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mercoledì 20 dicembre 2023

Spiridione Franco: Le onoranze a Francesco Bentivegna nel 1860. Tratto da: Storia della rivolta del 1856 in Sicilia organizzata dal barone Francesco Bentivegna in Mezzojuso...

 
Nell’epoca di cui scrivo, vi era guardiano di quel Convento, un certo padre Antonio Bellina, nativo da Lercara dei Friddi; uomo assai umano e caritatevole, indignato di quella condotta inumana, e del disprezzo fatto a quel nobile corpo dai satelliti della tirannide Borbonica; venuta la notte, prendendo delle precauzioni per non essere scoperto fece aprire la fossa vi fece scendere un frate, che portò seco una fune, fece legare il trafitto corpo del martire, furono compiute le esumazioni. Dopo di ciò fece aprire la migliore sepoltura; fece collocare il corpo steso in una vecchia cassa, aspettando di rilevarlo in tempi più fortunati, che non tardarono molto tempo a venire.  Questi fatti mi vengono spesso rammentati in Palermo dal prete Giuseppe Capra di Monreale, che in quel tempo stava nel convento di Mezzojuso come chierico novizio. 
Per ora tralascio di scrivere il seguito delle condanne di morte del consiglio di Guerra, e racconterò ai miei pietosi lettori le onoranze fatte nel 1860, dai Corleonesi, e di molte persone dei vicini paesi, alle spoglie immortali di Francesco Bentivegna. I di lui fratelli Giuseppe e Stefano Bentivegna liberati dalla catena, che da parecchi anni portavano, accompagnati da un gran numero di Corleonesi, corsero in Mezzojuso ripresero con grande pompa funebre, i sacri avanzi dì quella salma, e li condussero nella chiesa madre di Corleone, tutti gli abitanti di ogni ceto di persone, andarono fuori della Città, ad incontrare riverente il mesto, ma glorioso convoglio. 
Le campane di tutte le chiese battevano il lutto, la banda cittadina suonava la marcia funebre. La commozione ed il pianto furono generali, il dolore era immenso nel popolo, quella acerba piaga, il tempo solo lenir la può, sanar giammai! 
Celebrati i funeri onori, che mai si sono visti in quel paese, chiusa e sigillata la cassa, fu degnamente collocata nella madre chiesa che viene spesso visitata da coloro che giungono in Corleone. 
Sulla tomba sovrasta una bandiera, quella stessa che il Bentivegna fece costruire in Villafrate il giorno 23 Novembre 1856 che portava e conservò Francesco Labarbiera come ho detto più sopra. 
Il Signor Angelo Paternostro fratello del Senatore Francesco, un vero tipo di gentiluomo e di patriotta in quel tempo Governatore di quel Distretto, di felice ricordanza, decretava un magnifico monumento in marmo, che fu eseguito dallo scultore Salvadore Valenti di purissima architettura Greca. Lavoro dell’ingegnere Giuseppe Damiani, che seppe trasformare la sua anima di artista all’amore di libertà, infine riuscito magnifico. 
Vi si leggono incise in carattere d’oro le seguenti iscrizioni, affettuosamente dettate dall’Avvocato Antonio Morvillo. 

Italia e libertà
dalla carità cittadina
abiti questo monumento
o Francesco Bentivegna
ed ammirino i futuri
il cuore che ti fè grande
il martirio che ti fè eterno
Nacque in Corleone MDCCCXX
visse alla Patria
cui diè gloria e speranza
tentò redimerla insorgendo
tradito
fu moschettato in Mezzojuso
il XX dicembre MDCCCLVI
le reliquie sue 
sottratte alla mano liberticida
qui dormono

Io ed altri vecchi amici e compagni del moschettato, abbiamo voluto eternare la di lui memoria, mercè un bellissimo medaglione, in marmo che abbamo fatto scolpire dal valente artista Palermitano Delisi, di felice ricordanza, riuscito di vera rassomiglianza nella persona, che fu collocata nella piazza del Popolo di Mezzojuso accanto al portone ove venne eseguita la barbara sentenza, in quella casa allora del cav. Nicolò Dimarco, ove da pochi di noi fu tenuta la prima congiura come prima ho detto. 
Un tale ricordo storico viene spesso religiosamente ammirato dai forestieri, che giungono in paese, e dalla novella gioventù, che dovrebbe prenderne patriottico esempio. 


Spiridione Franco: Francesco Bentivegna. Storia della rivolta del 1856 in Sicilia organizzata dal barone Francesco Bentivegna in Mezzojuso e da Salvatore Spinuzza in Cefalù.
Pagine 167 - Prezzo di copertina € 22,00
Prefazione del prof. Santo Lombino.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via Marchese Ugo, 56), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Macaione (via Marchese di Villabianca).

Spiridione Franco: La fucilazione di Francesco Bentivegna. Tratto da: Storia della rivolta del 1856 in Sicilia.

