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mercoledì 30 novembre 2016

Luigi Natoli: La Costituzione siciliana del 1812 e il Congresso di Vienna.


La nuova Costituzione, sanzionata dal Re nel febbraio del 1813, dopo affermata che religione di Stato era cattolica, distingueva i tre poteri: il legislativo, esercitato esclusivamente dal Parlamento, l’esecutivo dal Re per mezzo dei ministri, il giudiziario indipendente dall’uno e dall’altro. Il Parlamento era composto di due Camere, quella dei Pari e quella dei Comuni: quella dei Pari era formata di centottantacinque deputati, di cui sessantuno spirituali; quella dei Comuni di centocinquantaquattro deputati eletti dai collegi, e non vi potevano avere voto gli analfabeti. Il Re aveva facoltà di convocare o di sciogliere il Parlamento, però doveva convocarlo ogni anno. La successione era regolata secondo la legge salica.
La stampa libera, salvo che in materia religiosa doveva ottenere il permesso dell’autorità ecclesiastica. Aboliti i feudi e le angherie introdotte d’autorità dai feudatari, gli usi civici introdotti dai Comuni e dai privati; riformato il codice penale e la relativa procedura, e questi scritti in italiano: abolita la tortura, riordinata la magistratura, creata una corte d’Appello una Cassazione, abolite le dogane interne, ecc. Ma due cose vogliamo rilevare particolarmente, perché in appresso diventano oggetto di controversia insanabile: il divieto di tenere in Sicilia le milizie napoletane e straniere senza consenso del Parlamento, e all’art. 8 l’aggiunta che, se il Re avesse riconquistato il regno di Napoli, doveva mandare o lasciare in Sicilia il suo primogenito, cedendogliene “il regno indipendente da quello di Napoli o da qualunque altro in provincia”. Il che era sanzionato dal Re col decreto del 25 maggio 1813, ed era patto fondamentale, che giustificò le rivoluzioni di poi. Comunque era questo il primo statuto costituzionale che appariva in Italia.
Così stavano le cose quando a un tratto, il 9 marzo, il Re, per suggerimento della Regina, lasciata la Ficuzza, comparve alla Favorita, per rientrare in Palermo, e riprendere il potere.
La caduta di Napoleone mutava l’indirizzo della politica generale. Lord Bentik fu richiamato in Inghilterra.
Si apriva intanto il Congresso di Vienna: il principe di Belmonte, temendo per la Costituzione, partì per perorare la causa siciliana, ma a Parigi morì. E in quel momento fu una grave perdita, perché la Sicilia non venne difesa a quel Congresso. Il 18 luglio il Re mutato il Ministaro riaprì il Parlamento; Ministero e Pari si unirono per domandare al Re lo scioglimento della Camera dei Comuni: l’ottennero, e furono eletti deputati reazionari. Nulla fece la nuova Camera, destinata a seppellire senza onori la Costituzione.
Gli avvenimenti europei incalzavano; la fuga di Napoleone dall’isola d’Elba, i Cento giorni, Waterloo, la caduta irreparabile del Colosso, si succedettero rapidamente. I vecchi governi assoluti, liberi oramai da ogni minaccia, si posero a rifare la carta d’Europa, illudendosi di cancellare quelle che erano le conquiste della coscienza civile. Ferdinando, prevedendo la catastrofe, il 30 aprile 1815 convocato il Parlamento e pronunciatovi un discorso minaccioso per la Costituzione, fece votare considerevoli somme per una spedizione nel Napoletano. Indi, prorogato sine die il Parlamento, sciolta la Camera, nominato il principe ereditario luogotenente generale, partì dalla Sicilia ed entrò in Napoli il 4 giugno. Nello stesso tempo scelse una commissione di diciotto membri, alla quale diede nuove istruzioni in trenta articoli, per riformare la Costituzione. Cominciarono i decreti di unificazione, che mostrarono chiaramente a che cosa il Re mirasse. Allora si ricorse alla protezione inglese. Qui apparve quanto sia illusorio e pericoloso fidare nella protezione degli stranieri, e quanta ironica sia la loro amicizia. Caduto Napoleone, il Gabinetto inglese non aveva più bisogno della Sicilia e di essa si disinteressò completamente.
Il Congresso di Vienna intanto riconfermava Ferdinando “Re del Regno delle due Sicilia”, ed egli col decreto dell’8 dicembre 1816 unificava i due regni in uno solo, e prendeva nome Ferdinando I. Egli era logico, e capiva che non poteva essere re assoluto in Napoli e costituzionale in Sicilia. Ma i Siciliani che per dieci anni lo avevano alloggiato e mantenuto, videro che erano spogliati dei loro diritti, per fare della Sicilia una provincia.
Ferdinando, col decreto del 14 ottobre, divise la Sicilia in sette provincie, e tolse ogni privilegio che aveva questa o quella città, volle amministrata ogni provincia da un intendente che corrisponderebbe al nostro prefetto, con un consiglio di cinque membri; suddivise ogni provincia in distretti con a capo un sotto-intendente; ogni comune, aboliti i consigli civici, era amministrato da un decurionato, da un sindaco e da due eletti, eccettuate Palermo, Messina e Catania, che conservarono ancora il loro senato, oltre i decurioni. Tutti questi funzionari erano di nomina regia.
La rivoluzione del 1812 era stata parlamentare e aristocratica, perché vi mancò il concorso di una borghesia fortemente organizzata: le classi medie, che v’entrarono per rappresentare i Comuni, non costituirono una maggioranza; parte, per ragioni di clientela, seguì il baronaggio, parte per combatterlo si appoggiò alla Corte. Il popolo vi fu estraneo. Le maestranze avevano coscienza di corporazioni gelose dei propri privilegi, non visione politica: il solo punto in cui s’incontravano con la borghesia era l’indipendenza dell’Isola, per forza di tradizione.
Tuttavia, qualcosa era penetrata negli animi...
 
