Fermato il giorno, che invece del
4 fu il 9 ottobre, il comitato direttivo si dava alacremente a preparare ogni
cosa; Giuseppe Bruno-Giordano faceva fondere bombe, altre bombe si fondevano in
casa di Giovanni Faija,
assunto a ufficio di Segretario; la polvere apprestava il Rammacca, il piombo
il negoziante Giuseppe Briuccia. Stabilite relazioni coi più noti e animosi
liberali dei paesi vicini, e coi più autorevoli e sicuri cittadini dei vari
quartieri della città, il dottor Di Benedetto formava e il comitato direttivo
approvava il piano di insurrezione. Essa doveva scoppiare simultaneamente
dentro e fuori Palermo, appena dato il segno, attaccandosi a un tempo dalle
squadre interne ed esterne le varie caserme militari, così da impedire il
congiungimento delle truppe, isolarle, chiuderle, costringerle alla resa. Il
governo intanto, raccogliendo la voce di “una irruzione dell’avventuriero
Garibaldi” dava ordini agli Intendenti delle provincie di usar la maggior
sorveglianza, e non si accorgeva ancora del fuoco che ardeva nella capitale.
Ma per ragioni che parvero
esatte, si scartò poi l’idea di cominciar l’insurrezione nella città; e cercandosi
un luogo adatto nei dintorni, Giuseppe Campo si offerse animosamente di levar
Bagheria, e movere pel primo con la sua squadra sopra Palermo, dando così il
segno della generale rivolta. Fidava egli nelle promesse dei suoi amici e
principalmente di un tal Francesco Gandolfo, che vantava aver una forte squadra;
ma, andato a Bagheria, l’alba del 9, il Campo non si trovò accanto che cinque o
sei intrepidi: non pensò che bisognava essere audaci, e per timore di fallire,
rimandò il moto al giorno 10, senza però darne avviso al Comitato: il quale,
aspettati invano i segnali convenuti, mandò il Marinuzzi, cui s’unì il Di
Chiara, per saper qualche cosa. Il Campo, esposto il caso, promise che avrebbe
a ogni costo preso le armi il 10 di mattina; ma intanto le altre squadre delle
campagne, che tenendosi fin dal giorno 8 nascoste nei
posti assegnati, avevano fino allora aspettato, mancato il segno, non avvisate,
credendo perduta ogni cosa, si sciolsero.
ll Campo non potè raccogliere i
suoi uomini che verso sera, e mosse nella notte; e disarmata la guardia urbana
di Santa Flavia, impadronitosi del posto doganale di Porticello, divise le sue
forze in due. Una parte, proseguendo per l’Aspra, nell’oscurità vide quantità
d’uomini, e credette fosse la squadra di Villabate. Ma al suo grido: Viva la libertà! rispose un altro grido di Viva il re! e una scarica; e la sorpresa
sgomentò gli insorti e li disperse.
L’altra parte col Campo corse a
Villabate, assalì il posto delle guardie urbane e la casa del loro capo
Salmeri; ma sopraggiunte milizie e compagni d’arme, la esigua schiera si
sbandò; e il Campo, travestito da contadino, scampò nella villa del conte
Federico, donde l’anno appresso fuggì in continente, ove erano i fratelli,
esuli anch’essi, e ritornò poi coi Mille. Nobile famiglia di patriotti questa
dei Campo; quattro fratelli pari per valore, generosità, integrità di
carattere, devozione alla patria, disinteresse, modestia, che non lasciarono
scorrere un giorno inoperoso , finché la patria domandò cuori e braccia.
Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana. Narrazione
Tratto dal volume: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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