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venerdì 21 maggio 2021

Luigi Natoli: Ciò che dissero gli storici sulla morte dell'Eroe. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860

 
Con la morte di Pilo finisce l’azione autonoma delle squadre durata dal 5 aprile al 21 maggio: da questo momento esse seguono la fortuna dei Mille, e di loro gli storici non terranno parola, o forse per dileggiarle: dimenticando che senza di esse e senza la rivoluzione i Mille non avrebbero potuto fare un passo, e sarebbero rimasti vittime della loro audacia.
Ma che non dissero gli storici? Uno, più grave perché uso a non affermar nulla senza documentazione, non accolse come verità le fanfaronate di uno dei Mille, che fra le altre cose affermava che Palermo pareva una città di morti, e che i Garibaldini, il 27 maggio erano costretti a snidare i Palermitani “per far fare loro la rivoluzione?” 
Questi storici hanno anche un altro torto: quello di credere che la spedizione dei Mille sia tutta la rivoluzione siciliana; o che, forse, questa sia scoppiata per virtù di quella. Per cui essi, appena appena si degnano di dare uno sguardo all’episodio del 4 aprile, allo stato insurrezionale durato fino al 27 maggio, alla spedizione di Rosalino Pilo e di Giovanni Corrao; e pare non sospettino neppure che senza questa e quello, né Garibaldi né i Mille sarebbero salpati da Quarto.
Ora a tanti anni di distanza, quando i fatti storici si possono guardare con maggior serenità, e altri documenti son venuti in luce, è bene ristabilire la verità storica, senza esagerazioni, cadute ormai nel dominio dei luoghi comuni, e senza reticenze inutili. E appunto per questo non bisogna fondarsi unicamente sulle testimonianze raccolte da una parte sola: per quanto meritevoli di credito esse vanno riscontrate con altre testimonianze, e saggiate sulla pietra di paragone dei documenti. I Mille che seguirono Garibaldi sono veramente mille eroi, e l’impresa alla quale si accinsero, fu meravigliosa e miracolosa; ma per esser tali non è necessario tacere, travisare e qualche volta calunniare il potentissimo aiuto che direttamente e indirettamente ebbero in Sicilia dai Siciliani; non è necessario tacere l’efficacia risolutiva dello ambiente; giacchè è bene affermarlo ancora una volta e chiaramente, se la spedizione dei Mille non avesse trovato, neppure il solo concorso morale di tutto un popolo in rivoluzione (dico rivoluzione, non ribellione) Garibaldi e i Mille avrebbero incontrato la sorte dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane. Anzi, per rimanere in tema garibaldino, la campagna di Sicilia del 1860, non avrebbe avuto esito diverso della campagna dell’Agro Romano del 1867, che pure si compiè in condizioni numeriche e d’armamento superiori. Vincitori, anche, a Calatafimi, i Mille avreb­bero avuta a Palermo una Mentana assai più disastrosa.
Ora gli esperti di cose militari, che studiano le cose senza lirismo, hanno oramai riconosciuto che la marcia trionfale da Marsala a Palermo e le vittorie strepitose dei legionari, oltre che al valore di essi e all'azione dell’ambiente, si debbono anche agli errori innumerevoli e madornali del comando generale delle truppe borbo­niche; e questi errori madornali furono l’effetto della paura. Paura di combattere in un paese nemico in rivo­luzione; paura di vedersi assaliti da ogni parte dalla popolazione; paura di vedersi tagliate le comunicazioni e la ritirata; paura di mancare – come mancarono – ­di viveri, di ospedali, di medicine, di tutto.
Il che risulta dai documenti, che hanno maggior valore delle lettere di un esaltato…


Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento sicilianoRaccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:

Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931) 
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 575 – Prezzo di copertina € 24,00
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Luigi Natoli: Il 21 maggio 1860 muore il patriota Rosolino Pilo. Tratto da La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