 
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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Un salto indietro nel tempo: il principe di Castelnuovo, Carlo Cottone e il principe di Belmonte, Giuseppe Ventimiglia.


Il Regno era afflitto da mali che derivavano dalla vecchiezza della sua costituzione, e così costituito com’era, il Parlamento nulla poteva per rimediare a tanti mali. Le sue attribuzioni erano limitate a votare i donativi e a domandar per grazia al Re, ciò che avrebbe dovuto esser suo diritto deliberare, e che poteva essere, e spesso gli era negato. Per queste e per altre ragioni, tra il ceto dei nobili e dei curiali che ambivano cose nuove per risollevare le popolazioni, s’era venuta formando una corrente contraria alla Corte, alla quale dava fomite la condotta di Maria Carolina, nemica dei Siciliani, che pur le fornivano i mezzi per essere ancora regina. Si aggiunga lo sperpero che la Corte faceva del denaro pubblico, e l’avere preso denaro dal Banco di Palermo e dal Monte di Pietà, per cui un conflitto era inevitabile. Ma tra la Corte e il Parlamento c’era questa volta l’Inghilterra.
La Sicilia per quanto esausta aveva già fatto un grande sforzo per offrire le somme richieste dal Re, quando il 15 febbraio 1810 fu convocato il Parlamento. A capo dell’opposizione era Carlo Cottone, principe di Castelnuovo, carattere adamantino, e il suo nipote Giuseppe Ventimiglia, principe di Belmonte, giovane d’ingegno, nutrito di studi, ricco di conoscenze apprese nei viaggi, eloquente, orgoglioso. Il braccio feudale si oppose alle richieste del Re, e il principe di Belmonte propose una riforma tributaria suggerita dall’economista Paolo Balsamo; di abolire cioè i donativi, fare un nuovo catasto, e imporre una tassa unica del 5 per cento su tutte le proprietà feudali e allodiali; e un’altra tassa minima sui consumi, sui cavalli di lusso, ecc. abolendo quella odiosa sul macinato. Questa proposta, non ostante i raggiri della Corte, fu approvata; ma la Corte, che potè aver solo i donativi ordinari, ne ebbe gran dispetto. Il Re, per consiglio di una Giunta, sanzionò gli atti, rimandando ad altro Parlamento la rettifica delle imposte, indi mutò il ministero, nominandovi persone avverse alla Sicilia e alle sue istituzioni, e riconvocato il Parlamento, con un decreto del 14 febbraio 1811, imponeva una tassa dell’un per cento su tutti i pagamenti e anche su tutti i passaggi di Banco. Ottenne anche il donativo di altre 150.000 onze. Questa era una violazione delle leggi fondamentali del Regno, per le quali soltanto il Parlamento aveva potestà di imporre tasse e balzelli. Insorgendo contro questa violazione, quarantatrè baroni rivolsero una rimostranza alla Deputazione del Regno, cui spettava la tutela e la difesa delle leggi patrie. Il Re naturalmente domandò alla Deputazione il suo parere, e questa dichiarò servilmente che l’imposta non ledeva i Capitoli del Regno. Forte di questo parere, la Regina per vendicarsi della resistenza dei baroni, ottenne in Consiglio di Stato che almeno i cinque ritenuti capi, fossero la stessa notte, che fu il 19 luglio, arrestati, ed essi sorpresi dalle milizie, furono imbarcati sul Tartaro. Questi furono i principi di Belmonte, di Castelnuovo, di Villafranca, di Aci e il duca d’Angiò. I primi due furono sbarcati a Favignana, il Villafranca a Pantelleria, l’Aci a Ustica, l’ultimo a Marettimo: tutti furon chiusi nei forti delle isole come perturbatori. Nel Consiglio qualcuno aveva proposto la morte.
Il giorno dopo giungeva a Palermo il nuovo ministro plenipotenziario inglese, lord Bentik, nominato anche comandante delle truppe d’occupazione, che prese apertamente la difesa dei Siciliani, e fattosi forte per l’appoggio di Londra e con la forza di quattordicimila uomini, impose l’abolizione della tassa dell’un per cento, il richiamo dei baroni e l’allontanamento della Regina dal governo. Allora il Re, eletto Vicario generale il principe ereditario Francesco, si ritirò nel suo parco della Ficuzza; il principe Vicario fece tutto quello che volle lord Bentik e che era conforme alla legge.
Nella foto: Il principe di Belmonte, Giuseppe Ventimiglia.

