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mercoledì 30 novembre 2016

Un salto indietro nel tempo: il principe di Castelnuovo, Carlo Cottone e il principe di Belmonte, Giuseppe Ventimiglia.


Il Regno era afflitto da mali che derivavano dalla vecchiezza della sua costituzione, e così costituito com’era, il Parlamento nulla poteva per rimediare a tanti mali. Le sue attribuzioni erano limitate a votare i donativi e a domandar per grazia al Re, ciò che avrebbe dovuto esser suo diritto deliberare, e che poteva essere, e spesso gli era negato. Per queste e per altre ragioni, tra il ceto dei nobili e dei curiali che ambivano cose nuove per risollevare le popolazioni, s’era venuta formando una corrente contraria alla Corte, alla quale dava fomite la condotta di Maria Carolina, nemica dei Siciliani, che pur le fornivano i mezzi per essere ancora regina. Si aggiunga lo sperpero che la Corte faceva del denaro pubblico, e l’avere preso denaro dal Banco di Palermo e dal Monte di Pietà, per cui un conflitto era inevitabile. Ma tra la Corte e il Parlamento c’era questa volta l’Inghilterra.
La Sicilia per quanto esausta aveva già fatto un grande sforzo per offrire le somme richieste dal Re, quando il 15 febbraio 1810 fu convocato il Parlamento. A capo dell’opposizione era Carlo Cottone, principe di Castelnuovo, carattere adamantino, e il suo nipote Giuseppe Ventimiglia, principe di Belmonte, giovane d’ingegno, nutrito di studi, ricco di conoscenze apprese nei viaggi, eloquente, orgoglioso. Il braccio feudale si oppose alle richieste del Re, e il principe di Belmonte propose una riforma tributaria suggerita dall’economista Paolo Balsamo; di abolire cioè i donativi, fare un nuovo catasto, e imporre una tassa unica del 5 per cento su tutte le proprietà feudali e allodiali; e un’altra tassa minima sui consumi, sui cavalli di lusso, ecc. abolendo quella odiosa sul macinato. Questa proposta, non ostante i raggiri della Corte, fu approvata; ma la Corte, che potè aver solo i donativi ordinari, ne ebbe gran dispetto. Il Re, per consiglio di una Giunta, sanzionò gli atti, rimandando ad altro Parlamento la rettifica delle imposte, indi mutò il ministero, nominandovi persone avverse alla Sicilia e alle sue istituzioni, e riconvocato il Parlamento, con un decreto del 14 febbraio 1811, imponeva una tassa dell’un per cento su tutti i pagamenti e anche su tutti i passaggi di Banco. Ottenne anche il donativo di altre 150.000 onze. Questa era una violazione delle leggi fondamentali del Regno, per le quali soltanto il Parlamento aveva potestà di imporre tasse e balzelli. Insorgendo contro questa violazione, quarantatrè baroni rivolsero una rimostranza alla Deputazione del Regno, cui spettava la tutela e la difesa delle leggi patrie. Il Re naturalmente domandò alla Deputazione il suo parere, e questa dichiarò servilmente che l’imposta non ledeva i Capitoli del Regno. Forte di questo parere, la Regina per vendicarsi della resistenza dei baroni, ottenne in Consiglio di Stato che almeno i cinque ritenuti capi, fossero la stessa notte, che fu il 19 luglio, arrestati, ed essi sorpresi dalle milizie, furono imbarcati sul Tartaro. Questi furono i principi di Belmonte, di Castelnuovo, di Villafranca, di Aci e il duca d’Angiò. I primi due furono sbarcati a Favignana, il Villafranca a Pantelleria, l’Aci a Ustica, l’ultimo a Marettimo: tutti furon chiusi nei forti delle isole come perturbatori. Nel Consiglio qualcuno aveva proposto la morte.
Il giorno dopo giungeva a Palermo il nuovo ministro plenipotenziario inglese, lord Bentik, nominato anche comandante delle truppe d’occupazione, che prese apertamente la difesa dei Siciliani, e fattosi forte per l’appoggio di Londra e con la forza di quattordicimila uomini, impose l’abolizione della tassa dell’un per cento, il richiamo dei baroni e l’allontanamento della Regina dal governo. Allora il Re, eletto Vicario generale il principe ereditario Francesco, si ritirò nel suo parco della Ficuzza; il principe Vicario fece tutto quello che volle lord Bentik e che era conforme alla legge.
Nella foto: Il principe di Belmonte, Giuseppe Ventimiglia.

 
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