Una vettura di campagna stava pronta innanzi la porta del Castello, un gran numero di compagni d’armi comandati dal Capitano Giorgio Chinnici, altrettanti gendarmi a cavallo col Capitano De Simone, attendevano l’uscita del condannato, uscito che fu lo fecero salire sul legno bene carico di ferri, anche il Desimone prese posto nella vettura.
La via tracciata fu fuori porta Carbone, passeggio a mare, oggi Foro Italico, Villabate, Misilmeri, Ogliastro; sull’alba del giorno 21 Dicembre 1856, giunsero in Mezzojuso sito stabilito pel sacrificio di quel martire.
Lo fecero entrare nella piccola chiesa delle Anime Sante, che già si trovava aperta e preparata per attendere il condannato. Un buon numero di armati circondavano la chiesa, e le strade convicini.
Venne fatto chiamare il prete Greco Don Gaspare Cavadi (non un monaco cappuccino come alcuni scrissero) il quale con dolci ed amorevoli parole confortava il Bentivegna a soffrire rassegnato la di lui fine.
«Caro Barone», gli diceva l’assistente Prete, «il vostro martirio vi aprirà la porta del Santo Paradiso, a godere colà la vita eterna; per ottenere ciò bisognano due cose, il pentimento sincero dei vostri peccati, e perdonare di tutto cuore i vostri nemici».
«Sì» rispose il Bentivegna «chiedo perdono a Dio dei miei peccati, e perdono di tutto cuore i miei nemici, ed i miei traditori, (alludendo al Milone) però credetemi caro padre desidero un caffé per ultimo mio cibo, ed un Notaio».
Il buon prete si avvicina al De Simone quel brutto ceffo di vero boja, e le manifesta il desiderio di Bentivegna.
Rispose:
«Il caffè verrà subito, pel Notaio non credo di poterlo soddisfare».
Il Prete soggiunse:
«Se lei trova delle difficoltà, consultiamo il qui vicino Notaio don Gaspare Franco».
Venuto questi, assicurò il De Simone che:
«Il condannato può per legge fare il suo testamento, se vuole riscontrare la legge vado a prendere il codice», aveva detto il Notaio.
Il Desimone soggiunse una volta, che:
«Lei la accerta, faccia pure il Testamento».
Fatto venire un tavolo e l’occorrente per scrivere, il Notaio sedutosi vicino al Bentivegna, gli chiese ciò che desiderava di fare.
«Voglio fare un testamento di proprio carattere sotto la vostra dittatura, lascio tutto ciò che mi appartiene ai. miei due fratelli Stefano e Giuseppe, però vi prego di tralasciare la solita ciacolatoria regnando ecc. ecc.»
«Ho capito Barone daremo altre forme, e tralasciamo la ciacolatoria per contentarvi».
Bentivegna prese la penna e scriveva sotto la dittatura del Notaio, con mano ferma, sangue freddo, e disinvoltura mai veduta in coloro che hanno fatto la stessa fine, quando il Notaio doveva pronunciare le parole sagramentali.
«È questa la mia ultima volontà», non s’intesero che monosillabe ed i suoi occhi si riempirono di lagrime.
Il Bentivegna veduto il Notaio così commosso gli disse:
«Coraggio Notaio mi sembra che voi siete il condannato ed io il Notaio».
Dopo firmato il testamento lo consegnò al Notaio per essere conservato nelle sue minute. Piegato il testamento il Notaio strinse affettuosamente la mano di Bentivegna, e tutto turbato rientrò nella sua vicina casa fissandosi nel pensiero, che quell’uomo così buono e generoso non aveva che pochi minuti di vita, attendendolo una morte, che il moschettato della tirannide borbonica fece violenta e truce!
Però, bisogna oggi confessarlo, quel testamento, quelle lagrime sparse, il turbamento del Notaio Gaspare Franco, ebbero il suo premio, un poco tardi però. I nostri governanti, che qualche volta non lascino senza quiderdone le buone azioni anni fa, gli conferirono l’onorificenza di Cav. della Corona d’Italia; ma certo i più meritevoli sono dimenticati, perchè nulla chiedono, e non insistono per ottenerli!
Dopo l’uscita del Notaio dalla Chiesa, il De Simone avvertì il Bentivegna, che mancavano ancora 20 minuti all’orario per l’esecuzione. Il paziente rispose tranquillo:
«Sono pronto possiamo subito partire».
«Non ancora» soggiunse il famoso Capitano De Simone, «devo stare all’orario stabilitomi, perchè potrebbe darsi che giungesse qualche messo, e portasse la sospensione della Sentenza, ed io mi troverei compromesso».
«Stia pur tranquillo», rispose il Bentivegna «la mia sorte è stata decisa da molti giorni!»
Avvicinatasi l’ora del sacrifizio fu ordinata l’uscita del condannato, il quale camminava con passo fermo: a destra stava l’assistente Prete, a sinistra il Desimone, circondati da due fila di soldati e da molta sbirraglia, comandati dal capitano Giorgio Chinnici, e dell’Ispettore tanto conosciuto Gaetano Scarlata nella nostra storia. Nella vasta piazza stava schierato in quadrato il battaglione comandato dallo stesso Colonnello Ghio, si giunse nel sito destinato alla esecuzione, il portone della casa del Cav. Dimarco.
Fu quel momento di silenzio e di terrore non mai provato! Dieci soldati erano pronti, al muto segno il Prete si discostava. Fu ordinato il fuoco, e il Bentivegna in men che si dica, cadde fulminato sulla nuda terra inverso nel proprio sangue, innanzi di quella casa, ove noi avevamo tenuta la prima riunione della congiura rivoluzionaria (consumatum est).
Il trafìtto corpo sanguinante posto su quattro assi di legno detto fra noi “cataletto”, senza ornamento che indicasse essere corpo umano veniva osservato dai soldati e d’alcuni imbecilli monelli del paese.
Per evitare questa vista, una donna, pietosa certa Caterina Calagna, si tolse dalle spalle il suo manto nero e coprì il miserando cadavere di quel martire della libertà Italiana! Dopo con buona scorta la salma fu trasportata nella Chiesa del Convento del padri Francescani, e fatta aprire la fossa comune, che serviva allora per la povera gente, fu gettato giù nemmeno col riguardo di una misera cassa, tutto ciò venne ordinato da quell’abborrito Governo, che volle compiere l’ultima ed odiosa vendetta all’apostolo della libertà!



Spiridione Franco: Francesco Bentivegna. Storia della rivolta del 1856 in Sicilia organizzata dal barone Francesco Bentivegna in Mezzojuso e da Salvatore Spinuzza in Cefalù. 
Pagine 167 - Prezzo di copertina € 22,00
Prefazione del prof. Santo Lombino. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via Marchese Ugo, 56), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Macaione (via Marchese di Villabianca).
(Nella foto: Francesco Bentivegna ritratto da Nicola Figlia) 

Spiridione Franco: La condanna a morte di Francesco Bentivegna. Tratto da: Storia della rivolta del 1856 in Sicilia organizzata dal barone Francesco Bentivegna...