 
Luigi Natoli: premessa storica di Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano tratta da Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo e pubblicata in anteprima al volume per maggiore chiarezza del lettore.
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mercoledì 23 novembre 2016

Lapide posta in memoria di Francesco Paolo Di Blasi giustiziato in piazza Indipendenza a Palermo.




Luigi Natoli: Francesco di Blasi predecessore del Risorgimento siciliano. Un salto indietro nella storia.


Scoppiava la rivoluzione francese, che scuoteva dai cardini gli ordinamenti ancora medioevali della società, e gettava le fondamenta di un nuovo diritto pubblico. Le monarchie ne erano sgomente. La Corte di Napoli, assolutista, arrestò quel moto di riforme, che lentamente andava rinnovando lo Stato, più e meglio in Napoli, che in Sicilia, dove ostava la tenace resistenza dell’istituto parlamentare. La politica estera ondeggiò fra le paure, e le incertezze: si temettero moti interni; ogni aspirazione liberale fu detta giacobinismo; il sospetto guidò gli atti a una reazione. Tre giovani furono nel 1793 impiccati a Napoli, non rei che di innocua simpatia; ma più serio pericolo provocarono in Palermo altre condanne.
Già erano entrate le dottrine rivoluzionarie con la massoneria che aveva logge in Palermo, in Messina, in Catania, in Siracusa e nei minori centri; onde vi furono arresti, prigionie, processi, le cui carte si trovano ancora nell’Archivio di Stato. Vittima più illustre però fu l’avvocato Francesco Di Blasi, cadetto di nobile famiglia, dotto, autore di opere pregiate, giurista, che imbevuto delle dottrine rivoluzionarie, attirati alcuni giovani, fra cui dei militari, tutti della borghesia e delle maestranze, cospirò per abbattere il Governo, e proclamare la repubblica in Sicilia, fidando più nella generosità delle idee, che nella sicurezza dei mezzi. Doveva la rivolta scoppiare nella Settimana Santa del 1795, reggendo la Sicilia l’arcivescovo Lopez y Rojo, successo al Caramanico, improvvisamente morto: ma un delatore, certo Teriaca, avvertì l’Arcivescovo e il Comandante delle Armi, generale Walmoden. Il Di Blasi e i compagni furono arrestati e sottoposti a giudizio: egli, torturato, non accusò che sé stesso. Fu condannato con Giulio Tenaglia, Benedetto La Villa e Bernardo Palumbo; egli ebbe mozzato il capo, gli altri furono impiccati, il 31 di maggio nel piano di S. Teresa, oggi Indipendenza, tra lo squallore della città, e sotto la minaccia delle artiglierie del Palazzo. Prima di andare al supplizio il Di Blasi scrisse due sonetti. Furono essi i primi caduti per le nuove idee nel regno di Sicilia.
Gli eccessi e le carneficine del Terrore e più il vilipendio della religione avevano suscitato nel clero di Sicilia e nelle popolazioni un grande orrore pei “giacobini”, i quali erano rappresentati come belve, nemici delle cose più sante: donde l’odio aumentato dalla tradizionale avversione pei francesi, che strinse la Sicilia intorno al trono. Cosicchè, calati i francesi in Italia, e temendo il Re un’invasione, l’Isola non fu sorda alle richieste di uomini e di denari. I grandi feudatari levarono milizie, le città offrirono le somme che poterono. Né la pace segnata fra il re Ferdinando e la Repubblica francese nel 1796 dissipò i timori.
Son note le vicende del regno di Napoli in quegli ultimi anni del secolo: la rottura della pace nel 1798, richiese nuovi sacrifici ai due Regni: si requisì l’oro e l’argento dei privati, che però non risposero tutti, pavidi di non esserne ricompensati.
Riaccesa la guerra con la Francia, re Ferdinando occupò guasconescamente Roma; ma i suoi eserciti, furono sconfitti ed egli ritornò rapidamente a Napoli; imbarcatosi la notte del 23 dicembre sul Vanguardia, vascello della squadra inglese, con la famiglia, la corte, l’ambasciatore britannico e le opere d’arte più pregiate, salpò per Palermo. Dopo una tempestosa traversata, nella quale morì il figlioletto Alberto, vi giunse la notte del 25, improvvisamente. La notizia, diffusasi per la città, destò commozione. Accolto con applausi, sbarcò prima il Re, e il giorno dopo verso sera la Regina. I Sovrani subito si misero all’opera per fortificare la Sicilia e riconquistare il regno perduto, mentre a Napoli entravano i Francesi, e vi istituivano la Repubblica Partenopea.
 