 
Il 21 di maggio, mentre Garibaldi studiava la sua marcia strategica, le squadre di Pilo erano attaccate da tre forti colonne borboniche. I nostri non eran più di trecento cinquanta; i borbonici oltre un migliaio; ed eran padroni di alture. Corrao sosteneva il fuoco; ma il pericolo d'essere soverchiato era imminente; Pilo ac­corso con Calvino, salito, contro il consiglio di Corrao, in alto per vedere le posizioni, riconosciuto il pericolo pensò di rivolgersi a Garibaldi, per aver aiuti: Calvino e Corrao, stavano in basso; e voltavan le spalle al Pilo, che aveva con sè Andrea Soldano, di Lipari. 
Veramente, per accorrere in aiuto delle squadre, non era forse necessario domandarlo. Gli avamposti garibaldini si spingevano presso la Boarra, e, oltre la loro estrema punta, a Lenzitti era la squadra di Pietro Piediscalzi, attaccata anch'essa dai regi. Il combatti­mento dunque si svolgeva poco lontano. Nondimeno il Piediscalzi a Lenzitti, Pilo e Corrao alla Niviera furon lasciati soli, senza soccorso, a sostenere il fuoco dei regi, che movevano da Monreale e da Palermo. Era una necessità dolorosa, non un abbandono, badiamo; e la rilevo qui, perchè questo fatto d'arme, nel quale, con altri, lasciarono la vita Pietro Piediscalzi e Rosalino Pilo appaia veramente quello che fu: un olocausto, una immolazione per impedire che il campo garibaldino fosse assalito, e rendere possibile a Garibaldi la sua stra­tegica diversione. Rosalino Pilo fu colpito alla testa, mentre scriveva, in piedi, fra due rocce, appoggiando la carta sulle spalle del Soldano. Alle grida del quale accorsero il Corrao, il Calvino e altri, sollevarono il Pilo boccheggiante, e lo portarono nella casa della Neviera, d'onde poi l'abate Castelli, avvertito, lo fece di sera trasportare nel monastero di S. Martino. 
 La morte dell'eroe fu avvolta di tristi voci: la ver­sione più ovvia, più naturale, che egli sia stato ucciso da palla borbonica, (non essendo i regi, che eran ben armati, più lontani di 700 metri; ed avendo egli il capo scoperto); questa versione, che consacrava il suo mar­tirio, si è voluta scartare, e si cominciò col l'accusare di averlo ucciso a tradimento Giovanni Corrao, che invece – e risulta da testimonianze, – stava in basso col Calvino e volgendogli le spalle: e l’invereconda e infame accusa contro chi era stato il compagno, il fra­tello di Rosalino, e che pel coraggio leonino, per la fran­chezza, per tutta la sua vita, non avrebbe mai com­messa una viltà, aveva forse il fine partigiano e astioso di offuscare l'eroica figura del fiero popolano repubbli­cano, alla cui lealtà Garibaldi rese omaggio e allora e poi. 
Scartata, perchè bugiarda e ignominiosa, l’accusa contro il Corrao, si volle ucciso Rosalino Pilo ora da un Morrealese, or da uno di Capaci, e ora da uno di Carini: per quale insania, io non so; forse, per quelle stesse ragioni che dissero Carlo Mosto, une dei Mille caduto alla fazione di Parco, ucciso da uno di quei terrazzani; quando il Rivalta, che gli era vicino, lo vide morire per mano dei regi! Questa nostra rivoluzione era così incol­pevole, gli entusiasmi le davano tanta purezza, che occorreva forse gittare un'ombra oscura su quelle squa­dre e su quelle popolazioni, che pur davano il loro sangue, agevolavano e salvavano la marcia di Garibaldi. 
 Con la morte di Pilo finisce l’azione autonoma delle squadre durata dal 5 aprile al 21 maggio: da questo momento esse seguono la fortuna dei Mille, e di loro gli storici non terranno parola, o forse per dileggiarle: dimenticando che senza di esse e senza la rivoluzione i Mille non avrebbero potuto fare un passo, e sarebbero rimasti vittime della loro audacia. 



La rivoluzione siciliana nel 1860 fa parte di: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. Raccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931) 
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 575 – Prezzo di copertina € 24,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia) Contattaci alla mail ibuonicugini@libero.it o al whatsapp 3894697296
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mercoledì 12 maggio 2021

Luigi Natoli: Giuseppe Mazzini e gli esuli siciliani: "la salute dell'Italia è nel Sud". Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