Mentre mi riposava non senza turbati pensieri nel mio novello nascondiglio (giorno 20 Dicembre) il martire amico e compagno Francesco Bentivegna, sedeva sul banco dei malfattori dentro il forte Castellammare per essere giudicato dal Consiglio di Guerra eretto con forma subitanea. Presideva un tal Consiglio il Colonnello Giordano, faceva da pubblico Ministero il Capitano Cesare Schittini; il Colonnello dichiara aperta la seduta; gli avvocati di Bentivegna fecero le loro proteste. Il valente avv. Giuseppe Puglia prese la parola: 
«Signor Presidente, d’alcuni giorni abbiamo fatto un ricorso alla Suprema Corte di Giustizia sul merito di questa causa documentata dalla nostra legge del Regno, e sino a che quei vecchi magistrati non daranno il loro risponso, voi Signori, quest’oggi non avete il diritto di giudicare l’imputato, e prego che si rimandi la causa ad altro tempo». 
Le ragioni di diritto di quel culto giureconsulto qual fu l’avv. Puglia non valsero per nulla. 
Il Presidente rispose: 
«Ho ricevuto l’ordine dal Governo di giudicare oggi il Bentivegna, e non indugierò di un’ora, si prosiegua il dibattimento. Imputato alzatevi! Oggi come già vedete si fa la vostra causa, se avete cosa da dire per la vostra discolpa chiedetemi la parola che vi sarà accordata. Quante armi avete?» 
Bentivegna con gentilezza ringraziò il Presidente.
«Ma ne sia certo» diceva egli, «che io non domanderò mai la parola, sarebbe un fiato inutilmente sprecato, sono bene persuaso che le mie ore sono contate!» 
tta sbirraglia Borbonica. 
Prese la parola il Commissario del Re, Capitano Schittini Cesare. 
«Signori, il giudicabile secondo me, è un delinquente nato, egli nacque nel 1820 quando la Sicilia era in rivolta, nel 1848 prese le armi contro il nostro Sovrano, come deputato in quell’epoca, fu uno dei primi che iniziò la decaduta del nostro Sovrano, congiurò con Nicolò Garzilli nel Gennaio 1850. Dopo si univa nel 1854 nella farmacia Romano via Castro ove venne arrestato. Non appena uscito dal carcere di Trapani, dà principio alla propaganda rivoluzionaria, lascia di nascosto Corleone, e fa il giro di Bagheria, Termini Imerese, e Cefalù ove trovò alcuni illusi, che si rivoltarono dopo il 22 Novembre, per effetto della notizia ricevuta, che il giudicabile Bentivegna era sul campo di battaglia; del resto l’avete inteso testé, dalla propria bocca del giudicabile, che il capo affettivo era lui. Per sì fatti motivi chiedo che venga applicato al giudicabile l’art. 123 del nostro Codice, che infligge la pena di morte mercè la fucilazione, e che sia eseguita questa pena nella piazza di Mezzojuso in fra le ore 24 come pubblico esempio. Son certo che tutto il consiglio ad unanimità accoglierà le mie conclusioni dettate dalla legge e dalla coscenza». 
Il giudicabile mentre parlava contro di lui, il suo carnefice accusatore, guardava un altro uomo, inchiodato sulla Croce: Gesù Nazzareno ch’era morto per salvare il genere umano, lui offriva la propria vita per liberare un popolo oppresso! 
«Imputato Bentivegna», disse il presidente, «avete il diritto di parlare, se volete a vostra discolpa, ricordatevi che dalla munificenza Sovrana, si può essere perdonati, rivelando le trame segrete». 
Insorse di scatto allora il Bentivegna con sorriso convulso, che uscì dalla sua bocca serrata dicendo: 
«Siete vili ed ipocriti, affrettate il mio supplizio, spegnete la mia vita, ma non ardite offendere la mia coscienza. Torturatemi ancora quanto volete, ma con le zozze vostre insinuazioni non lordate la mia persona. Se vi è lecito di togliermi la vita lasciatemi l’onore. Non sperate giammai, che io scendo nella tomba contaminato, ed imparate come si muore per una causa patriottica, e santa». 
I componenti del Consiglio scossi dall’audacia di quell’uomo di volontà di ferro, di fronte all’onore che spreggiava la vita, come belve assetate di sangue entrarono nella camera delle deliberazioni e dopo venti minuti uscirono colla crudele sentenza in mano. 
Il Segretario la lesse, eccone il testo: Il Consiglio di guerra visto l’articolo 123 del Codice Penale, ritenuto che il giudicabile Bentivegna Francesco, avrebbe voluto distruggere con la rivolta la forma del nostro governo, condanniamo, a parità di voti il Barone Francesco, Bentivegna nato in Corleone nel 1820 alla pena della fucilazione, da eseguirsi tra le ore 24 nella publica piazza di Mezzojuso come grado di publico esempio. 
Il condannato era piuttosto lieto di quella sentenza, perchè colla di lui morte poneva fine ad una vita strazziata di tante torture sofferte, e che sarebbe stato il soggetto dell’odio contro l’abborrito governo, che affrettava come successe la propria caduta!
L’infelice di sua madre Marchesa De Cordova era ritornata da Napoli, aveva ottenuto un’udienza dal sovrano, si era prostrata ai di lui piedi del Sovrano Ferdinando II a implorare con amorose lacrime di avere salva la vita del proprio figliuolo. L’umiliazione, e le lagrime non valsero ad intenerire quel pio Monarca (come ardiscono chiamarlo alcuni preti).
«Vedremo Signora» fu la risposta di quel re, sitibondo di sangue nulla promise, e nulla fece.
Terminato il Consiglio l’orgoglioso martire, Bentivegna, era stato racchiuso nella sua cella per attendere l’ora della partenza. La madre aveva ottenuto il permesso dal Luogotenente Generale del Re, Principe di Castelcicala per potere abbracciare per l’ultima volta il suo diletto figlio. Fu fatta entrare nella cella ov’egli stava racchiuso. 
Ai vostri pietosi cuori miei cari lettori il valutare, l’impressione dolorosa di quella madre infelice, giacché taluni affetti si sentono, ma non si possono esprimere! 
La desolata Marchesa, strinse di un fiato il suo diletto figlio, quel figlio, che la dimane doveva ricevere dieci palle sul candido petto, e sparire da questo mondo per sempre!! di quale fortuna per la madre, se avesse potuto dividere la sorte toccata al figlio. Questi cogli occhi di un Nazzareno guardò la sua infelice madre, e poi gli disse: 
«Confortati mia cara madre, dimostrati grande come le donne degli antichi romani, sii una novella Cornelia, pensa di essere mia madre, io muojo per la libertà del popolo oppresso, il mio sangue germoglierà, e farà libero il popolo oppresso, confortati e spera nell’avvenire». 
Partita la madre infelice, nell’acerbo dolore, nell’angoscia il condannato chiese di abbracciare il suo fratello Stefano che stava racchiuso poco distante da lui in altra oscura prigione, neppure un tal conforto gli venne concesso!


Spiridione Franco (Capitano dell'armata siciliana 1848-1860. Garibaldino): Francesco Bentivegna. Storia della rivolta del 1856 in Sicilia organizzata dal barone Francesco Bentivegna in Mezzojuso e da Salvatore Spinuzza in Cefalù.
Pagine 167 - Prezzo di copertina € 15,00
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Giovanni Raffaele: La fucilazione di Francesco Bentivegna. Tratto da: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni. Un periodo di cronaca contemporanea.

 
Bentivegna fu arrestato la notte del 3 dicembre da dieci soldati d’armi, e da una compagnia del battaglione cacciatori guidati da spia, un certo Milone uomo più volte beneficato da Bentivegna; e che come tale conoscea ove tenevasi nascosto. Egli fu trovato solo e inerme in una piccola casa di campagna, e fu condotto a Palermo. La Corte intanto continuava la istruzione del processo, quando il Luogotenente generale con ministeriale del 9 dicembre, Dipartimento di Polizia, scrisse al procuratore generale della gran Corte criminale «Avendo risoluto, che un Consiglio di Guerra subitaneo procedesse pel signor Bentivegna, Ella nel giorno di dimani gli trasmetterà le carte relative allo stesso, e la nota dei testimonii.»
A mezzanotte dello stesso giorno venerdì, una carrozza usciva dal castello scortata da molta forza armata. Vi erano dentro Bentivegna, Maniscalco ispettore di polizia, De Simone Tenente di Gendarmeria. Lungo il viaggio, De Simone dimandava al Bentivegna, se egli avesse tentato di far la rivoluzione per consiglio del console Inglese, o pure di altri, e Bentivegna gli rispondeva con riso sardonico, e gli discorreva di agricoltura.
All’alba del 20 dicembre la carrozza giunse a Mezzojuso ove il Bentivegna domandò al Caffettiere, caffè e sicari. Poi volle vedere l’arciprete Greco, cui domandò un foglio di carta e calamaio. Il buon Prelato gli fornì tutto, ed egli con mano ferma cominciò a scrivere il suo testamento. Maniscalco e De Simone gli sussurravano che non sarebbe valido, ed egli rispondeva 
«Va bene lasciatemi fare.»
E compì la sua scrittura che consegnò all’arciprete. Poi tornò a fumare, e quando l’ora della esecuzione fu giunta, domandò che non gli si bendassero gli occhi, che non l’obbligassero a sedere sopra sedia.  
«Io cammino e voi tirate.» 
Egli disse, e così fu fatto. 
Così la mattina del sabato, a quell’ora in cui la suprema Corte di giustizia, in virtù della ministeriale comunicatale il giorno prima a due ore p. m. avrebbe dovuto discutere la causa di Bentivegna, questi, poche ore innanzi era stato fucilato in Mezzojuso senza alcun giudizio legale, ma per ordine arbitrario del governo, per cui la suprema Corte in virtù della seconda ministeriale dello stesso giorno di venerdì comunicata alle ore 5 p. m. non si occupava che di affari civili. 
Ma la causa di Bentivegna trovavasi già notata per l’udienza di lunedì, e bisognava smaltirla. La suprema Corte dunque trovavasi imbarazzata se dovesse, o pur no trattare la causa del morto. Un ricorso degli Avvocati presentato all’udienza di lunedì in cui si diceva  
«Poiché Bentivegna è stato fucilato e i morti non si giudicano, così ritiriamo il nostro ricorso.»  
Diede termine all’imbarazzo della Corte, la quale immediatamente decise 
«Attesochè il Bentivegna è stato fucilato, e gli Avvocati hanno ritirato il ricorso, così non vi è luogo a deliberare.»
Non mai in questo paese l’opinione pubblica si è pronunziata con tanto vigore, con tanta unanimità contro il governo, quanto nella presente occasione. Le qualità di Bentivegna, generalmente conosciute ed amate, la causa pella quale si costituì martire, e sopra tutto la violazione di legge comandata dal governo produssero questo effetto. 
Il Consiglio di guerra, e la gran Corte criminale sono stati dichiarati da questo pubblico come strumenti vilissimi della tirannia governativa: il Procuratore generale della suprema Corte di giustizia sig. Napolitano, e il Direttore del dipartimento di grazia e giustizia come timidi e deboli, perchè non han saputo sorvegliare e mantenere l’esecuzione della legge: il Luogotenente generale, per l’innanti riguardato come onest’uomo ma stupido ed imbecille, oggi è conosciuto come un uomo proclive al sangue, come una statua, come un tronco all’ombra del quale e a cui nome il Direttore del Dipartimento di polizia signor Maniscalco ha diretto, ed operato tutti gli abusi di potere, tutti gli atti arbitrari, tutte le violazioni di legge che risultano da questa storia.
E questa tragedia ha anch’essa il suo episodio che non è meno importante dell’azione principale. Fra gli arrestati per questa causa vi è il sac. Allotta, il quale invitò l’avvocato Bellia a difenderlo. Questi, essendosi presentato al direttore di polizia per parlargli in favore del suo cliente, Maniscalco gli disse 
«Questo è un altro galantuomo come Bentivegna.» 



