora vigente non fu interpellato; la Sicilia regno indipendente, diventava di colpo “dominio di là dal Faro”. Il re dimenticava il giuramento fatto di rispettare la costituzione; dimenticava il suo discorso con cui inaugurava la sessione del parlamento, il 25 gennaio 1812, col quale non soltanto si ergeva a difensore delle istituzioni politiche della Sicilia, ma incoraggiava i Siciliani a conservare il “prezioso retaggio” e “a costo di qualunque personale pericolo” conservarlo “ai loro successori”.
I Siciliani non si acquetarono al tradimento e allo spergiuro. Cospirarono nelle Vendite Carboniche per riprendere “il prezioso retaggio, a costo di qualunque personale pericolo” come lo stesso re li aveva facultati...
 
 
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
Pagine 525 - Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15%

venerdì 23 dicembre 2016

Luigi Natoli: I morti tornano...

Nel contesto del colera che colpì Palermo nel 1837, Luigi Natoli scrive il romanzo "I morti tornano..."

"Siamo a Palermo. L’anno è il 1837. Il periodo è turbolento. I tentativi di cospirazione anti-borbonica sono complicati dall’insorgenza di una grande epidemia di colera che miete vittime in maniera spaventosa. L’ambientazione storica, il contesto politico e sociale, la tragedia dell’epidemia sono abilmente descritti da Natoli all’interno di questo romanzo appartenente alla letteratura del contagio insieme alle celeberrime opere de “I promessi sposi” di Manzoni e “La peste” di Camus.
 “Da un giorno all’altro l’orrore si centuplicava. I morti, dopo dieci giorni dai primi due casi, toccavano il centinaio; ma gli attaccati erano quattro volte di più. E chi non era attaccato fuggiva, abbandonando anche i parenti negli spasimi di un’agonia spaventevole".
“Ora a un balcone, ora a un uscio, si affacciava un volto spaurito e piangente: una mano faceva un gesto: - Venite! – e il carro si fermava; dei becchini insaccati, neri come spettri, sparivano nel vano delle porte; ne sboccavano con un cadavere livido, spaventevole, nudo e coperto malamente d’una camicia, uomo o donna; lo dondolavano due tre volte, lo gittavano sul carro, dove altri becchini lo acconciavano. Il carro s’era fermato sotto un balcone; due becchini affacciatisi col cadavere di un vecchio, datogli l’aire, lo buttavano giù nel carro come un fagotto. Quel povero corpo batté sulla spalletta, si ripiegò sconciamente, mostrando le sue nudità livide e flosce. Un becchino sul carro, celiando, lo rassettò: e allora dal balcone gli altri buttarono giù il cadavere di un bambino, e poi quello di una donna, che aveva una lunga e copiosa capigliatura nera. Questa fluttuò per l’aria, come per fare un ultimo saluto alla casa donde usciva per sempre; poi, come un pio velo funebre, si diffuse castamente sugli altri morti. I morti erano pietosamente coperti da una coltre di tela cerata, ma qualche braccio penzolava fuori, e accompagnava il passo dei cavalli con un dondolio ritmico, che pareva un saluto ai vivi”.
Ne “I morti tornano”, Natoli lascia parlare da sole le miserie dell’uomo legate al dolore, alla fedeltà, all’onore, all’ira e tutte le altre pulsioni umane che, imbrigliate nelle maglie di una rete di un ineluttabile destino imposto dalle convenzioni, degenerano nella distruzione e nella pochezza dell’animo umano, non più libero, e non più nobile. Una storia che proprio nel momento in cui sembra intorcinarsi dentro i canoni del più classico e banale feulleitton, effettua una nuova e inattesa virata rivelando la sua vera natura: quella - appunto - di una storia nera; anzi, nerissima. E lo fa togliendo la speranza su tutto, tracciando un vero Noir. Un grande Noir storico".
 Massimo Maugeri scrittore palermitano
Luigi Natoli: I morti tornano...
Pagine 384 - Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto 15%.

lunedì 19 dicembre 2016

Luigi Natoli: l'epidemia di colera del 1836/1837. Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.