 
V’era fra i nostri esuli il fior dell’ingegno, del sapere, del valore, del patriottismo di Sicilia; e molti illustravano la terra natale, o insegnando o nei civili negozi o con la virtù della vita austera, quali Francesco Ferrara, Emerico e Michele Amari. Francesco Paolo Perez, Michele Amari lo storico, Giuseppe La Farina, Filippo Cordova, Vincenzo Errante, Mariano Stabile, Ruggero Settimo, il marchese Torrearsa, Rosolino Pilo, Francesco Crispi, Giacinto Carini ed altri. Tra i quali alcuni conservavano il loro antico ideale della indipendenza di Sicilia e della confederazione degli stati italiani; altri affinando le menti e modificando i primi ideali di autonomia, venivano convertendosi all’idea unitaria di Giuseppe Mazzini; ma non tutti convenivano nei mezzi; giacché alcuni, stringendosi al Piemonte, aspettavano dalla diplomazia la libertà e unità della patria; altri invece, più schiettamente democratici, speravano nella pronta azione rivoluzionaria e seguivano il Mazzini. Tutti però cospiravano e corrispondevano coi patrioti dell’isola, concertando, incoraggiando, promettendo.
La polizia intercettava le lettere, sorprendeva i segreti, procedeva ad arresti: tuttavia la parola del grande Apostolo penetrava e costituendo nuovi centri della Giovine Italia, infiammava gli spiriti. Il prete Domenico Mastruzzi compose un fervido proclama, che venne in potere della polizia; onde egli fu preso, e martoriato dal tenente dei gendarmi De Simone, maestro di crudeltà; e mandato a giudizio con altri, ne avevano condanna ai ferri. Ciò non impedì che si costituisse un comitato centrale esecutivo, in relazione col comitato di Londra di cui era anima il Mazzini, e fedeli interpreti Francesco Crispi e Rosolino Pilo, infaticabili sempre; e coi comitati degli esuli di Genova, Marsiglia, Parigi e Malta: e già concertata ogni cosa per insorgere, si provvedevano i mezzi finanziari, quando per la troppa fiducia di uno dei cospiratori e di un prete, la polizia ebbe nelle mani le fila della vasta trama: il prete, un tal Papanno, ottuagenario, ne morì di cordoglio nelle prigioni, dove molti altri marcirono. Ma per venti cospiratori arrestati, altri cinquanta sorgevano a prenderne il posto; ché i processi mostruosi imbastiti su semplici indizi, e le prigionie crudeli e le torture non sgomentavano e non intiepidivano i cuori.
Le carte degli archivii contengono i nomi di questi generosi, molti dei quali noi conoscemmo vecchi, semplici e modesti, vivere dimenticati nell’ombra, senza vanterie e senza lamentele. Il governo di Sicilia mostravasene soddisfatto, ma non così da non riconoscere i pericoli dell’occulto lavoro delle associazioni segrete “conventicole tenebrose”, dice un documento ufficiale, “ove si temprano le armi per le rivoluzioni”. Le relazioni della luogotenenza al governo di Napoli sono in quegli anni piene di preoccupazioni, e rappresentano le varie provincie dell’isola, quale più, quale meno, in un perenne e pericoloso stato di agitazione latente: e difatti si costituivano qua e là comitati, e uno più numeroso in Palermo, con antichi e nuovi elementi: del quale faceva parte G. Vergara di Craco, Luigi La Porta, Salvatore Spinuzza, Francesco Bentivegna, Vittoriano Lentini, Enrico Amato, Pietro Lo Squiglio, Mario Emanuele di Villabianca; e molti altri; v’entravan pure i fratelli Sant’Anna, i fratelli Botta e di Termini il dottor Arrigo e Giuseppe Oddo, da Girgenti i fratelli Grammitto. Mazzini incorava con le sue lettere di fuoco; e l’opera di propaganda e di preparazione era andata così alacremente innanzi, che s’aspettava per insorgere l’invio di quattrocento uomini, dal Mazzini promessi per guidare la rivoluzione. 
Mentre la democrazia, animata dalla voce di Giuseppe Mazzini, fecondava col sangue la rivoluzione e cementava nell’unità ideale le genti d’Italia da secoli divise, la diplomazia piemontese andava sempre più stringendo legami con l’impero francese; e il Piccolo Corriere, giornale fondato e scritto da Giuseppe La Farina, messinese, esule, grande ingegno, ma fiero partigiano, da Mazzini passato a Cavour, cercando di convertire gli spiriti alla politica del Piemonte, diffondeva l’idea nazionale anche fra i timidi e gli irresoluti. 
L’inaspettato armistizio di Villafranca, voluto da Napoleone III, che temeva complicazioni a suo danno, arrestando il corso delle vittorie, e lasciando Venezia nelle mani dell’Austria, parve a tutti un tradimento, che ritardava il compimento dell’unità nazionale; e dissipando le speranze degli uomini d’azione, che avevano dato alla monarchia di Savoia il loro leale concorso, li persuase che nulla più era da aspettare dalla diplomazia, tutto invece dalla rivoluzione della Sicilia, alla quale i tempi erano già maturi. E questo riconoscevano anche gli uomini di parte più moderata: se non che il partito d’azione, ritornato al verbo di Giuseppe Mazzini, voleva far da sé, anche contro la monarchia di Piemonte; mentre quelli volevan sì la rivoluzione, ma di concerto e con l’aiuto del Piemonte. Comunque, gli sguardi d’ogni parte si volgevano in Sicilia, donde lo spirito profetico di Mazzini presentiva che sarebbe venuta la salvezza dell’ideale unitario.
“Salvo casi imprevisti – scriveva a Nino Bixio in quei giorni – avremo insurrezione siciliana; sarà regia, unitaria; abbandonarla, lasciarla sola contro le forze tutte del re, è un condannarla a essere schiacciata”; e nell’agosto dello stesso anno scriveva al Ricasoli: “otto o diecimila uomini e il nome di Garibaldi e il moto di Sicilia preparato da lunga mano sono l’insurrezione del regno. La salute d’Italia è nel Sud”. E ciò intendevano gli esuli siciliani o no, che a quelli del Maestro univano i loro incitamenti; e Rosolino Pilo e Francesco Crispi da Genova e Nicola Fabrizi e Giorgio Tamaio da Malta, spronavano questo o quel patriotta dell’isola, perché si affrettasse il lavoro dei comitati segreti. 



Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana del 1860. Narrazione. Fa parte di: 
Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano – Raccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931) 
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 575 – Prezzo di copertina € 24,00
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Luigi Natoli: Le squadre degli insorti siciliani nel 1860. Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

