Il Regno era afflitto da
mali che derivavano dalla vecchiezza della sua costituzione, e così costituito
com’era, il Parlamento nulla poteva per rimediare a tanti mali. Le sue
attribuzioni erano limitate a votare i donativi e a domandar per grazia al Re,
ciò che avrebbe dovuto esser suo diritto deliberare, e che poteva essere, e
spesso gli era negato. Per queste e per altre ragioni, tra il ceto dei nobili e
dei curiali che ambivano cose nuove per risollevare le popolazioni, s’era
venuta formando una corrente contraria alla Corte, alla quale dava fomite la
condotta di Maria Carolina, nemica dei Siciliani, che pur le fornivano i mezzi
per essere ancora regina. Si aggiunga lo sperpero che la Corte faceva del denaro
pubblico, e l’avere preso denaro dal Banco di Palermo e dal Monte di Pietà, per
cui un conflitto era inevitabile. Ma tra la Corte e il Parlamento c’era questa
volta l’Inghilterra.
La Sicilia per quanto
esausta aveva già fatto un grande sforzo per offrire le somme richieste dal Re,
quando il 15 febbraio 1810 fu convocato il Parlamento. A capo dell’opposizione
era Carlo Cottone, principe di
Castelnuovo, carattere adamantino, e il suo nipote Giuseppe Ventimiglia, principe di Belmonte, giovane d’ingegno, nutrito
di studi, ricco di conoscenze apprese nei viaggi, eloquente, orgoglioso. Il braccio
feudale si oppose alle richieste del Re, e il principe di Belmonte propose una
riforma tributaria suggerita dall’economista Paolo Balsamo; di abolire cioè i
donativi, fare un nuovo catasto, e imporre una tassa unica del 5 per cento su
tutte le proprietà feudali e allodiali; e un’altra tassa minima sui consumi,
sui cavalli di lusso, ecc. abolendo quella odiosa sul macinato. Questa
proposta, non ostante i raggiri della Corte, fu approvata; ma la Corte, che
potè aver solo i donativi ordinari, ne ebbe gran dispetto. Il Re, per consiglio
di una Giunta, sanzionò gli atti, rimandando ad altro Parlamento la rettifica
delle imposte, indi mutò il ministero, nominandovi persone avverse alla Sicilia
e alle sue istituzioni, e riconvocato il Parlamento, con un decreto del 14
febbraio 1811, imponeva una tassa dell’un per cento su tutti i pagamenti e
anche su tutti i passaggi di Banco. Ottenne anche il donativo di altre 150.000
onze. Questa era una violazione delle leggi fondamentali del Regno, per le
quali soltanto il Parlamento aveva potestà di imporre tasse e balzelli.
Insorgendo contro questa violazione, quarantatrè baroni rivolsero una
rimostranza alla Deputazione del Regno, cui spettava la tutela e la difesa
delle leggi patrie. Il Re naturalmente domandò alla Deputazione il suo parere,
e questa dichiarò servilmente che l’imposta non ledeva i Capitoli del Regno.
Forte di questo parere, la Regina per vendicarsi della resistenza dei baroni,
ottenne in Consiglio di Stato che almeno i cinque ritenuti capi, fossero la
stessa notte, che fu il 19 luglio, arrestati, ed essi sorpresi dalle milizie,
furono imbarcati sul Tartaro. Questi furono i principi di Belmonte, di
Castelnuovo, di Villafranca, di Aci e il duca d’Angiò. I primi due furono
sbarcati a Favignana, il Villafranca a Pantelleria, l’Aci a Ustica, l’ultimo a
Marettimo: tutti furon chiusi nei forti delle isole come perturbatori. Nel
Consiglio qualcuno aveva proposto la morte.
Il giorno dopo giungeva
a Palermo il nuovo ministro plenipotenziario inglese, lord Bentik, nominato
anche comandante delle truppe d’occupazione, che prese apertamente la difesa
dei Siciliani, e fattosi forte per l’appoggio di Londra e con la forza di
quattordicimila uomini, impose l’abolizione della tassa dell’un per cento, il
richiamo dei baroni e l’allontanamento della Regina dal governo. Allora il Re,
eletto Vicario generale il principe ereditario Francesco, si ritirò nel suo
parco della Ficuzza; il principe Vicario fece tutto quello che volle lord
Bentik e che era conforme alla legge.
Nella foto: Il principe di Belmonte, Giuseppe Ventimiglia.
Nella foto: Il principe di Belmonte, Giuseppe Ventimiglia.
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