La rivoluzione del 1820 e i fatti successivi, avevano aperto gli occhi ai Siciliani, che s’accorgevano quanto fossero state perniciose le rivalità municipali nell’interesse della libertà e dell’indipendenza; e quanto invece fosse necessaria l’unione. Aveva anche mostrato ai liberali napoletani che non c’era da fidare dei Borboni; che bisognava riprendere con la forza la libertà soppressa, e che quindi era necessario il concorso della Sicilia. Si riprendeva il lavorìo segreto a Napoli come in Sicilia, ma con nuovi intendimenti e con nuove aspirazioni. Entrava in esse un nome, che fino allora era stato semplicemente una designazione geografica: Italia.
La gioventù colta si era venuta educando sui grandi scrittori italiani: Dante, Alfieri, Foscolo, prendevano il posto del Tasso e del Monti (quello della Bassvilliana) preferiti dai Gesuiti.
Fin dal 1830 un esule, M. Palmieri, auspicava che non si parlasse più di Siciliani, Napoletani, Toscani, Piemontesi, e via dicendo, ma d’Italiani; e pure, vagheggiando l’unità nazionale, proponeva una federazione di repubbliche italiane con a capo Roma. Una visione dell’Italia libera e indipendente dallo straniero balenava in un carme di F.P. Perez, scritto in morte di Ugo Foscolo nel 1833; si allacciavano relazioni con gli esuli italiani riparati in Spagna, a Malta, a Corfù dopo il  1831; si disegnavano sbarchi nell’Isola, nella quale si riteneva “coperto di cenere, ma non spento il fuoco”. Non mancavano fra i giovani di Sicilia, gli aderenti alla Giovane Italia. In uno dei primi numeri del giornale, che aveva lo stesso nome, il Mazzini rivolgeva infatti ai Siciliani una memoranda lettera, entrata di contrabbando, e diffusa fra essi. Ma più attive erano le relazioni fra Siciliani e Napoletani.
Si erano formati alcuni comitati a Palermo, a Messina, a Siracusa e tra loro si scrivevano, e corrispondevano coi liberali napoletani.
La grande epidemia colerica che, dopo aver serpeggiato per l’Europa, colpiva Napoli nel 1836 e l’anno appresso Palermo, interruppe il lavoro di cospirazione. In Sicilia essa produsse turbolenze, nate dalla novità e dall’atrocità del male, dalla insufficienza dei rimedi e dal pregiudizio delle popolazioni ignoranti. Il popolo e anche gli uomini colti non lo credettero naturale, ma opera scellerata del Governo.
Si temettero avvelenatori assoldati, e di alcuni supposti se ne fece crudele strazio. Il morbo, propagatosi con un crescendo spaventevole fino a raggiungere in Palermo i milleottocento morti in un giorno, sopra una popolazione di meno che duecentomila anime, gettò la città nello squallore. Pure preti e frati, specialmente gesuiti, cappuccini e domenicani davano esempio di carità, soccorrendo gli infermi; gran numero di medici con grande abnegazione e pericolo accorrendo dovunque: e il Pretore di Palermo, principe di Scordia, giovane ed energico, non solo provvedeva alla città e soccorreva i suoi miseri, ma affrontava i tumulti, e con la parola e il sereno coraggio evitava i lutti maggiori. Mentre altri nobili gareggiavano in soccorsi di denaro per provvedere medicine e pane, il Governo di Napoli non mandò né una parola di conforto né un obolo; ma ordini crudeli di repressione.
A Palermo vittime illustri del morbo furono Filippo Foderà, insigne fisiologo, Pietro Pisani, fondatore del nuovo Ospizio dei Pazzi, Giuseppe Tranchina, dotto imbalsamatore e medico, Giuseppe Alessi, erudito, Nicolò Palmeri e Domenico Scinà, storici di fama universale, e tanti altri, onore degli studi, che sarebbe lungo ricordare.
Nella provincia i disordini furono maggiori: le popolazioni insorgevano, assalendo municipi, le giudicature e gli uffici demaniali, bruciavano carte, uccidevano birri, ispettori, farmacisti, possidenti. La Luogotenenza era costretta quindi a spedire colonne mobili, ma esagerando e giudicando quei moti come delitti contro lo Stato, istituiva corti marziali subitanee, che procedevano a fucilazioni, dove era necessario ben altro che piombo.
Di altra gravità furono i moti di Siracusa e di Catania, che presero veramente colore politico.
A Siracusa v’era una grande agitazione nel popolo, contro le autorità governative per cagione del colera. Il popolo cominciò a tumultuare, per cui l’intendente della provincia e altri impiegati invisi, fuggirono. Allora la plebe, abbandonata a se stessa ruppe ogni freno. Il 18 luglio, ucciso il commissario Vico, corse ad assalire un cosmorama tenuto da un certo Schwentzen e dalla moglie Lepik, e trovato vasetti con misture, li credette veleni. Lo Schwentzen, credendo salvarsi, dichiarò che avrebbe confessato tutto; fu portato in prigione con la moglie, e tutti i vasetti e le polveri furono sequestrati. I liberali allora costituirono una specie di governo, e istruirono un mostruoso processo, ottenendo dallo sciagurato Schwentzen la confessione di aver avuto incarico di avvelenare la popolazione. L’avvocato Mario Adrono allora spedì a tutte le città dell’Isola un enfatico proclama con la firma del barone di Pancali, nel quale diceva che “il veleno aveva fatto stragi a Napoli e a Palermo aveva trovata la tomba nella patria di Archimede”; e che era stata scoperta una setta infame, nemica dei governi. Intanto la folla, eccitata dalle stolte parole di un accattone, corse ad assalire le carceri, ne trasse lo Schwentzen con la moglie, un capitano, cinque rondieri, e trascinabili nella piazza del Duomo, ne fece strage....
 

Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15% - Pagine 525
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Luigi Natoli: Ferdinando II re di Borbone. Tratto da Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.


Salendo al trono, Ferdinando II col nuovo proclama prometteva di sanare le piaghe che affliggevano il Regno, e di apportare utili riforme nell’amministrazione, nella giustizia e nell’esercito. Queste promesse e l’avere scacciato il Viglia e gli altri intriganti, lo facevano in Napoli salutare “novello Tito”.
Ma quanto a mutamenti politici Ferdinando fu profondamente avverso. Era assolutista, e né gli avvenimenti di Francia, né il fermento che era in tutta Italia scossero la sua fede nel regime assoluto.
Di scarso ingegno, di più scarsa coltura, vendicativo nelle vittorie, doppio e astuto nelle sconfitte; buono per tornaconto; virtuoso negli affetti domestici, volgare nelle amicizie, caparbio sino alla cecità, illuso di regnare per inabolibile diritto divino, avrebbe potuto essere il primo re d’Italia, e si contentò d’essere vassallo dell’Austria.
 
 

Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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Nella foto: ritratto di Ferdinando II di Borbone (museo di Storia Patria - Palermo)


martedì 13 dicembre 2016

Bella speme del cor consolatrice... -

Bella speme del cor consolatrice,
dell'eterna clemenza unica figlia,
d'ogni affanno mortal debellatrice,
bella speme del cuor, chi ti somiglia?

Nei gravi d'anni suoi l'egro infelice
di te si pasce, e teco si consiglia,
per te lo stesso già si fa felice
né a disperazion l'unghie arroviglia

Per te il passato nell'oblìo s'immerge
non si cura il presente, e l'avvenire
segue i voti del core, e il pianto terge.
Lieto ancor io, per te, le mie ritorte
soffro, illudendo il vigile desire
che alfin le spezzi libertade o morte.

Giuseppe Lo Verde

Questo è il III dei cinque sonetti che il Lo Verde scrisse sulle pareti del carcere, e che furon subito trascritti e diffusi di nascosto. Qualche diarista li riprodusse nelle sue cronache manoscritte. Io l'ho tolto da un quaderno di compiti scolastici del 1822. A. Aristiche ve li copiò. Il quaderno si conserva dal figlio Ernesto. Il Lo Verde quando fu fucilato aveva appena venti anni! Le storie tacciono di questo eroico giovane.
 
Luigi Natoli.
 