Con pari fortuna si combattè a Bagheria, dove due compagnie di linea, costrette a retrocedere dinanzi a quelle squadre, dovettero riparare e fortificarsi nella casina Inguaggiato; e strettamente assediate, sarebbero cadute, per fame, nelle mani degli insorti, se, dopo due giorni, non fosse in loro aiuto accorso il generale Sury con quattro compagnie, mezza batteria di cannoni, mezzo squadrone di cavalleria: i quali, saccheggiati e devastati i villaggi di Ficarazzi e Ficarazzelli, attaccati e respinti gli insorti, liberarono gli assediati, con cui ritornarono in Palermo. Ebbero per altro dieci uomini fuori combattimento. 
Rifulse in questo conflitto l’eroico valore di Andrea Coffaro e del figlio Giuseppe; i quali, ritiratisi e asserragliatisi in una casa, detta la torre di Ferrara, accerchiati dalla soldatesca, vi si difesero gagliardamente. Giuseppe, giovane ardimentoso, sdegnando combattere dietro i ripari, uscì all’aperto, e colto da una palla in fronte, cadde morto; Andrea, o non volendo più difendersi pel dolore della morte del figlio o per altre ragioni, cedette le armi, e fu trascinato a Palermo, dove lo aspettava crudeltà di fato.
L’insurrezione si allargava: Piana dei Greci, Corleone, Ciminna insorgevano, Termini fin dal 5 inalberava il vessillo tricolore, costringeva il presidio a richiudersi nel forte, costituiva un comitato e diffondeva emissari nel distretto: tutta la provincia era in fiamme, e le faville giungevano a Barcellona, a Messina, a Catania. Trapani, senza colpo ferire, innalzata la bandiera tricolore, e costituito un comitato, obbligava quell’Intendente marchese Stazzone a licenziare la polizia, facultare la formazione della guardia cittadina, liberare dal carcere il cav. Coppola, e far ritirare il presidio nel castello. Marsala insorgeva anch’essa e formava bande.
Il generale Salzano comandante delle armi in Sicilia, proclamava intanto lo stato d’assedio (4 aprile), istituiva il Consiglio di guerra, ordinava il disarmo, vietava il suono delle campane, e, poco dopo ne faceva togliere i batacchi; proibiva l’andare per le strade in compagnia, alloggiare in casa persone estranee. Il luogotenente generale Castelcicala, giunto il giorno dopo, approvava ogni cosa, e affidava la tutela dell’ordine al Salzano e al Maniscalco. Giungevano frattanto tre piroscafi con milizie novelle e farine e munizioni.
La sera del 7, o per delazione o per sospetti, il Maniscalco faceva arrestare i  giovani più attivi del comitato aristocratico, sorpresi in casa del duca Antonio Pignatelli di Monteleone. Erano oltre a quest’ultimo, il barone Riso, il cav. Notarbartolo di S. Giovanni, il principe di Giardinelli, unico superstite oggi di quel comitato, il duca di Cesarò. Il principe di Niscemi, che era con loro e non era stato arrestato, volendo dividerne la sorte, si accusò reo della stessa loro colpa, e porse le mani ai lacci: la polizia non lo scontentò e lo trasse con gli altri. Per maggior avvilimento, ammanettati come malfattori, fece loro attraversare a piedi tutto il Toledo, fino al forte di Castello a mare, circondati di birri. Il popolo salutò riverente e commosso il loro passaggio, compiangendo tanta bella giovinezza, della quale presagiva acerba sorte. Poco dopo, a bordo di una nave americana veniva arrestato il padre Lanza, e si mandava a Napoli, per arrestare il marchese di Rudinì, il quale però riusciva a fuggire per l’astuzia della marchesa Spedalotto.
Cinque bande d’insorti tenevano principalmente il campo, e contrastavano cotidianamente coi regi: quella di Alcamo comandata dai Sant’Anna, quella di Partinico con a capo Damiano e Tomaso Gianì, (questi ancor vive ottantenne) quella di Piana dei Greci capitanata da Pietro Piediscalzi e da Luigi Zalapì, quella di Corleone condotta dal marchese Firmaturi, alla quale si erano aggregati Domenico Corteggiani e Giovan Battista Marinuzzi; quella di Cerda e di Ciminna guidata da Luigi La Porta. V’erano inoltre le squadre della contrada dei Colli, di Carini, Cinisi, Torretta, a capo delle quali erano il d’Ischia, il Bruno-Giordano. Pietro Tondù, i due fratelli Ajello, il padre Messeri, i fratelli De Benedetto.