Giovanni Raffaele: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni. Un periodo di cronaca contemporanea.
Pagine 106 - Prezzo di copertina € 11,00
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Giovanni Raffaele: Francesco Bentivegna e l'insurrezione in Sicilia del 1856. Tratto da: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni. Un periodo di cronaca contemporanea

Francesco Bentivegna nacque l’anno 1819 in Corleone da onesti e ricchi genitori. Sulle prime, nel collegio de’ padri Gesuiti in Palermo, si ebbe una educazione qual si conveniva alla sua condizione sociale: poi le matematiche, gli studi di agricoltura e di poesia, furono le sue occupazioni predilette. 
Liberale di principii, onesto e caritatevole, fu sempre amato e rispettato dai suoi concittadini. 
Esercitando su di essi grande influenza, ebbe egli una gran parte negli avvenimenti politici del 1848: e quando si apriva il 25 marzo il Parlamento Siciliano in Palermo, egli fu spedito deputato per rappresentare la sua patria. 
Verso la metà del 1849, ristaurato il governo di Ferdinando II, il Bentivegna ritornava in patria ai suoi studii ed alla pratica agraria in apparenza, ma in realtà non pensava e non agiva, che per riacquistare la libertà. Cospirò giorno e notte; travestito percorse più volte la maggior parte dei paesi di Sicilia, ed il fece con tanto senno e circospezione che la polizia o non mai ne ebbe sentore, o se qualche volta credette averlo sorpreso, ed arbitrariamente lo avesse arrestato, mai potè riunire tali elementi di prova da farlo condannare; talchè, dopo averlo fatto languire per qualche anno in carcere durissimo, finalmente era costretta a rimetterlo in libertà, e lo mandava a domicilio forzoso in Corleone. 
Ma queste persecuzioni e sevizie non solo non rallentarono in Bentivegna l’amore della libertà, che anzi maggior fuoco accendevano nell’animo suo, rendendolo all’istesso tempo più ardente e più cauto. 
Il governo di Napoli, cui il principe di Satriano, (che gli avea riconquistato la Sicilia) malgrado il sangue che egli fece spargere il 27 gennaro 1850, sembrava troppo umanitario e liberale e lo pose al ritiro, il governo di Napoli, io dico, colle sue iniquità e col sistema inflessibile di espoliazione aiutò più che ogni altro il Bentivegna nella sua impresa. Difatti dopo sette anni appena, la Sicilia potea dirsi matura e pronta ad un’altra rivoluzione, la quale se non si compì, fu per ostacoli naturali non per abilità del governo.
Eludendo ogni vigilanza della polizia, in novembre il Bentivegna percorse per l’ultima volta tutte le Comuni di Sicilia che doveano rispondere allo appello, e coi capi dei Comitati stabiliva d’inalberare la bandiera tricolore, contemporaneamente il 12 gennaro 1857 come anniversario della rivoluzione del 1848; menochè circostanze imprevedute non obbligassero di ritardare, o accelerare il movimento. Egli il 16 novembre fu in Palermo, domicilio inibitogli dalla polizia, la quale ne ebbe sospetto e lo cercò; ma non giunse ad arrestarlo, e fu giocoforza contentarsi di accrescere la sorveglianza, e di sospendere l’Ispettore di Corleone sig. Petini cui sin allora era stata affidata.
A vista dell’imminente pericolo di essere scoperto ed arrestato, il Bentivegna giudicò non potere più oltre differire il cominciamento dell’opera sua, per cui sabato 22 novembre alle ore 8 della sera, aiutato dal cavaliere Dimarco, da’ fratelli Figlia, e Romano zio e nipote, ricchi proprietari, inalberò la bandiera tricolore ed alla testa di 300 persone armate entrò in Mezzojuso. L’indomani domenica 23 tutte le Comuni ove Bentivegna potè far giungere la notizia della inaugurata rivoluzione risposero allo appello, e così il vessillo tricolore si vide sventolare a Villafrate, a Bocina, a Ventimiglia, a Mezzojuso, e poi a Cefalù, a Roccella e Collesano.
Ma da un canto, la prontezza con cui, mercè i mezzi de’ quali il governo disponea, potè far giungere le sue truppe su i luoghi dell’insurrezione; dall’altro lato, le piogge dirotte e prolungate che ingrossando i fiumi li rendeano impraticabili e impedivano che le notizie si comunicassero ai paesi più lontani e che la rivoluzione rapidamente si diffondesse, furon causa che la rivolta si arrestasse sul suo nascere. Nei paesi lontani e pronti ad insorgere, la notizia che la rivoluzione era stata compressa, arrivò prima che si sapesse di essere stata inaugurata.
La banda Bentivegna così si sciolse spontaneamente, e lo stesso avvenne delle altre di Cefalù, e di Roccella. Le truppe entravano in Mezzojuso il dì 24 novembre, e qualche giorno appresso a Cefalù, e con essi birri, ispettori e commissari di polizia. 
Alcuni individui delle disciolte bande si presentarono spontaneamente, o per dir meglio per le sevizie della polizia che esercitava sui padri e sulle madri, sui figli, sulle figlie e sulle sorelle dei profughi. Sono di questo numero Guarnieri, Dimarco, Guggino. Di molti altri non si ha notizia, specialmente di Civello da Roccella, di Spinuzza, e di due fratelli Botta da Cefalù. Le sevizie usate dalla polizia alle sorelle di questi tre ultimi sono rimaste senza risultato.
La sorella del primo, da molti anni maritata in Grattieri, e che non avea alcun rapporto col fratello, gravida di sei mesi, messa a cavallo di un mulo fu condotta nel carcere di Cefalù, ove abortì soffrendo grave emorragia che la ridusse all’orlo del sepolcro; eppure restò sempre, ed è tutt’ora nel carcere di Cefalù. Le due sorelle de’ signori Botta, e con esse altre 64 persone, sono state condotte da Cefalù nella Vicaria di Palermo che ribocca di arrestati per questa occasione. 
In fine altri profughi sono stati arrestati dalla forza armata, ma tutti senza armi, lontani dal luogo dell’insurrezione.