Luigi Natoli  pone Giuseppe Lo Verde tra i protagonisti del romanzo Braccio di Ferro avventure di un carbonaro (edito I Buoni Cugini editori anno 2016 e nel volume della trilogia del Risorgimento: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro, I morti tornano..., Chi l'uccise? edito i Buoni Cugini editori anno 2014)

I moti carbonari del 1820-21


Non ostante i decreti e la bolla pontificia, la Carboneria riprese più segretamente i suoi lavori. Nell’agosto del 1821 si costituirono in Palermo trenta Vendite, che annodate relazioni con quelle delle altre città principali, formarono due dicasteri a capo dei quali elessero presidente Salvatore Meccio, causidico. Un prete, Bonaventura Calabrò, compose il piano di insurrezione. Per mezzo di un certo Giglio, barbiere, la polizia seppe dei Carbonari e il piano della rivolta. Il Direttore generale di polizia, il Cardinale e il principe di Cutò fecero allora, la notte del 20, arrestare i carbonari denunziati; il Meccio e pochi altri si salvarono con la fuga. Istituita la Corte Marziale, e fatto il processo, il 9 gennaio fu pronunziata la sentenza: i sacerdoti Giuseppe La Villa e Bonaventura Calabrò, il dottore Pietro Minnelli, il furiere Giuseppe Candia, Natale Seidita, Antonio Pilaggio, Giuseppe Lo Verde, Salvatore Martinez e Michele Teresi furono condannati a morte, e fucilati il 31. La fucilazione fu orrenda e atroce; perché ne furono incaricati i Veterani, maldestri, che dovettero sparare più volte su quegli infelici, straziandone l’agonia. Il Lo Verde prima di morire scrisse in carcere cinque sonetti. Aveva vent’anni e il cuore pieno di sogni.
Fu posta una taglia sul Meccio, che s’era nascosto nelle campagne di Palermo, dove stette fino al 16 settembre, quando per desiderio di rivedere la famiglia venne in città, e cadde nelle mani della polizia. La stessa notte fu giudicato e condannato, e perché non si ripetessero gli orrori della passata fucilazione, fu mandato sotto la mannaia. Il processo contro gli altri arrestati continuò fino all’aprile del 1823 e si chiuse con la condanna ai ferri dei cospiratori.
Continuarono le denunzie a Messina e altrove, e gli arresti e le condanne a morte per denunzia; fra gli altri morirono il dottor Girolamo Torregrossa e Giuseppe Sessa, nel 1824.
Il 4 gennaio del 1825 morì improvvisamente Ferdinando I, di sessantaquattro anni, dopo circa sessanta di regno fortunoso, e non lasciò rimpianti. Gli successe Francesco che regnava di fatto: malaticcio, ipocrita, astuto, reazionario più del padre.
Il suo breve regno fu agitato dai tentativi dei Carbonari in Napoli e in Sicilia, di uno dei quali rimase vittima Gaetano Abela, vecchio carbonaro, vecchio cospiratore, entusiasta e sincero, ma più sognatore che altro: il quale, fu fucilato dentro il Castello di Palermo il 30 dicembre 1826. In Favignana fu scoperta tra i deportati una Vendita che voleva “uccidere i nemici della patria e gli oppressori d’Italia”.
Il 21 settembre 1830 il Re moriva, funestato da deliri. Aveva un certo ingegno e si dilettava di studi fisici e d’agricoltura. In Palermo, quando era ancora principe, aveva fondato un podere modello con allevamenti nella contrada di Boccadifalco. Aveva accarezzato i liberali, ma poi li aveva abbandonati.
Lo stesso anno, nel febbraio, era morto stoicamente di fame il principe di Castelnuovo, vissuto solitario e sdegnoso dopo la soppressione del Parlamento. Non avendo figli, lasciò il patrimonio per la fondazione di un istituto agrario, e un forte legato a chi avrebbe ridato la costituzione alla Sicilia; ma questo legato, come contrario alle leggi del regno, fu soppresso dal Re.
A Francesco I successe il figlio Ferdinando, ventenne, il quale lo stesso giorno 8 novembre pubblicò un proclama ai sudditi, che suscitò speranze. Il primo anno del suo regno avvenne l’ultimo tentativo carbonaro, senza preparazione e senza successo.
Domenico Di Marco, impiegato, di famiglia popolana, aveva col fratello Giovanni designato di insorgere; trovati animosi seguaci, stabilì la sollevazione per la notte del 1 settembre, al suono delle campane che commemoravano il terremoto del  1693. Ma, ingannati dallo scampanio d’una cerimonia religiosa in altra chiesa vicina, anticiparono l’ora; e dal luogo ove si erano raccolti, i sollevati entrarono in Palermo gridando: Viva la Costituzione!  Respinta una pattuglia, ucciso un dottore e un birro, non seguiti dalla popolazione, assaliti dalle forze maggiori, si dispersero per la campagna. Messa a prezzo la testa del Di Marco, e data la caccia ai fuggiaschi, in meno d’un mese furono presi; ventuno vennero condannati ai ferri, undici alla fucilazione. Il 24 ottobre caddero sotto il piombo: Domenico Di Marco, Salvatore Sarzana, Giuseppe Maniscalco, Paolo Baluccheri, Giambattista Vitale, Vincenzo Ballotta, Ignazio Rizzo, Francesco Scarpinato, Filippo Quattrocchi, Gaetano Remondini e Girolamo Cardella.
Questo moto generoso quanto sconsigliato non ebbe alcun legame con quelli della Romagna dello stesso anno. Il Di Marco fu un illuso, ma l’aver immolato la vita per la libertà fa sacro il suo nome e quello dei suoi compagni di sacrificio.
 
 
 
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
Premessa storica alla raccolta di scritti tratta da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo di Luigi Natoli. Ed. Ciuni anno 1935.
Nella foto: Coccarda carbonara, esposta al Museo di Storia Patria di Palermo.
Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15%.

martedì 6 dicembre 2016

Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro.