 
Antefatto storico tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo di Luigi Natoli, inserito nel volume come prima parte per una migliore comprensione dei fatti.
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
Pagine 525 - Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15%.
 
 

sabato 19 novembre 2016

La bandiera di Francesco Riso, esposta al Museo del Risorgimento di Palermo, Società di Storia Patria

 
Il Riso, posto sopra una carretta, fu trasportato al­l'ospedale di S. Francesco Saverio; ove giunto, all'infer­miere Antonino Gallo, che scrivendone nei registri come per legge nome, paternità, gli domandava della professione, rispondeva: “Congiurato”; e non intendendo l'altro, e ripetendo la domanda, egli ricon­fermava: Congiurato: cospiratore per la libertà del mio paese”.
 
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
 

Luigi Natoli: il 4 aprile 1860. Tratto da: La rivoluzione siciliana, narrazione.



E venne l’alba del 4, dopo una notte che dovette parer lunga alle anime, aspettanti fra le armi il segnale convenuto. Avevano esse il presentimento che il loro segreto era stato tradito?
Forse l’ebbe Francesco Riso, l’aveva avuto anzi qualche giorno prima, quando all'avvocato Pennavaria aveva detto Ho dato la mia parola, e sebbene son per­suaso che nel pericolo mi abbandoneranno, non la ri­tiro”.
Poco prima dell’alba, Riso mandò qualcuno a esplo­rare la vicina piazza della Fieravecchia dove doveva essere sparato il mortaretto: il messo la trovò deserta, il che parve cattivo indizio, e scorò qualcuno; ma fu un baleno. Alle cinque del mattino, Riso mandò sul cam­panile della chiesa Nicola Di Lorenzo e Domenico Cu­cinotta con bombe all’Orsini, appostò là altri com­pagni, e si avviò con alcuni de’ suoi alla porta d’uscita. Al suo apparire una pattuglia di compagni d’armi in agguato gridò: – Alto, chi va là? – Rispose: – Chi viva? – Viva il re! –Viva Italia! – ribattè il Riso, e tirò due colpi di fucile, che uccisero il soldato Cipollone. Fu il segno dell'attacco. Il Di Lorenzo ed il Cucinotta suonano a stormo le campane; il Riso corre al cam­panile, e piantata la bandiera tricolore, ritorna giù a so­stenere il fuoco: cadono Giuseppe Cordone, Mariano Fasitta, Matteo Ciotta, Michele Boscarello e Francesco Migliore. Agli spari e allo scampanio, accorre per la Vetriera la squadra della Magione: Sebastiano Camar­rone e Giuseppe Aglio, audaci, girando sotto l’arco pic­colo di S. Teresa, respingono un plotone di soldati; ma invano. Cade Salvatore La Placa, ferito al petto, e raccolto da pietosi e celato, scampa così all’eccidio. Guaritosi appena, corse poi a raggiungere le squadre, com­battè il 27 maggio a Porta Carini, e fu ferito alla gamba.
La squadra della Zecca, uscita anche essa, trovatasi di fronte al grosso della truppa, e non potendo affron­tarla si disperse.
Tra il fumo, gli spari,  gli urli, parte della squadra ripara nel convento. Il Riso grida energicamente: “Co­raggio; la città sta per insorgere; sostenetemi tre ore di fuoco, e saremo salvi”.
E intanto le campane squillavano sulle fucilate, e pa­reva chiamassero disperatamente la città, che o impre­parata o sgomenta non si moveva, e lasciava compiere il sacrificio; squillavano, terribile voce di libertà, non ostante la sconfitta. ll generale Sury appunta i cannoni contro il campanile per far tacere le campane: atterra la porta del convento con gli obici, e allora i regi, fanti, cacciatori, artiglieri, compagni d'arme si lanciano all'as­salto. Per snidare gl'insorti, il tenente Bianchini porta a braccia un obice sul piano superiore del convento. Gl' insorti si sbandano: Giuseppe Virzì e Bartolomeo Castellana, sbarazzatisi delle armi, si buttan dall'alto e si rompono le gambe: raccolti da buona gente e oc­cultati, e dopo alcuni giorni portati all'ospedale come muratori precipitati da una fabbrica, così scamparono alla strage. Francesco Riso, colto da quattro palle al ventre e al ginocchio cade. La sua caduta mette fine alla resistenza.
Caddero in poter loro alcuni insorti: testimoni oculari narrano di un birro, che rubato l’orologio al Riso, caduto per terra, lo ferì di baionetta all’inguine; e di un altro che finì ferocemente un giovane insorto ferito e impotente a muoversi...
 