Giovanni Raffaele: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni. Un periodo di cronaca contemporanea. 
Pagine 106 - Prezzo di copertina € 11,00
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Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via Marchese Ugo, 56), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Macaione (via Marchese di Villabianca). 

venerdì 1 dicembre 2023

Angelo Coppola: Giuseppe La Masa, un eroe siciliano bello e generoso. Tratto da: La vita di Giuseppe La Masa nella storia del Risorgimento italiano

 
Come è noto molti si sono occupati del La Masa prima e dopo della morte di lui, potendosi affermare che nessuna personalità del Risorgimento italiano, sia stata tanto inesattamente e variamente giudicata. E sebbene nel risveglio patriottico di questi ultimi tempi e nel rigoglioso rifiorimento di ogni virtù civile e militare, la figura di lui sia stata, per necessità storica, rimessa in evidenza irradiandone l'opera rivendicatrice, pure si sono ripetuti giudizi ed errori che ne trasformano il carattere, ne travisano l'aspetto, deprimendo l'importanza del contributo eminente ch'egli diede alla causa della libertà. 
Ingiusti e irriverenti il Ranalli ed il Calvi: disaccorto, partigiano ed astioso il Guerzoni; equanime e quasi compiacente l'Abba, si è dovuto attendere da uno straniero un giudizio sincero e spassionato sull'azione efficacissima del La Masa nel 1860.
Il Trevelyan difatti afferma, fra l'altro, che "una delle mire principali di Garibaldi, nel traslocarsi da Renda a Parco, fu di mettersi in contatto con le squadre del La Masa".
Ma anche il Trevelyan dimostra poi di sconoscerne la indole, quando asserisce che "al La Masa si addiceva a pennello la parte del Danton siciliano" negandogli la competenza in cose militari. 
Se il La Masa congiurò, come il Danton, contro la monarchia, non si vendè poi alla Corte per ritornarne nemico, non fu istigatore di eccidi, non inaugurò sistemi di terrore. In una parola non ebbe le finalità nè il carattere incostante e fellonico del Danton. 
La eloquenza del La Masa entusiastica, affascinante e piena di solennità induceva ad atti magnanimi e non ad eccidi. Il suo aspetto, la sua educazione, la sua indole ispiravano fiducia nella causa della libertà, di cui egli era uno dei più illuminati apostoli. Cospiratore pertinace, poeta improvvisatore, gentilissimo animo, ottimo cuore, pareva un San Francesco d'Assisi nel pietoso adoprarsi per gl'infelici. 

Giovinetto il La Masa ottenne dai suoi congiunti cinque onze (L. 63,75) per godersele in Palermo durante le feste, allora sontuosissime, della Patrona Santa Rosalia. Partitosi a cavallo da Trabia, sua patria, giunto nei pressi di Altavilla notò in un casolare un'agitazione di persone e grida di dolore. Intuendo qualche sciagura vi si spinse. Trovò difatti un uomo gravemente ferito d'arma da fuoco e che, per mancanza di mezzi, non poteva esser condotto nell'ospedale di Palermo. 
Il La Masa, novello Samaritano, colpito da pietosissimo caso, consegnò senza indugio, le intere cinque onze a quello sventurato e, dato di sprone, ritornò in Trabia. Egli avrebbe potuto aiutare quell'infelice con pietà, direi quasi, esuberante, limitando il proprio godimento; ma il suo animo era rimasto talmente conturbato, da fargli abbandonare il pensiero di una distrazione che faceva contrasto con lo spettacolo della sventura. 
Il La Masa non ismentì mai questa sua estrema sensibilità verso gl'infelici. Ricordo che essendo egli ospite della mia famiglia, durante l'insurrezione del 1860, veniva anche fornito di biancheria e di quanto d'indumenti poteva adattarglisi. Rientrato un giorno richiese un fazzoletto perchè quello in seta, che gli era stato fornito la mattina, lo aveva dato in elemosina ad un povero, non avendo da dargli denaro. E non fu un caso isolato nè limitato ai soli fazzoletti. 
Questi fatti, oltre a dimostrare che il Treveylan si è evidentemente ingannato nel paragonare il La Masa al Danton, spiegano tutti gli atti di una vita che, a traverso le agitazioni e gli sconvolgimenti, fu sempre improntata a sentimenti della più fine delicatezza, delle più alte idealità ed ispirata da un cuore dolce, generoso e magnanimo. 


Angelo Coppola: La vita di Giuseppe La Masa nella storia del Risorgimento Italiano. 
L'opera è la ristampa anastatica del volume originale pubblicato con l'Ed. Tipografia Nazionale nel 1919.
Prefazione del prof. Pietro Zambito.
Pagine 439 - Prezzo di copertina € 22,00
Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 20% - consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Macaione (Via M.se Villabianca 102), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56). 

Un bel successo la presentazione del libro: La vita di Giuseppe La Masa nella storia del Risorgimento Italiano di Angelo Coppola

Si è parlato di Giuseppe La Masa ieri, nella Sala delle Missioni della Biblioteca Centrale della Regione Siciliana, a Palermo. Si è parlato di Giuseppe La Masa nel giorno del suo compleanno (nasce infatti a Trabia il 30 novembre del 1819) nella presentazione del libro: La vita di Giuseppe La Masa nella storia del Risorgimento Italiano di Angelo Coppola, stimato ingegnere palermitano, che pubblicò il libro nel 1919 con l'Ed. Tipografia Nazionale. 
Questo volume riproduce in anastatica quello pubblicato nel 1919. 
Noi Buoni Cugini ringraziamo vivamente i relatori: 
- Professoressa Alba Castello, docente UNIPA che ha illustrato in modo chiaro ed esaustivo il libro dal punto di vista letterario. 
- Lo storico Bernardo Puleio, che ha illustrato al pubblico il periodo storico di cui Giuseppe La Masa fu protagonista. 
- Il professore Pietro Zambito autore della prefazione nel libro. 
- Il presidente regionale BCSicilia dott. Alfonso Lo Cascio.
Ancora una volta, grazie anche al numeroso pubblico, siamo riusciti a tenere viva la memoria di chi ha dato la vita e si è speso tanto per la nostra libertà, per non dimenticare il Risorgimento siciliano e "tutta quella parte che i nostri vi ebbero, la quale ordinariamente non apparisce nelle storie: le opere e i sacrifici dei nostri, che prepararono prima, e spianarono, resero possibile poi e vittoriosa la spedizione garibaldina dei Mille e l'Unità nazionale" (Luigi Natoli) . 