Ambientato nel contesto della rivoluzione del 14 luglio 1820, Luigi Natoli scrive: Braccio di Ferro, avventure di un carbonaro.
Attraverso il protagonista, Tullio Spada, miniaturista che per caso diviene un affiliato della Carboneria e in seguito fervente patriota: 
“Io Tullio Spada, giuro e prometto sotto gli stabilimenti dell’ordine in generale e su questo ferro punitore degli spergiuri, di custodire scrupolosamente il segreto della rispettabile Carboneria; di non scrivere, incidere o dipingere cosa alcuna appartenente alla Carboneria, senza averne ottenuto il permesso in iscritto. Giuro di soccorrere i Buoni Cugini Carbonari in caso di bisogno, e di non tentare l’onore delle loro famiglie. E se divento spergiuro, consento che il mio corpo sia fatto a pezzi, bruciato, e le mie ceneri sparse al vento, affinchè il mio nome serva di esempio a tutti i Buoni Cugini sparsi sulla terra. Così Dio mi aiuti”.
 il lettore rivive la storia delle Vendite Carbonare da Palermo a Napoli:  Io ho preso parte agli avvenimenti del 1799. Ero Guardia Nazionale della Repubblica partenopea ed ho conosciuto Mario Pagano, Domenico Cirillo, Gabriele Manthonè; tutti quegli uomini maravigliosi. Li ho conosciuti e seguiti… li ho veduti morire sulle forche, vittime del loro amore per la libertà! Ho militato sotto Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat; sono rimasto vivo per puro miracolo al passaggio della Beresina… Da tre anni cospiro; son fra i più antichi carbonari del regno; posso dunque parlarvi con esperienza 
a Genova, a Torino dove il lettore potrà ascoltare  il conte Santorre Santarosa: Tutto è pronto; le nostre Vendite sono già in piena relazione e concordia di lavoro: i Federali, i Liberi Muratori sono con noi; ad Alessandria quasi tutto il presidio è nostro, Genova è pronta; a Torino possiamo contare su parecchi reggimenti; ma al primo segno il principe di Carignano che è gran maestro dell’artiglieria, si terrà in nostro aiuto; la Cittadella sarà, in nostro potere; la rivoluzione si compirà, nel Piemonte, senza spargimento di sangue. Il re, dal voto unanime dell’esercito e delle popolazioni sarà costretto a promulgare la costituzione; e allora il principe di Carignano passerà il Ticino alla testa delle nostre forze, per la libertà e per la gloria d’Italia. Affrettiamoci dunque, e Iddio aiuterà i nostri sforzi.
... combatte a Vercelli:
Non era ancor l’alba dell’8 aprile, e una colonna di soldati, in due ali, marciava lungo i margini della strada di Vercelli, dove si erano concentrate le milizie. Erano quasi tutti giovani: avevano attraversato Chivasso, Crescentino, Trino; entravano ora a Lavezzate, piccolo borgo quasi alle porte di Vercelli.
L’aria era fredda; il vento aveva spazzato le nubi, le stelle scintillavano nell’umidore del cielo, e accendevano piccole fiammelle nell’acqua dei canali. Marciavano avvolti in pastrani, mantelli, cappotti, d’ogni forma, da borghesi e da militari; da fanti e da cavalleggeri. Di uguale avevan soltanto gli alti kepy dal fondo largo e piatto. Con le mani coperte di grossi guanti tenevan su le spalle il fucile con la baionetta inastata, che mandavano a quando, nella notte, rapidi e tenui balenìi.
Innanzi, i piccoli tamburini, col tamburo dietro le spalle: dopo di loro il comandante a cavallo, tutto nero lui ed il cavallo.
A intervalli, lungo la colonna, lampioncini accesi penduli dalle baionette ondeggiavano al passo e facevan balzar la luce di qua e di là su le teste dei soldati. Andavano un po’ in disordine, come gente non ancora usata alla disciplina; i più ciarlavano; molti fumavano; qualcuno canticchiava. V’era invece chi taceva, a capo basso, pensieroso. Gli ufficiali camminavano fra le due ali della colonna, con la sciabola sotto il braccio. Accanto a uno di loro, l’alfiere portava su la spalla la bandiera chiusa in una busta di tela. Dai lontani casolari, al confuso rombo dei passi, levavansi dei latrati di cani, altri cani rispondevano più lontani ancora, come per darsi la voce.
La colonna marciava. Oltre la Sesia distendevasi la linea del nemico; era giunta notizia che gli Austriaci, quella stessa notte, unitisi con le truppe piemontesi rimaste fedeli al re, invadevano il regno. Le milizie costituzionali tentavano uno sforzo supremo, non già per la speranza di vincere, ma per salvare almeno l’onore.
Vincere, no, non si poteva; perché la causa della rivoluzione era perduta. Quella non era stata una rivoluzione di popolo, ma di signori e di borghesi. Il popolo non aveva ancora capito quello che volevano, e li aveva lasciati soli.
Quella colonna, che si avviava a combattere, senza speranza, sapeva di andare a un doveroso sacrificio.
Era formata di giovani volontari, un battaglione era tutto di studenti torinesi e pavesi, nuovi alle armi, salvo gli ufficiali. E Tullio si trovava nella prima compagnia di questo battaglione, da semplice milite; sebbene non fosse studente, l’aver preso parte alla difesa dell’Università il 12 di gennaio, e l’essere amico di molti studenti, l’aveva fatto accogliere volentieri in quelle file; e poi vi erano tre suoi amici Cecconi, Poggiolini, Iosto, che egli non aveva voluto lasciare soli nel cimento.
 ...e torna nuovamente a Palermo, quando i movimenti rivoluzionali vengono soffocati nel sangue:
Ma ben altro colpì la vista di Tullio e gli gelò il sangue nelle vene. Fra l’una e l’altra schiera di soldati in capo alla piazza, poco innanzi al bianco muro del convento erano alcune panchette in fila; allo svolto del fabbricato due carrettoni coperti da una grossa tela. Quelle e questi aspettavano le vittime.
Quando il corteo giunse, a un cenno dell’ufficiale, i granatieri che lo accompagnavano si schierarono fra le due ali, colla fronte al Convento, così da formare con queste, i tre lati di un quadrato spazioso.
I condannati furono dai gendarmi spinti dai innanzi, sino alle panche. La confratria si schierò in capo alla piazza, presso le panchette; Tullio si pose dinanzi. Di là egli era più vicino ai condannati che non avesse supposto; forse la sua voce sarebbe giunta all’orecchio di Giuseppe.
Lo cercò; lo riconobbe: in quel momento i sacerdoti abbracciavano le vittime, e rivolgevan loro l’ultima parola di conforto; e un drappello di ventisette veterani, su tre file, staccandosi dal grosso della truppa, si schierava a venti passi dai condannati.
Fino a Roma, dove Tullio ha la percezione precisa del suo destino e di quello dei movimenti per la libertà e la gloria dell'Italia: Bisogna che ciò avvenga, – disse un uomo maturo, vestito di nero, che era stato fino allora in silenzio nell’ombra di un angolo, – Non le armi e le violenze, ma i martirii sopportati con eroica fede fecero trionfare la religione del Cristo.
E queste parole suonarono come un ammonimento, illuminarono come un raggio di luce: aprirono le menti alla speranza.
 
Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro.
Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
Con illustrazioni di Niccolò Pizzorno

Luigi Natoli: La nascita della Carboneria in Sicilia. Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento Siciliano.


Il ceto medio delle città più colte, nutrito di nuove idee, cominciava a sentire che poteva essere una forza, capace non più d’essere rimorchiata dalla nobiltà, ma di trascinarla con sé e di mettersi di fronte alla monarchia.
In queste condizioni di spirito si propagò in Sicilia la Carboneria. Venuta probabilmente dalla Francia nel regno di Napoli, fin dal 1799, diffusasi in Italia, essa aveva per scopo di “purgare la terra dai lupi”, di combattere, cioè la tirannia col quale nome s’intendeva l’assolutismo. In Sicilia entrò prima del 1817; anzi un’inchiesta, ordinata in quei tempi, assicura che nel 1815 esistevano Vendite a Caltagirone e a Pietraperzia, e qualche anno dopo anche a Messina. Venuto nel 1818 il poeta toscano Sestini, la propagò ovunque; si diffuse rapidamente nel ceto medio, nelle maestranze, nel clero numerosissima, (in quattro diocesi v’erano circa quattrocento religiosi iscritti). Essendosi la Spagna ribellata ed avendo ottenuta una Costituzione, la notte del 2 luglio 1820, cominciata con un “pronunciamento” militare a Nola, la rivoluzione carbonara si propagò vittoriosa in Napoli, capitanata dal generale Guglielmo Pepe, chiedendo la Costituzione spagnola; il 5 era compiuta; il 6 il re la prometteva solennemente; il 13 la giurava sui Vangeli. La notizia giunse privatamente a Messina il 9, e suscitò entusiasmi: il governatore militare, principe di Scaletta, cedendo alle richieste del popolo, promulgò allora la Costituzione spagnola; ma né da Napoli, né da Messina, Palermo ebbe sentore di tanta novità prima della sera del 14 luglio.
Era luogotenente generale dell’isola il vecchio generale Diego Naselli, siciliano, malvisto dai suoi concittadini, di condotta ambigua, inetto e vile. La sera del 14, quarto giorno delle grandiose feste di Santa Rosalia, il Naselli ricevette messaggi del principe Vicario, che gli inviava il proclama del re Ferdinando del 6, e lettere del principe di Villafranca, che aveva avuto una missione dal Re e che parlavano della costituzione siciliana del 1812.
La mattina del 15 i costituzionali del ’12, nobili e borghesi, s’adunarono per domandare il ripristino di quella Costituzione, e l’adozione di un nastro giallo con l’aquila alla coccarda dei tricolori carbonici, emblema dell’indipendenza; nel tempo stesso gli Anticronici in un convegno deliberavano che si domandasse al luogotenente la costituzione spagnola e l’indipendenza. E questi si decise a promulgare il proclama regio: ma dava intanto ordini ambigui di repressione. Per evitare disordini fu eletta una Giunta Provvisoria di Governo: ma i disordini scoppiarono per l’imprudenza del generale Church, che avendo ordinato e strappato a un cittadino il nastro giallo, provocò la folla. Il popolo corse a devastargli la casa e a bruciargli le masserizie, e il giorno dopo imbaldanzito, abbattè le insegne regie, devastò gli uffici finanziari, e domando minaccioso la costituzione e l’indipendenza, l’occupazione dei baluardi e le armi.
Il Naselli, che aveva scatenata la tempesta, non cercò di reprimerla; pubblicò un proclama, e intanto lasciò armare le truppe, che cacciarono i popolani dal Castello, disarmarono quelli dei bastioni, e marciarono ad assalire il popolo. Per evitare il conflitto, alcuni signori, ecclesiastici e consoli delle maestranze, corsero dal luogotenente; ma furono accolti a fucilate dai soldati, che ne uccisero due e costrinsero gli altri a fuggire. Allora i popolani aprirono il fuoco. Il conflitto fu aspro e ostinato: il popolo senza capi, respinse le truppe e s’impadronì di qualche cannone: un frate, Gioacchino Vaglica, gridando Viva S. Rosalia! si slanciò: il popolo lo seguì con ardore, scacciò le truppe dalle posizioni, le mise in fuga e le incalzò fuori dalla città.
Il Naselli fuggì per Napoli, lasciando nell’imbarazzo una Giunta senza capo, senza autorità, in balia di una plebaglia resa ubriaca dalla vittoria. Il popolo si dette ai saccheggi, uccise il vecchio generale Caldarera, arrestò l’astronomo Cacciatore e cercò a morte i principi di Cattolica e di Aci, come traditori: il primo, riconosciuto e trovato a Bagheria, fu ucciso; il giorno dopo fu ucciso l’Aci, e i capi sanguinanti portati in trionfo.
La Giunta, eletta dalle maestranze e dai cittadini, incaricò il colonnello Emanuele Requisens di provvedere alla sicurezza; e questi organizzò le maestranze in reggimenti che dovevano vigilare e rendere sicuro ogni quartiere.
Il domani giunse il Villafranca, accolto con speranze e applausi come il Salvatore. Recatosi alla Giunta, il Cardinale arcivescovo riconsegnò a lui la presidenza di essa. Intanto che si discuteva, un naviglio da guerra napoletano s’avvicinò a Palermo e siccome il popolo minacciava, una deputazione consigliò il comandante Bausan di non approdare, ed egli navigò per Messina. La Giunta attese a dare assetto al governo, preoccupandosi delle finanze e della sicurezza, ma non aveva la forza di procedere contro gli autori delle stragi, né di riprendere i galeotti evasi nei trambusti. Elesse una deputazione, che si doveva recare a Napoli per far nota la volontà dei Siciliani di riavere l’indipendenza tolta loro da quattro anni. Ma a Napoli nessuno era disposto ad accogliere né la deputazione né la protesta: governo e cittadini, indignati contro Palermo ne volevano la punizione. La deputazione, arrestata in mare, fu confinata e guardata in una casa a Posillipo, e le fu vietata qualunque comunicazione.
 
 
 
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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Nella foto: le coccarde indossate dai palermitani la notte del 14 luglio 1820 esposte al Museo di Storia Patria di Palermo.

 
 

mercoledì 30 novembre 2016

Luigi Natoli: La Costituzione siciliana del 1812 e il Congresso di Vienna.