Le squadre di Carini, di Cinisi, dei Colli, dopo i combattimenti di San Lorenzo si erano ritirate sull’Inserra; quella di Partinico unitasi con quella d’Alcamo, errava sui monti sopra Monreale; quella di Piana, dopo gli scontri sostenuti, si era ritirata a Piana per rinforzarsi, ed ivi infatti era stata raggiunta dalla squadra di Corleone e da molti animosi dei comuni vicini; coi quali, ripresa l’offensiva, sollevati Misilmeri e Belmonte aveva rioccupato il convento di Gibilrossa.
Contro queste squadriglie, che formavano un semicerchio intorno alla città, molestando continuamente gli avamposti e le pattuglie e i piccoli distaccamenti, il governo dell’isola, sollecitato da quello di Napoli e più propriamente dal re, spedì alcune forti colonne mobili. Al generale Cataldo fu assegnato il compito di sloggiare gl’insorti da Gibilrossa, occupare Villabate, Misilmeri, Marineo, spingersi sopra Piana dei Greci, S. Giuseppe delle Mortelle e fermarsi a Partinico. Al maggiore Bosco e al maggiore Morgante, era dato incarico di osteggiare le squadriglie tra Monreale e Boccadifalco; mentre altra colonna sotto gli ordini del tenente colonnello Torrebruna doveva spazzare le campagne dei Colli, fino a Carini. La colonna Cataldo si mosse l’11 di aprile; ma senza mai venire a una vera e propria fazione. Si capì che la tattica delle squadre, era “di non farsi raggiungere mai dalle regie truppe, a solo fine di stancarle, protrarre l’agitazione, e ritardare... il ristabilimento dell’ordine”. Per il che, a troncar una guerra faticosa e senza risultati, il re di Napoli mandava segrete istruzioni per la distruzione delle bande, con la forza da una parte, con gli indulti e spargendo la diffidenza e il tradimento, dall’altra.
Il comando militare, quindi, concertata un’azione simultanea delle varie colonne mobili, diede ordini di assalire gli insorti, che, indietreggiando dinanzi al soverchiare dei regi, si concentravano a Carini. La colonna Cataldo movendo da Partinico, quella del Bosco per Torretta e Montelepre, quella del Torrebruna, rinforzata da altre milizie per la via di Capaci dovevano prendere in un cerchio le squadre. Il 18 infatti gli insorti sono assaliti; si combatte accanitamente per parecchie ore tra forze ineguali: Carini vien presa dai regi del Cataldo, che si abbandonano al saccheggio e alla carneficina. Ma il movimento aggirante, per imperizia del Torrebruna, e per non essere arrivata in tempo un’altra colonna col tenente colonnello Perrone, non riesce: gl’insorti giungono ad aprirsi un varco e a ritirarsi sulle montagne, sebbene fulminati dai borbonici. Gl’incendi, le stragi di Carini indegnarono anche il re, che censurò vivamente la indisciplinatezza e la barbarie delle truppe; segnarono un altro debito verso la vendetta popolare.
Dopo la presa di Carini, i comuni dei dintorni di Palermo ritornarono all’obbedienza; e la più parte degli uomini delle squadre, disanimati da una guerra senza speranza di vittoria, non vedendo giungere gli aiuti che erano stati promessi, non sorretti dalla fede nell’idea dell’unità che essi non capivano, adescati dall’indulto, gittavan le armi e ritornavano sottomessi nelle loro case. La causa della rivoluzione pareva perduta; quando il 20, Rosolino Pilo e Giovanni Corrao giungevano a Piana dei Greci, e con le rinate speranze riaccendevano il fuoco, non ancor domo. Pietro Piediscalzi, infaticabile, ardente, si unì tosto con loro e ricostituì la squadra, che poi tenne, fino alla morte, ai suoi ordini, pagandola del suo.
Spediti messi sicuri al comitato di Palermo, e ricevuti soccorsi di denaro e promesse, Pilo convocò i principali e più vicini capi di squadriglie; e tosto convennero il La Porta, il Firmaturi, il barone di S. Anna, e poco dopo anche Pietro Lo Squiglio, già valoroso combattente in Palermo, e legionario siciliano in Lombardia nel 1848, scampato il 18 aprile al combattimento di Carini, serbato a più gloriosa morte dinanzi le mura di Palermo. Presi gli accordi e separatisi da quei capi, il Pilo, il Corrao e il Lo Squiglio qualche giorno dopo lasciarono Piana dei Greci, in tempo per sfuggire a una sorpresa...




Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana del 1860. Narrazione. Fa parte di: 
Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano – Raccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931) 
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 575 – Prezzo di copertina € 24,00
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martedì 11 maggio 2021

Luigi Natoli: Fervono i preparativi... Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione.

Nei primi di aprile, cedendo alle sollecitazioni di Bertani e di Crispi, cui Rosolino Pilo aveva commesso di far anche le sue parti, da Torino Garibaldi veniva a Genova, per ordinarvi la spedizione; e dalle finestre del palazzo Coltelletti rivolgeva magnanime parole alla folla plaudente: ma la mancanza delle notizie promesse da Pilo gli tormentava l’anima di dubbi; e le notizie dei giornali sulla rivoluzione siciliana erano così contraddittorie e sconfortanti, che Garibaldi, ripugnandogli avventurare centinaia di vite umane in una impresa disgraziata, reputò come immatura la spedizione. Nondimeno Bertani, Crispi, i fratelli Orlando, La Masa e gli altri esuli di maggior conto non gli davano tregua. Ma fra tanto il 20 giunsero le lettere inviate da Pilo il 12 di aprile agli Orlando, a Bertani, a Crispi e allo stesso Garibaldi, per mezzo del pilota Raffaele Motto.
Il Motto, condotto a Villa Spinola presso Quarto, dove Garibaldi alloggiava, data la lettera al Generale, alle sue domande, rispondeva essere Pilo e Corrao partiti da Messina per Palermo, sollevando le popolazioni; la rivoluzione essere scoppiata in quelle vicinanze, e aggiungeva: – “Generale, ci vuole il vostro nome e il vostro braccio, altrimenti in Sicilia saranno tutti sacrificati”.
Garibaldi rimase un po’cogitabondo, poi domandò notizie sulle coste dell’isola, e il Motto suggerì che le migliori condizioni per uno sbarco si sarebbero trovate a Trapani, e questo era anche il parere di Corrao.
Il Generale risolvette allora di non più indugiare; e fissato il giorno della spedizione pel 25 di aprile, il Crispi ne informava subito Rosolino Pilo: ma sopraggiunte altre lettere del Pilo a Garibaldi, che si riserbavano di indicare il punto preciso dello sbarco, la partenza fu rimandata ancora una volta.
La notte del 29 giunse un altro telegramma del Fabrizi, che più esattamente diceva repressa l’insurrezione in Palermo, ma viva ancora nelle provincie: e giungevano anche altre lettere e dispacci, che, esagerando forse di proposito, affermavano Pilo a capo di un esercito, e l’isola in fiamme. Questi dispacci e quello di Fabrizi, le lettere di Rosolino Pilo e la risolutezza degli esuli siciliani, la fede e la tenacia di Francesco Crispi e di Giuseppe La Masa, vinsero qualunque altro dubbio nell’animo di Garibaldi: e la spedizione, due volte sospesa e rimandata, fu definitivamente decisa. “Partiamo” – egli disse; – “purché sia domani”.
Si è esagerata da alcuni la partecipazione del governo piemontese alla spedizione di Garibaldi; da altri si è negata: la verità è che Cavour aveva da prima anche esso parteggiato per una spedizione nell’isola, nel caso vi fosse scoppiata una rivoluzione; ma voleva farla con truppe regie; e in marzo ne aveva fatto parlare al generale Ribotti, che, per essere stato ai servizi della Sicilia nel 1848, pareva l’uomo acconcio. Ma indi, spaventato dalle conseguenze diplomatiche, non ci pensò altro. Una intesa c’era invece tra Garibaldi e Vittorio Emanuele, al quale Garibaldi aveva chiesto se gli avesse conceduto una brigata di truppe scelte per andare in Sicilia, e ne aveva anche parlato al generale Sacchi antico suo commilitone di Montevideo. Il re sarebbe stato favorevole, ma ne fu dissuaso dal Cavour; il quale, temendo la Francia e possibili complicazioni; non entusiasta di Garibaldi, non fiducioso nel leale concorso di Mazzini; avversario per istinto di razza, per educazione, per ufficio delle rivoluzioni di popolo; pavido che la spedizione, sebbene fatta in nome di Vittorio Emanuele, tendesse a repubblica, si ritrasse; non nascose la sua avversione, e pur non impedendo, come avrebbe potuto, i concerti, gli arruolamenti e tutti i preparativi, fece sequestrare le armi della Società nazionale, che dovevano servire alla liberazione e all’unificazione della patria. 
Fissata la spedizione, la febbre accese tutte le vene. Garibaldi corse a Genova, e fatto chiamare il Fauchè, gerente della Società Rubattino, col quale già fin dal 9 aprile si era inteso, concertò per la cessione dei due piroscafi, il Lombardo e il Piemonte, incaricando Bixio di ogni cosa. Villa Spanola a Quarto diventò il quartiere generale della spedizione. Il Bertani, Crispi, Bixio, si moltiplicavano. Dalla Lombardia, dal Veneto, dalla Liguria; da ogni regione d’Italia accorrevano volontari: i più non superavano il venticinquesimo anno; v’erano dei giovani quindicenni, uno di undici anni; cinque soltanto oltrepassavano i sessanta: la più parte benestanti o impiegati o professionisti; in minor numero, di popolo. Non avevan vestiti uniformi; pochi indossavano camicie rosse; Sirtori e Crispi vestivan di nero con cappello a cilindro, Bixio portava la divisa dell’esercito piemontese; gli altri giacche, giubbe, camiciotti, colori e forme disparate, armi pochissime: e queste, date dal La Farina per le sollecitazioni di Crispi e degli altri esuli, erano un mille fucili e munizioni, che caricati in barche dovevano aspettare i due piroscafi al largo. 
La sera del 5 maggio, con simulata violenza, Bixio prese possesso dei due piroscafi, e li condusse a Quarto. Garibaldi, per mettere al sicuro la responsabilità del Fauchè, scrisse una lettera ai direttori della società Rubattino, promettendo rifarli dei danni; ma la Società poco dopo punì il gerente, destituendolo; né più volle riammetterlo in servizio, reo di aver favorito la più grande e meravigliosa impresa dei nostri tempi. 



Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana del 1860. Narrazione. Fa parte di: 
Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano – Raccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931) 
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 575 – Prezzo di copertina € 24,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (Consegne a mezzo corriere in tutta Italia) Invia un messaggio al whatsapp 3894697296 o alla mail ibuonicugini@libero.it
On line su Amazon, Ibs e tutti gli store 
In libreria a Palermo presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Zacco (Corso Vittorio Emanuele), Nuova Ipsa editore (Piazza Leoni), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15)

Luigi Natoli: La missione di Pilo e Corrao e le lettere a Garibaldi. Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