 
 
Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana. Narrazione.
Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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giovedì 17 novembre 2016

Luigi Natoli: Gli esuli, fuggiti dalle persecuzioni della polizia borbonica.


V'era fra i nostri esuli il fior dell'ingegno, del sapere, del valore, del patriottismo di Sicilia; e molti illustravano la terra natale, o insegnando o nei civili negozi o con la virtù della vita austera, quali Francesco Ferrara, Eme­rico e Michele Amari. Francesco Paolo Perez, Michele Amari lo storico, Giuseppe La Farina, Filippo Cordova, Vincenzo Errante, Mariano Stabile, Ruggero Settimo, il marchese Torrearsa, Rosolino Pilo, Francesco Crispi, Gia­cinto Carini ed altri. Tra i quali alcuni conservavano il loro antico ideale della indipendenza di Sicilia e della con­federazione degli stati italiani; altri affinando le menti e modificando i primi ideali di autonomia, venivano con­vertendosi all’idea unitaria di Giuseppe Mazzini; ma non tutti convenivano nei mezzi; giacché alcuni, stringendosi al Piemonte, aspettavano dalla diplomazia la libertà e unità della patria; altri invece, più schiettamente demo­cratici, speravano nella pronta azione rivoluzionaria e seguivano il Mazzini. Tutti però cospiravano e corri­spondevano coi patrioti dell'isola, concertando, incorag­giando, promettendo.
 
 
 
Luigi Natoli - La rivoluzione siciliana nel 1860 - narrazione.
Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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Luigi Natoli: Le torture della polizia borbonica.


Il De Simone coi gendarmi Tridenti, Scannapicco e Tempesta, nomi convenienti ai tre ribaldi, sottoposto a torture Antonino Lombardo, uno degli arrestati, gli strappava rivelazioni e documenti, che servirono di base all’accusa.
Per quelle propalazioni altri cittadini furono gittati nelle prigioni, e veniva formulato un formidabile atto di accusa, che inviava dinanzi la Gran Corte Criminale trenta giovani, di cui nessuno toccava i trent’anni. La Gran Corte li mandava assolti a dispetto della polizia; la quale si rifaceva torturandone altri, come il povero farmacista Schifani, che ne rimase storpio e deforme per tutta la vita (1853).
(1856) Cominciò tremenda opera di persecuzione; e compagni d'arme, ispettori di polizia, regie truppe com­misero atti di crudeltà e violenze che fanno orrore. Il tenente colonnello Ghio, che comandava la colonna, mutando il mestiere di soldato in quello di sicario, do­mandava al Maniscalco che segnasse con una croce i nomi di quelli che dovevano sparire”; e tuttavia pa­reva tiepido e fiacco al direttore di polizia.
(1856) Il Bajona, aveva inventato ordegni di tortura ignoti agli antichi, quali la muffola specie di ceppi di ferro, la cuffia del silenzio, congegno che serrando le mascelle impediva i lamenti, e lo strumento angelico, morsa nella quale si stringevano, fino a stritolarli, i pollici. La esistenza dei quali ordegni, rivelata dal d.r Giovanni Raffaele su giornali inglesi e italiani, levò grido di orrore, e fu smentita dal governo borbonico, come voce calunniosa; e modernamente giudicava una invenzione da un compilatore di storie, che non ricordava forse, come vi fossero altre testimonianze, e come nel 1862 quegli strumenti fossero stati trovati nelle carceri di Palermo dall’avv. Nani.
Il Baiona usò largamente delle sue orrende invenzioni nella caccia allo Spinuzza e ai compagni; e il racconto delle sevizie inflitte da lui e dai suoi complici parrebbe incredibile: né soltanto uomini adulti ebbero il capo stretto dalla cuffia, mentre erano fieramente percorsi da nerbi, o pesti sullo stomaco fino a rompersi negli inguini; e legate le mani coi piedi per mezzo dello strumento angelico furon rotolati per terra a calci, o torturati con fili taglienti perché non prendessero sonno; ma anche fanciulli e fanciulle, non ancor dodicenni, erano sottoposti a supplizio, perché rivelassero il nascondiglio del padre, o perché non piangessero delle sue sofferenze.
Con questi mezzi quei tre banditi in veste di poliziotti, alla testa dei compagni d’arme, schiuma di ribaldi reclutati nel rifiuto delle galere, cercavano ottenere propalazioni e denunzie, e aver nelle mani i proscritti.
 
 
 
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martedì 15 novembre 2016

Luigi Natoli: Francesco Riso e le premesse della rivoluzione.