La nuova Costituzione, sanzionata dal Re nel febbraio del 1813, dopo affermata che religione di Stato era cattolica, distingueva i tre poteri: il legislativo, esercitato esclusivamente dal Parlamento, l’esecutivo dal Re per mezzo dei ministri, il giudiziario indipendente dall’uno e dall’altro. Il Parlamento era composto di due Camere, quella dei Pari e quella dei Comuni: quella dei Pari era formata di centottantacinque deputati, di cui sessantuno spirituali; quella dei Comuni di centocinquantaquattro deputati eletti dai collegi, e non vi potevano avere voto gli analfabeti. Il Re aveva facoltà di convocare o di sciogliere il Parlamento, però doveva convocarlo ogni anno. La successione era regolata secondo la legge salica.
La stampa libera, salvo che in materia religiosa doveva ottenere il permesso dell’autorità ecclesiastica. Aboliti i feudi e le angherie introdotte d’autorità dai feudatari, gli usi civici introdotti dai Comuni e dai privati; riformato il codice penale e la relativa procedura, e questi scritti in italiano: abolita la tortura, riordinata la magistratura, creata una corte d’Appello una Cassazione, abolite le dogane interne, ecc. Ma due cose vogliamo rilevare particolarmente, perché in appresso diventano oggetto di controversia insanabile: il divieto di tenere in Sicilia le milizie napoletane e straniere senza consenso del Parlamento, e all’art. 8 l’aggiunta che, se il Re avesse riconquistato il regno di Napoli, doveva mandare o lasciare in Sicilia il suo primogenito, cedendogliene “il regno indipendente da quello di Napoli o da qualunque altro in provincia”. Il che era sanzionato dal Re col decreto del 25 maggio 1813, ed era patto fondamentale, che giustificò le rivoluzioni di poi. Comunque era questo il primo statuto costituzionale che appariva in Italia.
Così stavano le cose quando a un tratto, il 9 marzo, il Re, per suggerimento della Regina, lasciata la Ficuzza, comparve alla Favorita, per rientrare in Palermo, e riprendere il potere.
La caduta di Napoleone mutava l’indirizzo della politica generale. Lord Bentik fu richiamato in Inghilterra.
Si apriva intanto il Congresso di Vienna: il principe di Belmonte, temendo per la Costituzione, partì per perorare la causa siciliana, ma a Parigi morì. E in quel momento fu una grave perdita, perché la Sicilia non venne difesa a quel Congresso. Il 18 luglio il Re mutato il Ministaro riaprì il Parlamento; Ministero e Pari si unirono per domandare al Re lo scioglimento della Camera dei Comuni: l’ottennero, e furono eletti deputati reazionari. Nulla fece la nuova Camera, destinata a seppellire senza onori la Costituzione.
Gli avvenimenti europei incalzavano; la fuga di Napoleone dall’isola d’Elba, i Cento giorni, Waterloo, la caduta irreparabile del Colosso, si succedettero rapidamente. I vecchi governi assoluti, liberi oramai da ogni minaccia, si posero a rifare la carta d’Europa, illudendosi di cancellare quelle che erano le conquiste della coscienza civile. Ferdinando, prevedendo la catastrofe, il 30 aprile 1815 convocato il Parlamento e pronunciatovi un discorso minaccioso per la Costituzione, fece votare considerevoli somme per una spedizione nel Napoletano. Indi, prorogato sine die il Parlamento, sciolta la Camera, nominato il principe ereditario luogotenente generale, partì dalla Sicilia ed entrò in Napoli il 4 giugno. Nello stesso tempo scelse una commissione di diciotto membri, alla quale diede nuove istruzioni in trenta articoli, per riformare la Costituzione. Cominciarono i decreti di unificazione, che mostrarono chiaramente a che cosa il Re mirasse. Allora si ricorse alla protezione inglese. Qui apparve quanto sia illusorio e pericoloso fidare nella protezione degli stranieri, e quanta ironica sia la loro amicizia. Caduto Napoleone, il Gabinetto inglese non aveva più bisogno della Sicilia e di essa si disinteressò completamente.
Il Congresso di Vienna intanto riconfermava Ferdinando “Re del Regno delle due Sicilia”, ed egli col decreto dell’8 dicembre 1816 unificava i due regni in uno solo, e prendeva nome Ferdinando I. Egli era logico, e capiva che non poteva essere re assoluto in Napoli e costituzionale in Sicilia. Ma i Siciliani che per dieci anni lo avevano alloggiato e mantenuto, videro che erano spogliati dei loro diritti, per fare della Sicilia una provincia.
Ferdinando, col decreto del 14 ottobre, divise la Sicilia in sette provincie, e tolse ogni privilegio che aveva questa o quella città, volle amministrata ogni provincia da un intendente che corrisponderebbe al nostro prefetto, con un consiglio di cinque membri; suddivise ogni provincia in distretti con a capo un sotto-intendente; ogni comune, aboliti i consigli civici, era amministrato da un decurionato, da un sindaco e da due eletti, eccettuate Palermo, Messina e Catania, che conservarono ancora il loro senato, oltre i decurioni. Tutti questi funzionari erano di nomina regia.
La rivoluzione del 1812 era stata parlamentare e aristocratica, perché vi mancò il concorso di una borghesia fortemente organizzata: le classi medie, che v’entrarono per rappresentare i Comuni, non costituirono una maggioranza; parte, per ragioni di clientela, seguì il baronaggio, parte per combatterlo si appoggiò alla Corte. Il popolo vi fu estraneo. Le maestranze avevano coscienza di corporazioni gelose dei propri privilegi, non visione politica: il solo punto in cui s’incontravano con la borghesia era l’indipendenza dell’Isola, per forza di tradizione.
Tuttavia, qualcosa era penetrata negli animi...
 
 
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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Un salto indietro nel tempo: il principe di Castelnuovo, Carlo Cottone e il principe di Belmonte, Giuseppe Ventimiglia.