Il Pilo e il Corrao veduto qualcuno del comitato messinese, sbarcate e nascoste le poche armi in luogo sicuro, raccolte notizie da Catania e dai dintorni, mossero alla volta di Palermo. Ma prima ragguagliarono d’ogni cosa i fratelli Orlando, che erano stati fra’più ferventi e operosi nell’aiutare e favorire l’impresa: ed erano autorevoli per integrità di carattere, bontà di costume, fede sincera e disinteressato patriottismo: e pregandoli di adoperarsi, perché non venissero meno gli aiuti dei fratelli della penisola, il Pilo, affermando “venuto il tempo d’essere audaci” aggiungeva: “Io sarò felice di poter dare tutto il mio sangue all’Italia nostra”. Scrisse anche a Garibaldi e a Bertani, e le lettere affidò al pilota Motto, pregandolo di salpar subito per recapitarle.
Pilo e Corrao partirono il 12 aprile in pellegrinaggio di propaganda, non temendo le compagnie d’armi e le colonne mobili e i birri, che la polizia avvertita del loro sbarco, avrebbe sguinzagliato sulle loro tracce. La polizia già da qualche tempo innanzi era stata avvisata dai suoi agenti; e sul finire del ‘59 il luogotenente generale aveva scritto al sotto-intendente di Termini, di un prossimo sbarco del “noto agente mazziniano Rosolino Pilo associato a uno dei fratelli Orlando”. Non di meno nulla seppe per allora dell’avvenuto sbarco, e i due audaci poteron procedere indisturbati nel loro cammino. A Barcellona un vecchio liberale, pauroso degli apparati del governo, li consigliò di non proseguire, comunicando che la rivoluzione di Palermo era fallita: rispose fieramente il Corrao di non esser venuti in Sicilia per ritornare indietro, e che avrebbero preferito consegnar la testa al carnefice, piuttosto che esular novamente: eran venuti per la rivoluzione e l’avrebbero fatta, tanto più che forse in quell’ora Garibaldi si apprestava a venire. Pilo abbracciò il compagno. 
Ripreso il cammino, per dove passavano, convocavano i giovani, li esortavano a prendere le armi, insegnavano a costruire bombe; accendevan dovunque fiamme di libertà; e d’ogni cosa ragguagliavano con lettere ardentissime i fratelli Orlando, Garibaldi, Bertani, Fabrizi. Più s’avvicinavano a Palermo, e più visibili erano i segni della rivoluzione. Spediti messi sicuri al comitato di Palermo, e ricevuti soccorsi di denaro e promesse, Pilo convocò i principali e più vicini capi di squadriglie; e tosto convennero il La Porta, il Firmaturi, il barone di S. Anna, e poco dopo anche Pietro Lo Squiglio, già valoroso combattente in Palermo, e legionario siciliano in Lombardia nel 1848, scampato il 18 aprile al combattimento di Carini, serbato a più gloriosa morte dinanzi le mura di Palermo. Presi gli accordi e separatisi da quei capi, il Pilo, il Corrao e il Lo Squiglio qualche giorno dopo lasciarono Piana dei Greci, in tempo per sfuggire a una sorpresa. E difatti i cartelli sediziosi sparsi dal Comitato segreto di Palermo, nei quali si annunciava l’arrivo “dei prodi emigrati”; il ripreso coraggio dei “tristi”, come avvisava il luogotenente generale, che “si presentavano a una nuova riscossa”; le notizie delle spie, forse, avevano indotto il governo a ordinare l’occupazione di Piana dei Greci nella notte sopra il 25 aprile.
I tre valorosi, dopo una breve sosta al monastero di S. Martino, si ritirarono sull’altipiano dell’Inserra, che a cavallo di due vallate, dominava le strade e i sentieri, e offriva modo di scoprire ogni movimento delle truppe, e tenersi in facili comunicazioni coi comuni che maggior contributo avevano dato alla rivoluzione. Di là spedirono messi ai capi delle squadre, al comitato; rincorando i dubitosi, infondendo fiducia, promettendo il prossimo sbarco di due spedizioni una da Malta, l’altra da Genova con Garibaldi; le quali il Pilo, che vi credeva fermamente, sollecitava con lettere impetuose e forse esagerate.
Convocato un consiglio, deliberato di riorganizzare le disperse squadre per riprendere l’offensiva o almeno le molestie per stancar le truppe, Rosolino Pilo che aveva già sottoscritta una cambiale di sei mila lire, per aver danari, attese a eseguire quanto si era deliberato. Si stabilì il quartiere generale a Carini, non domata dagli incendi e dalle stragi delle truppe, generosa e pronta sempre; ed ivi si ordinò il corpo di operazione: Rosolino Pilo capo supremo, Corrao comandante di tutte le squadre, Pietro Tondù alla sopraintendenza, Giuseppe Bruno-Giordano all’ispezione dei corrieri e delle guide, Giovan Battista Marinuzzi ufficiale pagatore, i preti carinesi Calderone e Misseri, che si erano battuti in quei giorni, cappellani. Ogni paesetto dei dintorni mandò il suo contributo d’uomini e denari; Torretta quarantaquattro uomini e cento onze (1275 lire); Montelepre cinquanta uomini e cent’onze; quattrocento uomini i Colli di Palermo e Capaci; centocinquanta con la musica la Favarotta, cinquanta Tommaso Natale e Sferracavallo. Si aspettavano le ricostituite squadre di Partinico, Alcamo, Piana, Corleone, Misilmeri, Marineo. Corrao a mano a mano divideva queste forze in squadre di dieci uomini con un caporale; ogni dieci squadre formavano una centuria con un capo e un sotto capo. 
Tra il maggio odoroso, e tra’colli e i giardini verdeggianti, il sole mirava quelle schiere esercitarsi alle prossime lotte. E intanto solcavano già il mar di Sicilia i due navigli che portavano Garibaldi e i Mille, la fortuna, la gloria della rivoluzione, l’unità della patria, il compimento di un sogno al quale, immolandosi, avevano aperta la via centinaia di martiri...