Agiato fontanaro, di bell’aspetto, di gran cuore, Francesco Riso era stato attratto nella cospirazione da Giuseppe Bruno-Giordano; e ne era divenuto uno dei più attivi e audaci. Assunto il periglioso incarico, avea preso a pigione un magazzino dei frati della Gancia, contiguo al convento e vicino a casa sua, col pretesto di conservarvi doccionati e strumenti del mestiere, in realtà per depositarvi armi e munizioni; e altro magazzino aveva appigionato alla Magione per lo stesso scopo, dove durante quei giorni di preparazione, lentamente, eludendo ogni vigilanza, s’erano venuti trasportando le armi. E in quello della Gancia, il tre di aprile, in sporte di carbone, furono portate le bombe fuse dallo Chentrens e le mitraglie e i pezzi del cannone di legno, smontato. Le quali armi perciò non si trovavano ancora tutte raccolte, quando il primo di aprile il barone Pisani figlio, per incarico del comitato andò a verificare, per cui, non ricevendo buona impressione corsero parole vivaci fra il Pisani e il Riso: ma il dado era tratto, e non si dovea più aspettare.

La forza di cui poteva disporre l’animoso popolano si trovò essere di poco più che ottanta uomini, che il Riso ripartì in tre squadre; una di venti uomini, capo lui stesso, doveva appostarsi nel magazzino della Gancia; l’altra di cinquanta, alla Magione, e doveva capitanarla Salvatore La Placa, bovaro, audace e valoroso; la terza doveva capitanarla Salvatore Perricone.

Delle bombe furono portate nel palazzo Rudinì, ai Quattro Canti, per essere lanciate sulla truppa quando sarebbe scesa dalle caserme: altre armi avevano raccolto i fratelli Carlo e Carmelo Trasselli, nella loro casa, presso la Gancia, dove nella notte del tre aspettavan uomini fidati; e altri uomini presso la porta di Termini dovevano adunarsi coi fratelli Antonino e Serafino Lomonaco-Ciaccio. Di due bandiere cucite da un Impallomeni mercante di berretti, una portava egli stesso, il 3 aprile, al Riso, l’altra consegnava all’avvocato Mancuso, e doveva sventolare ai Quattro Canti.

Gli storici raccolsero che la spia fosse stata un frate della Gancia. È falso. L’equivoco nacque dal vedere il 4 aprile un fra’ Michele da Prizzi col casco dei poliziotti, unito con la sbirraglia; ma fra Michele non era della Gancia. La polizia o per essere più esatti, l’ispettore Catti, aveva ricevuto la denunzia dalla guardia di polizia segreta Francesco Basile, al quale, per imbe­cillità, certi Muratore e Urbano, avevano confidato che il 4 sarebbe scoppiata la rivolta, e lo avevano invitato a unirsi con loro, non sapendo forse che il Basile fosse un agente segreto. E ciò risulta da documenti ufficiali.
 
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Luigi Natoli: L'arresto di Salvatore La Licata.

Av­venne in modo drammatico e vile. Era egli nascosto sotto una botola in casa di un guardiano della contessa di San Marco, dove piombati i birri, legato il guardiano e percossolo, nulla poteron sapere; onde si impadro­nirono della giovane ed avvenente moglie di costui, e, riuscito vano strapparle una delazione a furia di ner­bate, la trascinarono all’aperto e cominciarono a spo­gliarla. Ella taceva; ma quando quei manigoldi furon per torle la camicia, e denudarla agli occhi di tutti, il suo pudore non resistette all’oltraggio, e indicò la bo­tola. Il La Licata fu sottoposto a torture che fanno rabbri­vidire, e fu ridotto in pochi giorni a fin di vita, egli che era robusto e aitante: ma non rivelò nulla; e dei supplizi patiti fu avvertito il procuratore generale, seb­bene senza frutto.
 
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lunedì 7 novembre 2016

Luigi Natoli: Giuseppe Campo


Fermato il giorno, che invece del 4 fu il 9 ottobre, il comitato direttivo si dava alacremente a preparare ogni cosa; Giuseppe Bruno-Giordano faceva fondere bombe, altre bombe si fondevano in casa di Giovanni Faija, assunto a ufficio di Segretario; la polvere apprestava il Rammacca, il piombo il negoziante Giuseppe Briuccia. Stabilite relazioni coi più noti e animosi liberali dei paesi vicini, e coi più autorevoli e sicuri cittadini dei vari quar­tieri della città, il dottor Di Benedetto formava e il co­mitato direttivo approvava il piano di insurrezione. Essa doveva scoppiare simultaneamente dentro e fuori Pa­lermo, appena dato il segno, attaccandosi a un tempo dalle squadre interne ed esterne le varie caserme mili­tari, così da impedire il congiungimento delle truppe, isolarle, chiuderle, costringerle alla resa. Il governo in­tanto, raccogliendo la voce di “una irruzione dell’av­venturiero Garibaldi” dava ordini agli Intendenti delle provincie di usar la maggior sorveglianza, e non si accorgeva ancora del fuoco che ardeva nella capitale.
Ma per ragioni che parvero esatte, si scartò poi l’idea di cominciar l’insurrezione nella città; e cercan­dosi un luogo adatto nei dintorni, Giuseppe Campo si offerse animosamente di levar Bagheria, e movere pel primo con la sua squadra sopra Palermo, dando così il segno della generale rivolta. Fidava egli nelle promesse dei suoi amici e principalmente di un tal Francesco Gandolfo, che vantava aver una forte squa­dra; ma, andato a Bagheria, l’alba del 9, il Campo non si trovò accanto che cinque o sei intrepidi: non pensò che bisognava essere audaci, e per timore di fallire, ri­mandò il moto al giorno 10, senza però darne avviso al Comitato: il quale, aspettati invano i segnali convenuti, mandò il Marinuzzi, cui s’unì il Di Chiara, per saper qualche cosa. Il Campo, esposto il caso, promise che avrebbe a ogni costo preso le armi il 10 di mattina; ma intanto le altre squadre delle campagne, che tenendosi fin dal giorno 8 nascoste nei posti assegnati, avevano fino allora aspettato, mancato il segno, non avvisate, credendo perduta ogni cosa, si sciolsero.
ll Campo non potè raccogliere i suoi uomini che verso sera, e mosse nella notte; e disarmata la guardia ur­bana di Santa Flavia, impadronitosi del posto doganale di Porticello, divise le sue forze in due. Una parte, pro­seguendo per l’Aspra, nell’oscurità vide quantità d’uo­mini, e credette fosse la squadra di Villabate. Ma al suo grido: Viva la libertà! rispose un altro grido di Viva il re! e una scarica; e la sorpresa sgomentò gli insorti e li disperse.
L’altra parte col Campo corse a Villabate, assalì il posto delle guardie urbane e la casa del loro capo Salmeri; ma sopraggiunte milizie e compagni d’arme, la esigua schiera si sbandò; e il Campo, travestito da contadino, scampò nella villa del conte Federico, donde l’anno appresso fuggì in continente, ove erano i fratelli, esuli anch’essi, e ritornò poi coi Mille. Nobile famiglia di patriotti questa dei Campo; quattro fratelli pari per valore, generosità, integrità di carattere, devozione alla patria, disinteresse, modestia, che non lasciarono scor­rere un giorno inoperoso , finché la patria domandò cuori e braccia.
 
Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana. Narrazione
Tratto dal volume: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.

Luigi Natoli: Salvatore Spinuzza


(1856) L’insuccesso del Bentivegna non fu noto in Cefalù, dove i fratelli Botta e i Guarneri, il 25, levatisi in arme, liberato dal carcere Salvatore Spinuzza, anima della cospirazione cefalutana, lo fecero capo della rivolta, che tentarono di propagare nei comuni di quel distretto. Non trovaron seguito neppur essi; e so­praggiunte le milizie regie con navi da guerra, Cefalù ritornò subito all’obbedienza, e gli insorti dovettero sbandarsi.

Più sventurato fu Salvatore Spinuzza. Fuggiasco coi fratelli Botta, con Alessandro Guarneri e Andrea Maggio, errarono insieme di nascondiglio in nascondiglio, cacciati come lupi dalla sbirraglia guidata dai capitan d’arme Gambaro e Chinnici e dall’ispettore Baiona, tristissimi fra’ tristi. Seppesi finalmente il loro nascondiglio da una lettera intercettata; e allora il Chinnici e il Baiona accorrono coi compagni d’arme, battono i tamburi, armano la guardia urbana, con le campane a stormo raccolgono contadini e borgesi di Pettineo e Motta di Affermo, li aizzano contro quei cinque generosi, additandoli come ladri, assassini, incendiari e nemici della fede; e una folla briaca di fanatismo, armata di schioppi, forche, falci, dà mano forte alla sbirraglia. Lo Spinuzza e i suoi compagni eroicamente, per nove ore, si difendono, poi, consumate le munizioni, depongono le armi, tra le grida trionfali di un nemico venti volte maggiore.
Condotti a Palermo dal tristissimo De Simone, furono sottoposti a processo e condannati a morte; la pena eseguibile pel solo Spinuzza; che ricondotto a Cefalù, con grande apparato di forze, il 14 marzo 1857, di soli 25 anni lasciò la vita e i sogni sotto il piombo borbonico. Dell’aver dato mano all’assassinio, Pettineo fu punita con le lodi prodigatele dalla polizia.
Seguirono altre condanne; ventisette furono di morte, che il governo non osò eseguire, impaurito dalle maledizioni che si levavano dal mondo civile.
 
Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana del 1860. Narrazione.
Fa parte del volume: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.