Il Regno era afflitto da mali che derivavano dalla vecchiezza della sua costituzione, e così costituito com’era, il Parlamento nulla poteva per rimediare a tanti mali. Le sue attribuzioni erano limitate a votare i donativi e a domandar per grazia al Re, ciò che avrebbe dovuto esser suo diritto deliberare, e che poteva essere, e spesso gli era negato. Per queste e per altre ragioni, tra il ceto dei nobili e dei curiali che ambivano cose nuove per risollevare le popolazioni, s’era venuta formando una corrente contraria alla Corte, alla quale dava fomite la condotta di Maria Carolina, nemica dei Siciliani, che pur le fornivano i mezzi per essere ancora regina. Si aggiunga lo sperpero che la Corte faceva del denaro pubblico, e l’avere preso denaro dal Banco di Palermo e dal Monte di Pietà, per cui un conflitto era inevitabile. Ma tra la Corte e il Parlamento c’era questa volta l’Inghilterra.
La Sicilia per quanto esausta aveva già fatto un grande sforzo per offrire le somme richieste dal Re, quando il 15 febbraio 1810 fu convocato il Parlamento. A capo dell’opposizione era Carlo Cottone, principe di Castelnuovo, carattere adamantino, e il suo nipote Giuseppe Ventimiglia, principe di Belmonte, giovane d’ingegno, nutrito di studi, ricco di conoscenze apprese nei viaggi, eloquente, orgoglioso. Il braccio feudale si oppose alle richieste del Re, e il principe di Belmonte propose una riforma tributaria suggerita dall’economista Paolo Balsamo; di abolire cioè i donativi, fare un nuovo catasto, e imporre una tassa unica del 5 per cento su tutte le proprietà feudali e allodiali; e un’altra tassa minima sui consumi, sui cavalli di lusso, ecc. abolendo quella odiosa sul macinato. Questa proposta, non ostante i raggiri della Corte, fu approvata; ma la Corte, che potè aver solo i donativi ordinari, ne ebbe gran dispetto. Il Re, per consiglio di una Giunta, sanzionò gli atti, rimandando ad altro Parlamento la rettifica delle imposte, indi mutò il ministero, nominandovi persone avverse alla Sicilia e alle sue istituzioni, e riconvocato il Parlamento, con un decreto del 14 febbraio 1811, imponeva una tassa dell’un per cento su tutti i pagamenti e anche su tutti i passaggi di Banco. Ottenne anche il donativo di altre 150.000 onze. Questa era una violazione delle leggi fondamentali del Regno, per le quali soltanto il Parlamento aveva potestà di imporre tasse e balzelli. Insorgendo contro questa violazione, quarantatrè baroni rivolsero una rimostranza alla Deputazione del Regno, cui spettava la tutela e la difesa delle leggi patrie. Il Re naturalmente domandò alla Deputazione il suo parere, e questa dichiarò servilmente che l’imposta non ledeva i Capitoli del Regno. Forte di questo parere, la Regina per vendicarsi della resistenza dei baroni, ottenne in Consiglio di Stato che almeno i cinque ritenuti capi, fossero la stessa notte, che fu il 19 luglio, arrestati, ed essi sorpresi dalle milizie, furono imbarcati sul Tartaro. Questi furono i principi di Belmonte, di Castelnuovo, di Villafranca, di Aci e il duca d’Angiò. I primi due furono sbarcati a Favignana, il Villafranca a Pantelleria, l’Aci a Ustica, l’ultimo a Marettimo: tutti furon chiusi nei forti delle isole come perturbatori. Nel Consiglio qualcuno aveva proposto la morte.
Il giorno dopo giungeva a Palermo il nuovo ministro plenipotenziario inglese, lord Bentik, nominato anche comandante delle truppe d’occupazione, che prese apertamente la difesa dei Siciliani, e fattosi forte per l’appoggio di Londra e con la forza di quattordicimila uomini, impose l’abolizione della tassa dell’un per cento, il richiamo dei baroni e l’allontanamento della Regina dal governo. Allora il Re, eletto Vicario generale il principe ereditario Francesco, si ritirò nel suo parco della Ficuzza; il principe Vicario fece tutto quello che volle lord Bentik e che era conforme alla legge.
Nella foto: Il principe di Belmonte, Giuseppe Ventimiglia.

 
Luigi Natoli: premessa storica di Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano tratta da Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo e pubblicata in anteprima al volume per maggiore chiarezza del lettore.
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mercoledì 23 novembre 2016

Lapide posta in memoria di Francesco Paolo Di Blasi giustiziato in piazza Indipendenza a Palermo.




Luigi Natoli: Francesco di Blasi predecessore del Risorgimento siciliano. Un salto indietro nella storia.


Scoppiava la rivoluzione francese, che scuoteva dai cardini gli ordinamenti ancora medioevali della società, e gettava le fondamenta di un nuovo diritto pubblico. Le monarchie ne erano sgomente. La Corte di Napoli, assolutista, arrestò quel moto di riforme, che lentamente andava rinnovando lo Stato, più e meglio in Napoli, che in Sicilia, dove ostava la tenace resistenza dell’istituto parlamentare. La politica estera ondeggiò fra le paure, e le incertezze: si temettero moti interni; ogni aspirazione liberale fu detta giacobinismo; il sospetto guidò gli atti a una reazione. Tre giovani furono nel 1793 impiccati a Napoli, non rei che di innocua simpatia; ma più serio pericolo provocarono in Palermo altre condanne.
Già erano entrate le dottrine rivoluzionarie con la massoneria che aveva logge in Palermo, in Messina, in Catania, in Siracusa e nei minori centri; onde vi furono arresti, prigionie, processi, le cui carte si trovano ancora nell’Archivio di Stato. Vittima più illustre però fu l’avvocato Francesco Di Blasi, cadetto di nobile famiglia, dotto, autore di opere pregiate, giurista, che imbevuto delle dottrine rivoluzionarie, attirati alcuni giovani, fra cui dei militari, tutti della borghesia e delle maestranze, cospirò per abbattere il Governo, e proclamare la repubblica in Sicilia, fidando più nella generosità delle idee, che nella sicurezza dei mezzi. Doveva la rivolta scoppiare nella Settimana Santa del 1795, reggendo la Sicilia l’arcivescovo Lopez y Rojo, successo al Caramanico, improvvisamente morto: ma un delatore, certo Teriaca, avvertì l’Arcivescovo e il Comandante delle Armi, generale Walmoden. Il Di Blasi e i compagni furono arrestati e sottoposti a giudizio: egli, torturato, non accusò che sé stesso. Fu condannato con Giulio Tenaglia, Benedetto La Villa e Bernardo Palumbo; egli ebbe mozzato il capo, gli altri furono impiccati, il 31 di maggio nel piano di S. Teresa, oggi Indipendenza, tra lo squallore della città, e sotto la minaccia delle artiglierie del Palazzo. Prima di andare al supplizio il Di Blasi scrisse due sonetti. Furono essi i primi caduti per le nuove idee nel regno di Sicilia.
Gli eccessi e le carneficine del Terrore e più il vilipendio della religione avevano suscitato nel clero di Sicilia e nelle popolazioni un grande orrore pei “giacobini”, i quali erano rappresentati come belve, nemici delle cose più sante: donde l’odio aumentato dalla tradizionale avversione pei francesi, che strinse la Sicilia intorno al trono. Cosicchè, calati i francesi in Italia, e temendo il Re un’invasione, l’Isola non fu sorda alle richieste di uomini e di denari. I grandi feudatari levarono milizie, le città offrirono le somme che poterono. Né la pace segnata fra il re Ferdinando e la Repubblica francese nel 1796 dissipò i timori.
Son note le vicende del regno di Napoli in quegli ultimi anni del secolo: la rottura della pace nel 1798, richiese nuovi sacrifici ai due Regni: si requisì l’oro e l’argento dei privati, che però non risposero tutti, pavidi di non esserne ricompensati.
Riaccesa la guerra con la Francia, re Ferdinando occupò guasconescamente Roma; ma i suoi eserciti, furono sconfitti ed egli ritornò rapidamente a Napoli; imbarcatosi la notte del 23 dicembre sul Vanguardia, vascello della squadra inglese, con la famiglia, la corte, l’ambasciatore britannico e le opere d’arte più pregiate, salpò per Palermo. Dopo una tempestosa traversata, nella quale morì il figlioletto Alberto, vi giunse la notte del 25, improvvisamente. La notizia, diffusasi per la città, destò commozione. Accolto con applausi, sbarcò prima il Re, e il giorno dopo verso sera la Regina. I Sovrani subito si misero all’opera per fortificare la Sicilia e riconquistare il regno perduto, mentre a Napoli entravano i Francesi, e vi istituivano la Repubblica Partenopea.
 