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Luigi Natoli: I precursori dei Mille. Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

Fin dal novembre del 1848, da Malta, Giovanni Corrao aveva scritto a Rosolino Pilo, proponendogli di accompagnarsi a lui per uno sbarco nell’isola, ad accendervi e capitanarvi la rivoluzione. Tutti e due repubblicani e mazziniani, esuli, noti per la parte presa nella rivoluzione del 1848, prodi, audaci, fervidi nel cospirare, pronti nell’agire, fidenti l’un dall’altro, si intesero. 
Rosolino Pilo e Gioeni, dei conti di Capaci, biondo e bello e di gentile aspetto, cuor di leone in gracile petto, aveva sempre caldeggiato una spedizione in Sicilia, o per lo meno in qualche parte del regno di Napoli; e d’accordo con Mazzini, aveva sul proposito da Londra, da Genova, da Malta, spronato con lettere i patriotti dell’isola. A Genova, come narrammo, aveva già fin dal 1855 concertato con gli altri esuli e con Garibaldi uno sbarco in Sicilia, che la timidezza o se vuolsi la prudenza di molti non fece mandare a effetto: onde, accolto con calore il disegno di Carlo Pisacane, gli si era fatto compagno, e gli era stato valido aiuto nella preparazione. Ma, per colpa non sua, gli era fallito accompagnarlo nella spedizione finita così tragicamente a Sapri: forse perché il fato riserbavagli morire nella terra natale, sotto il sole che lo scaldò giovinetto. Costretto a fuggire in Malta, perché temuto dal governo piemontese come pericoloso mazziniano, e poi a Londra, s’era dato a concertare col Mazzini, col Crispi e con altri di parte democratica i mezzi per promuovere l’insurrezione siciliana. 

Giovanni Corrao, popolano, nerissimo di capelli e di barba, volto tagliente e fiero; rude, incolto; coraggio senza pari, risolutezza ignara di indugi, aveva durante la rivoluzione del 1848 meritato onorevole decreto dal Parlamento siciliano. Esule dopo la caduta di Palermo, ritornato poco dopo illuso, come il Garzilli, che si potesse ritentare una insurrezione, era stato arrestato e relegato in Ustica; donde, dopo un tentativo fallito di evasione, fu trasportato in Messina. Ed ivi aveva languito fino al 1855, quando liberato ed espulso aveva ripreso la via dell’esilio e delle cospirazioni. 
Tra gli uomini e per sommi capi le loro vicende, allor che il comune intento e la medesima fede li riavvicinava. Ma la guerra del ’59 rallentò le loro trattative; perché, sebbene non credessero alla sincerità di Napoleone III, né avessero fede nella politica di Cavour, che non pareva a loro veramente unitaria, tuttavia non poteron distogliere le forze vive della rivoluzione attratte dalla guerra contro lo straniero; e bisognò aspettare il momento più convenevole. Terminata la guerra col trattato di Villafranca, ripresero con maggior vigore, e affrettarono il lavoro della cospirazione. Dicemmo già come le speranze della democrazia unitaria si fondassero nella rivoluzione della Sicilia, e come a promoverla si adoperassero gli esuli più attivi; narrammo anche del viaggio di Francesco Crispi e dei piani e dei mezzi per insorgere; e come per l’arresto di alcuni dei capi, la fuga di altri, la tiepidezza degli elementi moderati, gli indugi, ogni cosa finisse col tentativo infruttuoso di Giuseppe Campo. 
L’insuccesso del quale non disanimò Rosolino Pilo, che, temendo le conseguenze del Congresso della diplomazia europea adunata a Parigi, incitava gli amici di Sicilia a non perder la fede. “La Sicilia, – scriveva sul cadere del ’59, – insorgendo ora o meglio prima che il Congresso sacrifichi la nostra Italia come nel 1815, può salvare se stessa e 23 milioni di fratelli... Animo, decidetevi e fate che la Sicilia, la quale è sempre stata la terra delle generose e grandi iniziative, non venga meno a se stessa e all’Italia”. 
Incalzando gli avvenimenti, e stimandosi prossima la insurrezione di Palermo, Rosolino Pilo chiese a Garibaldi armi, munizioni e denaro, per correre in Sicilia e mettersi alla testa del movimento; sperando che il Comitato nazionale pel Milione di fucili, avrebbe fornito ogni cosa; che a lui si sarebbero associati Nino Bixio e Giacomo Medici; e che Garibaldi, cui facevano capo gli esuli siciliani, a un avviso, sarebbe corso in Sicilia, come aveva promesso. Ma Garibaldi, non credendo maturi i tempi, lo dissuase. La sua lettera è del 15 marzo 1860. Rosolino Pilo non ebbe nulla dal Comitato, né un fucile né un soldo; e non ebbe il concorso degli amici: ebbe invece lettere da Palermo che l’avvertivano tutto esser pronto. E il 26 marzo egli e Giovanni Corrao, soli, senz’altre armi che le loro rivoltelle, delle bombe tascabili e pochi fucili; con poco denaro fornito da Mazzini e dagli Orlando; soli col loro coraggio, con la loro fede, con la virtù del sacrificio; nella paranza di Silvestro Palmarini, pilota Raffaele Motto, salparono argonauti della libertà, da Genova, affrontarono le tempeste del Tirreno, videro la piccola nave minacciata, rischiarono di cadere su le spiagge napoletane; stettero quindici giorni tra cielo e mare con la morte sospesa sopra di loro. Rosalia Montmasson moglie di F. Crispi, era andata in Messina prima di loro, per avvertire e concertare con gli Agresta ogni cosa per lo sbarco; ma per ragione delle tempeste, sbarcati con grande ritardo, il 10 di aprile, a Grotte sul lido messinese non vi trovarono chi secondo il convenuto doveva aspettarli. Videro però i cannoni regi della cittadella bombardare Messina...



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