Il volume: La vita di Giuseppe La Masa nella storia del risorgimento italiano di Angelo Coppola è disponibile: 
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 20% - consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita on line e in libreria presso: 
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Macaione (Via M. Villabianca 102), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), La Feltrinelli libri e musica (Punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15). 


giovedì 23 novembre 2023

Giovedì 30 novembre alle ore 16:30 presso la Biblioteca Centrale di Palermo presentazione del libro: La vita di Giuseppe La Masa nella storia del Risorgimento italiano

 




Angelo Coppola: La vita di Giuseppe La Masa nella storia del Risorgimento italiano. 
Prefazione del prof. Pietro Zambito. 
Pagine 439 - Prezzo di copertina € 22,00
Nel 1848 una delle canzoni popolari più in voga, cautamente canticchiata in famiglia, aveva le parole di questa poesia dialettale:

‘Na palummedda bianca
Si mancia la cirasa
Evviva Peppino La Masa
Ca detti la libertà.

La canzone, nascostamente cantata per tutto il periodo della restaurazione borbonica, si ridestò nel 1860 con sincero entusiasmo.
Nel 1919 l’ing. Angelo Coppola, autore di questa accurata biografia su Giuseppe La Masa, conclude il suo studio sull’eroe siciliano facendone il seguente ritratto:
Si può affermare, senza tema di essere smentiti che, nei fatti del 1848 ed in quelli del 1860, nessuno può vantare di avere ottenuto con le proprie influenze, con il proprio entusiasmo, con le proprie attitudini, con la propria fede, con il proprio intuito e con la propria iniziativa, quei meravigliosi risultati ai quali pervenne Giuseppe La Masa, senza le dande delle quali ebbero bisogno tutti, indistintamente, gli altri eroi di cappa o di spada che sogliono pullulare in mezzo al groviglio dei popolari rivolgimenti.
Il suo carattere focoso e intraprendente lo portò in varie circostanze a incomprensioni dalle quali scaturirono vivaci polemiche e screzi financo con lo stesso Garibaldi, che non volle seguire nella campagna continentale. Oggetto di azioni diffamatorie sul suo ruolo ricoperto nella guerra di liberazione dell’Italia meridionale, passò gli anni sessanta e settanta alla difesa del proprio onore. Un giurì appositamente istituito sentenziò a suo favore ma tuttavia lasciò impregiudicata la questione storica.
Di certo Giuseppe La Masa si oppose con fierezza alla tirannide, combattendola sia con le armi nei campi di battaglia, sia con le parole nelle sue numerose pubblicazioni, mostrando sempre il coraggio e la lealtà dei patrioti fedeli alle idee liberali e all’amore per la propria nazione.

Vivo e combatto per la libertà e per l’indipendenza, non per la repubblica, né per la monarchia; perché la scelta della forma di governo deve sentirla e volerla un popolo, non un partito.
Giuseppe La Masa.

L'opera è la ristampa anastatica del volume originale pubblicato dalla Tipografia Nazionale nel 1919.

giovedì 19 ottobre 2023

Luigi Natoli: Niccolò Garzilli. Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

Aquilano d’origine, palermitano d’adozione, studente dell’università, di soli diciannove anni aveva fatto concepire alte speranze di sé, per un suo scritto filosofico. Scoppiata la rivoluzione aveva lasciato la penna pel fucile, combattuto da prode, preso parte alla spedizione Ribotti nelle Calabrie: fatto prigioniero con gli altri, era stato chiuso nelle fortezze borboniche. La prigione non spense la sua fede: uscitone, prese attivamente a cospirare con altri animosi. Illudendosi che le violenze poliziesche avessero negli animi acceso tanto sdegno, che bastasse rinnovare le audacie del 12 gennaio, per far divampare l’incendio della rivoluzione, sebbene sconsigliato dal Lomonaco, divisò co’ suoi compagni d’insorgere pel 27 gennaio 1850. Ma traditi da un Santamarina, che era dei loro, scesi il giorno designato nella piazza della Fieravecchia, al grido di Viva la Costituzione, trovarono le vie occupate dalle milizie regie, e si sbandarono. Il Garzilli poco dopo, preso con altri cinque, e condotto al Castello, vi fu giudicato da un Consiglio di guerra, al quale il Satriano scriveva in precedenza, che sentenziasse per tutti e sei quei giovani la morte, da eseguirsi la stessa giornata. La sera stessa del 28, condannati senza alcuna prova legale, condotti nella piazza Fieravecchia, vi furono moschettati. Un marmo tramanda alla memoria dei posteri i loro nomi: furono Nicolò Garzilli, Giuseppe Caldara, Giuseppe Garofalo, Vincenzo Mondino, Paolo De Luca e Rosario Aiello.
Al supplizio seguì un processo contro sessantacinque presunti rei di cospirazione, dei quali oltre la metà la­titanti, e fra essi il Bentivegna. Contro gli arrestati la polizia incrudelì; il tribunale prosciolse ben trentasei dall’imputazione, gli altri condannò a pene ben gravi.


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.
Il volume raccoglie:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 544 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. Nello specifico a Palermo presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), Spazio Cultura Libreria Macaione (Via Marchese di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni, 60), Libreria Zacco (Corso Vittorio Emanuele 423), Libreria Modusvivendi (Via Quintino Sella 79)

Luigi Natoli: I fratelli De Benedetto. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860.

Erano tutti stati attivissimi nel cospirare e appre­star armi alla rivoluzione, rischiando la vita e contri­buendo largamente del loro patrimonio; Salvatore era stato arrestato poco tempo innanzi; Raffaele e Pasquale eran fuggiti alle ricerche della polizia, e s'erano uniti con Rosalino Pilo; poi avevano raggiunto Garibaldi, e il 27 maggio li trovò nelle prime file. Il 28, Salvatore, uscito con gli altri dal carcere, corse a trovarli, ma Raffaele giaceva per la grave ferita toccata il 27 al ponte dell'Ammiraglio, e soltanto Salvatore e Pasquale poteron prender parte ai combattimenti che si svolge­vano nella città. Ora difendevano con le squadre e coi volontari la barricata del palazzo Carini; Pasquale audace, ferito già da una scheggia, pugnando a petto scoverto, cadeva colpito nuovamente da una palla al fianco; Salvatore, che gli stava di presso, accorso per sostenerlo, aveva da un'altra palla passato il cuore: caddero abbracciati sulla barricata, all'ombra della loro bandiera.
Questa dei De Benedetto fu una famiglia di eroi per nulla inferiore a quella dei Cairoli. Raffaele combattè
al ‘48, cospirò nel decennio di preparazione, fu coi fratelli massima parte della rivoluzione del 4 aprile, fu ferito a Palermo, seguì Garibaldi ad Aspromonte, combattè nel Trentino, morì eroicamente a Monte San Giovanni nel 1367, dinanzi a Roma. Salvatore e Pasquale morirono sulle barricate. Anche i due minori fratelli Luigi e Carmelo aiutarono le rivoluzioni, sebbene ancor giovinetti.
(Nella foto: Raffaele De Benedetto, esposto al Museo di Storia Patria - Palermo)


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.
Il volume raccoglie:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 544 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. Nello specifico a Palermo presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), Spazio Cultura Libreria Macaione (Via Marchese di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni, 60), Libreria Zacco (Corso Vittorio Emanuele 423), Libreria Modusvivendi (Via Quintino Sella 79)

Luigi Natoli: Le rivoluzioni siciliane. Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento

Nel 1820 i Palermitani erano soli, e senza capi, e cacciarono le truppe napoletane, che eran cinquemila uomini con cannoni e cavalleria; e nel 1848 erano solissimi, quando costrinsero le truppe regie a lasciare Palermo. Le statistiche dànno che i siciliani combattenti non superarono le due migliaia, e i borbo­nici erano in Palermo, coi rinforzi sopraggiunti dodicimila! E la lotta fra i regi fortificati nelle caserme e nel Castello, e il popolo della città e delle campagne, durò semplicemente ventisei giorni. Per ventisei giorni un popolo, bombardato, combattè; e non posò le armi se non quando l'ultimo dei regi, fuggendogli innanzi, lungo la marina di Solunto, non s'imbarcò. Non so quale altra città d'Italia abbia, fra le sue mura, combattuto ven­tisei giorni! Ma allora, forse, o le squadre e il popolo non si erano sufficientemente addestrati a fuggire, o erano d'accordo coi regi! 
E sedici mesi dopo, quando le truppe borboniche, comandate dal Satriano, marciano su Palermo? Ma guar­date un po’ che cosa viene in testa alle squadre citta­dine! Invece di addestrarsi a fuggire, tengono in scacco per tre giorni i Napoletani; e non posan l'armi che per onorevole capitolazione. 
E dopo il 4 aprile 1860? Piana, Mezzoiuso, Misil­meri, Alcamo, Partinico, Carini insorgono e mandano squadre sopra Palermo. Queste squadre incominciano una guerra tormentosa, e perfino compiono qualche eroico gesto. Duecento uomini o poco più, nel villaggio di S. Lorenzo, attaccati il 5 aprile da una forte colonna di regi, non soltanto non fuggono, ma fanno indietreg­giare i regi stessi: i quali tornano con cavalleria, e due altre compagnie fresche; perdono trenta uomini, e son costretti a ritirarsi un'altra volta. E di questi episodi ne avvengono a Bagheria, a Lenzitti, dovunque. 
Il 21 maggio 1860, alla Neviera, queste squadre, che da oltre un mese vivevano sui monti, dormendo allo sco­perto, bagnati dalla pioggia, soffrendo la fame, sosten­gono l’urto di tre colonne borboniche. Vi perdono la vita, fra gli altri, Rosalino Pilo e Pietro Piediscalzi, ma salvano Garibaldi dall'essere assalito a Renda; ciò che nella migliore ipotesi lo avrebbe costretto a ritirarsi sopra Castrogiovanni; e addio rivoluzione. Questa è storia documentata; ma nondimeno si continuerà a ripe­tere che le squadre nel 1860, per compiacere il signor Guerzoni, il signor Luzio, e compagnia, fuggivano! 
Rendere omaggio a quelli dei Mille che mori­rono o ebbero ferita, è dovere: ma tacere i nomi dei Siciliani caduti, negare anzi che si siano battuti, peg­gio ancora calunniarli, non è soltanto ingiustizia, è viltà. 
Ma il torto è però nostro. Dal 4 aprile a tutto il 1860, noi in Sicilia demmo alla causa della libertà e dell'unità centinaia di morti; dei quali non raccogliemmo i nomi, nè si seppe mai chi fossero. I morti dei volon­tari potevano essere identificati agevolmente, con l'aiuto dei registri dell'Intendenza; ma quelli delle squadre, no. Neppure i capi-guerriglia conoscevano i nomi dei loro uomini; quei contadini lasciavano le loro terre, le loro case, le loro famiglie; andavano a ingrossare una squa­dra, combattevano, taciti, senza chiedere altro che il loro pane e le munizioni; morivano avvolti nello stesso silenzio; nessuno domandava chi erano, donde venivano; e i più, la gran maggioranza, restò ignota, anonima, senza postuma gloria, senza compianto, senza onori. Martiri oscuri diedero la vita alla Patria e non conte­sero la gloria a nessuno.


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.
Il volume raccoglie: 
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 544 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
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La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), Spazio Cultura Libreria Macaione (Via Marchese di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni, 60), Libreria Zacco (Corso Vittorio Emanuele 423), Libreria Modusvivendi (Via Quintino Sella 79)

lunedì 22 maggio 2023

Luigi Natoli: Il 21 maggio 1860 muore Rosolino Pilo alla Neviera di S. Martino. La morte dell'eroe fu avvolta da tristi voci... Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.

Il 21 di maggio, mentre Garibaldi studiava la sua marcia strategica, le squadre di Pilo erano attaccate da tre forti colonne borboniche. I nostri non eran più di trecento cinquanta; i borbonici oltre un migliaio; ed eran padroni di alture. Corrao sosteneva il fuoco; ma il pericolo d'essere soverchiato era imminente; Pilo ac­corso con Calvino, salito, contro il consiglio di Corrao, in alto per vedere le posizioni, riconosciuto il pericolo pensò di rivolgersi a Garibaldi, per aver aiuti: Calvino e Corrao, stavano in basso; e voltavan le spalle al Pilo, che aveva con sè Andrea Soldano, di Lipari.
Veramente, per accorrere in aiuto delle squadre, non era forse necessario domandarlo. Gli avamposti garibaldini si spingevano presso la Boarra, e, oltre la loro estrema punta, a Lenzitti era la squadra di Pietro Piediscalzi, attaccata anch'essa dai regi. Il combatti­mento dunque si svolgeva poco lontano. Nondimeno il Piediscalzi a Lenzitti, Pilo e Corrao alla Niviera furon lasciati soli, senza soccorso, a sostenere il fuoco dei regi, che movevano da Monreale e da Palermo. Era una necessità dolorosa, non un abbandono, badiamo; e la rilevo qui, perchè questo fatto d'arme, nel quale, con altri, lasciarono la vita Pietro Piediscalzi e Rosalino Pilo appaia veramente quello che fu: un olocausto, una immolazione per impedire che il campo garibaldino fosse assalito, e rendere possibile a Garibaldi la sua stra­tegica diversione. Rosalino Pilo fu colpito alla testa, mentre scriveva, in piedi, fra due rocce, appoggiando la carta sulle spalle del Soldano. Alle grida del quale accorsero il Corrao, il Calvino e altri, sollevarono il Pilo boccheggiante, e lo portarono nella casa della Neviera, d'onde poi l'abate Castelli, avvertito, lo fece di sera trasportare nel monastero di S. Martino.
La morte dell'eroe fu avvolta di tristi voci: la ver­sione più ovvia, più naturale, che egli sia stato ucciso da palla borbonica, (non essendo i regi, che eran ben armati, più lontani di 700 metri; ed avendo egli il capo scoperto); questa versione, che consacrava il suo mar­tirio, si è voluta scartare, e si cominciò col l'accusare di averlo ucciso a tradimento Giovanni Corrao, che invece – e risulta da testimonianze, – stava in basso col Calvino e volgendogli le spalle: e l’invereconda e infame accusa contro chi era stato il compagno, il fra­tello di Rosalino, e che pel coraggio leonino, per la fran­chezza, per tutta la sua vita, non avrebbe mai com­messa una viltà, aveva forse il fine partigiano e astioso di offuscare l'eroica figura del fiero popolano repubbli­cano, alla cui lealtà Garibaldi rese omaggio e allora e poi.
Scartata, perchè bugiarda e ignominiosa, l’accusa contro il Corrao, si volle ucciso Rosalino Pilo ora da un Morrealese, or da uno di Capaci, e ora da uno di Carini: per quale insania, io non so; forse, per quelle stesse ragioni che dissero Carlo Mosto, une dei Mille caduto alla fazione di Parco, ucciso da uno di quei terrazzani; quando il Rivalta, che gli era vicino, lo vide morire per mano dei regi! Questa nostra rivoluzione era così incol­pevole, gli entusiasmi le davano tanta purezza, che occorreva forse gittare un'ombra oscura su quelle squa­dre e su quelle popolazioni, che pur davano il loro sangue, agevolavano e salvavano la marcia di Garibaldi.
Con la morte di Pilo finisce l’azione autonoma delle squadre durata dal 5 aprile al 21 maggio: da questo momento esse seguono la fortuna dei Mille, e di loro gli storici non terranno parola, o forse per dileggiarle: dimenticando che senza di esse e senza la rivoluzione i Mille non avrebbero potuto fare un passo, e sarebbero rimasti vittime della loro audacia.