 
Antefatto storico tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo di Luigi Natoli, inserito nel volume come prima parte per una migliore comprensione dei fatti.
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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sabato 19 novembre 2016

La bandiera di Francesco Riso, esposta al Museo del Risorgimento di Palermo, Società di Storia Patria

 
Il Riso, posto sopra una carretta, fu trasportato al­l'ospedale di S. Francesco Saverio; ove giunto, all'infer­miere Antonino Gallo, che scrivendone nei registri come per legge nome, paternità, gli domandava della professione, rispondeva: “Congiurato”; e non intendendo l'altro, e ripetendo la domanda, egli ricon­fermava: Congiurato: cospiratore per la libertà del mio paese”.
 
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Luigi Natoli: il 4 aprile 1860. Tratto da: La rivoluzione siciliana, narrazione.



E venne l’alba del 4, dopo una notte che dovette parer lunga alle anime, aspettanti fra le armi il segnale convenuto. Avevano esse il presentimento che il loro segreto era stato tradito?
Forse l’ebbe Francesco Riso, l’aveva avuto anzi qualche giorno prima, quando all'avvocato Pennavaria aveva detto Ho dato la mia parola, e sebbene son per­suaso che nel pericolo mi abbandoneranno, non la ri­tiro”.
Poco prima dell’alba, Riso mandò qualcuno a esplo­rare la vicina piazza della Fieravecchia dove doveva essere sparato il mortaretto: il messo la trovò deserta, il che parve cattivo indizio, e scorò qualcuno; ma fu un baleno. Alle cinque del mattino, Riso mandò sul cam­panile della chiesa Nicola Di Lorenzo e Domenico Cu­cinotta con bombe all’Orsini, appostò là altri com­pagni, e si avviò con alcuni de’ suoi alla porta d’uscita. Al suo apparire una pattuglia di compagni d’armi in agguato gridò: – Alto, chi va là? – Rispose: – Chi viva? – Viva il re! –Viva Italia! – ribattè il Riso, e tirò due colpi di fucile, che uccisero il soldato Cipollone. Fu il segno dell'attacco. Il Di Lorenzo ed il Cucinotta suonano a stormo le campane; il Riso corre al cam­panile, e piantata la bandiera tricolore, ritorna giù a so­stenere il fuoco: cadono Giuseppe Cordone, Mariano Fasitta, Matteo Ciotta, Michele Boscarello e Francesco Migliore. Agli spari e allo scampanio, accorre per la Vetriera la squadra della Magione: Sebastiano Camar­rone e Giuseppe Aglio, audaci, girando sotto l’arco pic­colo di S. Teresa, respingono un plotone di soldati; ma invano. Cade Salvatore La Placa, ferito al petto, e raccolto da pietosi e celato, scampa così all’eccidio. Guaritosi appena, corse poi a raggiungere le squadre, com­battè il 27 maggio a Porta Carini, e fu ferito alla gamba.
La squadra della Zecca, uscita anche essa, trovatasi di fronte al grosso della truppa, e non potendo affron­tarla si disperse.
Tra il fumo, gli spari,  gli urli, parte della squadra ripara nel convento. Il Riso grida energicamente: “Co­raggio; la città sta per insorgere; sostenetemi tre ore di fuoco, e saremo salvi”.
E intanto le campane squillavano sulle fucilate, e pa­reva chiamassero disperatamente la città, che o impre­parata o sgomenta non si moveva, e lasciava compiere il sacrificio; squillavano, terribile voce di libertà, non ostante la sconfitta. ll generale Sury appunta i cannoni contro il campanile per far tacere le campane: atterra la porta del convento con gli obici, e allora i regi, fanti, cacciatori, artiglieri, compagni d'arme si lanciano all'as­salto. Per snidare gl'insorti, il tenente Bianchini porta a braccia un obice sul piano superiore del convento. Gl' insorti si sbandano: Giuseppe Virzì e Bartolomeo Castellana, sbarazzatisi delle armi, si buttan dall'alto e si rompono le gambe: raccolti da buona gente e oc­cultati, e dopo alcuni giorni portati all'ospedale come muratori precipitati da una fabbrica, così scamparono alla strage. Francesco Riso, colto da quattro palle al ventre e al ginocchio cade. La sua caduta mette fine alla resistenza.
Caddero in poter loro alcuni insorti: testimoni oculari narrano di un birro, che rubato l’orologio al Riso, caduto per terra, lo ferì di baionetta all’inguine; e di un altro che finì ferocemente un giovane insorto ferito e impotente a muoversi...
 
 
 
Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana. Narrazione.
Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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