Luigi Natoli: Francesco Bentivegna


Adunava molti animosi in un magazzino nella campagne di S. Maria di Gesù, e rivolte loro calde parole di incitamento, li apparecchiò alla prossima battaglia. Ma il convegno e i discorsi seppe da un delatore la polizia, che per maggiore sicurezza, fece trasportare i già prigionieri nelle segrete della cittadella di Messina, e arrestò il Bentivegna ed altri della congiura. Contro questo “branco di scellerati” come col consueto linguaggio le polizie di tutti i tempi chiamavano i novatori, si istruì un voluminoso processo.

(1856) Intanto che l’emigrazione apriva sottoscri­zioni e raccoglieva i mezzi per l’acquisto di 10 mila fu­cili, Francesco Bentivegna correva al comitato di Pa­lermo, prendeva accordi, e stimato giunto il tempo di sostituire l’azione ai disegni, la sera del 22 novem­bre 1856, congregati in Mezzojuso alquanti fedeli, con David Figlia, Spiridione Franco, Nicolò Di Marco e altri, inalberò il vessillo tricolore al grido di viva l’Italia.

Disarmata la guardia urbana, solleva Villafrati, corre a Ciminna in arme per opera di Luigi La Porta, ma giunto alla Pianotta, riceve annunzio che Palermo è tranquilla, e che invece movevano contro di lui forti colonne di fanti, cavalli e cannoni e compagni d'arme.

Il comitato di Palermo e i paesi della provincia sgo­menti degli apparati del governo, non seguirono il moto rivoluzionario, onde il Bentivegna si trovò solo e ab­bandonato: allora per non esporre i pochi seguaci a un vano sacrificio, sciolse la squadra, e cupo, silen­zioso, dolente riparò a Corleone.

(1856) Il Bentivegna fu preso, per tradimento, il 3 dicembre, e tradotto il Palermo fu sottoposto a giudizio con procedura illegale, contro la quale ricorsero i suoi difensori, ma invano; ed egli venne dal consiglio di guerra, il 19, condannato alla fucilazione, da eseguirsi in Mezzojuso entro le ventiquattro ore. Ricondotto fra la sbirraglia e le truppe a Mezzojuso, impavido e sereno sostenne il martirio, il 20 dicembre, un’ora e mezza circa del pomeriggio. Aveva trentasei anni. Il De Simone infierì sul cadavere, vietandolo alle cure pietose dei parenti, e facendolo buttare con le vesti del condannato in un carnaio, donde, di notte, la pietà di congiunti e di amici, celatamente lo trasse.

La sentenza illegale e crudele ebbe pubblico biasimo, e svergognò il governo che la volle; ma né il biasimo né la vergogna lo arrestarono nella voluttà del misfare.
 
Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana nel 1860 - Narrazione
Fa parte del volume: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.

domenica 6 novembre 2016

Luigi Natoli: Niccolò Garzilli.


Niccolò Garzilli, aquilano d’origine, palermitano d’adozione, studente dell’università, di soli diciannove anni aveva fatto concepire alte speranze di sé, per un suo scritto filosofico. Scoppiata la rivoluzione aveva lasciato la penna pel fucile, combattuto da prode, preso parte alla spedizione Ribotti nelle Calabrie: fatto prigioniero con gli altri, era stato chiuso nelle fortezze borboniche. La prigione non spense la sua fede: uscitone, prese attivamente a cospirare con altri animosi. Illudendosi che le violenze poliziesche avessero negli animi acceso tanto sdegno, che bastasse rinnovare le audacie del 12 gennaio, per far divampare l’incendio della rivoluzione, sebbene sconsigliato dal Lomonaco, divisò co’ suoi compagni d’insorgere pel 27 gennaio 1850. Ma traditi da un Santamarina, che era dei loro, scesi il giorno designato nella piazza della Fieravecchia, al grido di Viva la Costituzione, trovarono le vie occupate dalle milizie regie, e si sbandarono. Il Garzilli poco dopo, preso con altri cinque, e condotto al Castello, vi fu giudicato da un Consiglio di guerra, al quale il Satriano scriveva in precedenza, che sentenziasse per tutti e sei quei giovani la morte, da eseguirsi la stessa giornata. La sera stessa del 28, condannati senza alcuna prova legale, condotti nella piazza Fieravecchia, vi furono moschettati. Un marmo tramanda alla memoria dei posteri i loro nomi: furono Nicolò Garzilli, Giuseppe Caldara, Giuseppe Garofalo, Vincenzo Mondino, Paolo De Luca e Rosario Aiello.
Al supplizio seguì un processo contro sessantacinque presunti rei di cospirazione, dei quali oltre la metà la­titanti, e fra essi il Bentivegna. Contro gli arrestati la polizia incrudelì; il tribunale prosciolse ben trentasei dall’imputazione, gli altri condannò a pene ben gravi.

Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana nel 1860 - Narrazione
Fa parte del volume: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.