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento italiano. Il volume comprende: 
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" (I Buoni Cugini editori 2020)
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 544 - Prezzo di copertina € 24,00
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Luigi Natoli: La missione di Rosolino Pilo e Giovanni Corrao. Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione.

Il Pilo e il Corrao veduto qualcuno del comitato messinese, sbarcate e nascoste le poche armi in luogo sicuro, raccolte notizie da Catania e dai dintorni, mossero alla volta di Palermo. Ma prima ragguagliarono d’ogni cosa i fratelli Orlando, che erano stati fra’più ferventi e operosi nell’aiutare e favorire l’impresa: ed erano autorevoli per integrità di carattere, bontà di costume, fede sincera e disinteressato patriottismo: e pregandoli di adoperarsi, perché non venissero meno gli aiuti dei fratelli della penisola, il Pilo, affermando “venuto il tempo d’essere audaci” aggiungeva: “Io sarò felice di poter dare tutto il mio sangue all’Italia nostra”. Scrisse anche a Garibaldi e a Bertani, e le lettere affidò al pilota Motto, pregandolo di salpar subito per recapitarle.
Pilo e Corrao partirono il 12 aprile in pellegrinaggio di propaganda, non temendo le compagnie d’armi e le colonne mobili e i birri, che la polizia avvertita del loro sbarco, avrebbe sguinzagliato sulle loro tracce. La polizia già da qualche tempo innanzi era stata avvisata dai suoi agenti; e sul finire del ‘59 il luogotenente generale aveva scritto al sotto-intendente di Termini, di un prossimo sbarco del “noto agente mazziniano Rosolino Pilo associato a uno dei fratelli Orlando”. Non di meno nulla seppe per allora dell’avvenuto sbarco, e i due audaci poteron procedere indisturbati nel loro cammino. A Barcellona un vecchio liberale, pauroso degli apparati del governo, li consigliò di non proseguire, comunicando che la rivoluzione di Palermo era fallita: rispose fieramente il Corrao di non esser venuti in Sicilia per ritornare indietro, e che avrebbero preferito consegnar la testa al carnefice, piuttosto che esular novamente: eran venuti per la rivoluzione e l’avrebbero fatta, tanto più che forse in quell’ora Garibaldi si apprestava a venire. Pilo abbracciò il compagno.
Ripreso il cammino, per dove passavano, convocavano i giovani, li esortavano a prendere le armi, insegnavano a costruire bombe; accendevan dovunque fiamme di libertà; e d’ogni cosa ragguagliavano con lettere ardentissime i fratelli Orlando, Garibaldi, Bertani, Fabrizi. Più s’avvicinavano a Palermo, e più visibili erano i segni della rivoluzione. Spediti messi sicuri al comitato di Palermo, e ricevuti soccorsi di denaro e promesse, Pilo convocò i principali e più vicini capi di squadriglie; e tosto convennero il La Porta, il Firmaturi, il barone di S. Anna, e poco dopo anche Pietro Lo Squiglio, già valoroso combattente in Palermo, e legionario siciliano in Lombardia nel 1848, scampato il 18 aprile al combattimento di Carini, serbato a più gloriosa morte dinanzi le mura di Palermo. Presi gli accordi e separatisi da quei capi, il Pilo, il Corrao e il Lo Squiglio qualche giorno dopo lasciarono Piana dei Greci, in tempo per sfuggire a una sorpresa. E difatti i cartelli sediziosi sparsi dal Comitato segreto di Palermo, nei quali si annunciava l’arrivo “dei prodi emigrati”; il ripreso coraggio dei “tristi”, come avvisava il luogotenente generale, che “si presentavano a una nuova riscossa”; le notizie delle spie, forse, avevano indotto il governo a ordinare l’occupazione di Piana dei Greci nella notte sopra il 25 aprile.
I tre valorosi, dopo una breve sosta al monastero di S. Martino, si ritirarono sull’altipiano dell’Inserra, che a cavallo di due vallate, dominava le strade e i sentieri, e offriva modo di scoprire ogni movimento delle truppe, e tenersi in facili comunicazioni coi comuni che maggior contributo avevano dato alla rivoluzione. Di là spedirono messi ai capi delle squadre, al comitato; rincorando i dubitosi, infondendo fiducia, promettendo il prossimo sbarco di due spedizioni una da Malta, l’altra da Genova con Garibaldi; le quali il Pilo, che vi credeva fermamente, sollecitava con lettere impetuose e forse esagerate.
Convocato un consiglio, deliberato di riorganizzare le disperse squadre per riprendere l’offensiva o almeno le molestie per stancar le truppe, Rosolino Pilo che aveva già sottoscritta una cambiale di sei mila lire, per aver danari, attese a eseguire quanto si era deliberato. Si stabilì il quartiere generale a Carini, non domata dagli incendi e dalle stragi delle truppe, generosa e pronta sempre; ed ivi si ordinò il corpo di operazione: Rosolino Pilo capo supremo, Corrao comandante di tutte le squadre, Pietro Tondù alla sopraintendenza, Giuseppe Bruno-Giordano all’ispezione dei corrieri e delle guide, Giovan Battista Marinuzzi ufficiale pagatore, i preti carinesi Calderone e Misseri, che si erano battuti in quei giorni, cappellani. Ogni paesetto dei dintorni mandò il suo contributo d’uomini e denari; Torretta quarantaquattro uomini e cento onze (1275 lire); Montelepre cinquanta uomini e cent’onze; quattrocento uomini i Colli di Palermo e Capaci; centocinquanta con la musica la Favarotta, cinquanta Tommaso Natale e Sferracavallo. Si aspettavano le ricostituite squadre di Partinico, Alcamo, Piana, Corleone, Misilmeri, Marineo. Corrao a mano a mano divideva queste forze in squadre di dieci uomini con un caporale; ogni dieci squadre formavano una centuria con un capo e un sotto capo.
Tra il maggio odoroso, e tra’colli e i giardini verdeggianti, il sole mirava quelle schiere esercitarsi alle prossime lotte. E intanto solcavano già il mar di Sicilia i due navigli che portavano Garibaldi e i Mille, la fortuna, la gloria della rivoluzione, l’unità della patria, il compimento di un sogno al quale, immolandosi, avevano aperta la via centinaia di martiri...


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. 
Il volume comprende: 
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 544 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria.