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sabato 30 dicembre 2017

Storia del Comitato rivoluzionario prima del 1860 - Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Riso


Il prete Domenico Mastruzzi compose un fervido proclama, che venne in potere della polizia; onde egli fu preso, e martoriato dal tenente dei gendarmi De Simone, maestro di crudeltà; e mandato a giudizio con altri, ne avevano condanna ai ferri. Ciò non impedì che si costituisse un comitato centrale esecutivo, in relazione col comitato di Londra di cui era anima il Mazzini, e fedeli interpreti France­sco Crispi e Rosolino Pilo, infaticabili sempre; e coi comitati degli esuli di Genova, Marsiglia, Parigi e Malta: e già concertata ogni cosa per insorgere, si provvede­vano i mezzi finanziari, quando per la troppa fiducia di uno dei cospiratori e di un prete, la polizia ebbe nelle mani le fila della vasta trama: il prete, un tal Papanno, ottuagenario, ne morì di cordoglio nelle prigioni, dove molti altri marcirono. Ma per venti cospiratori arrestati, altri cinquanta sorgevano a prenderne il posto; ché i pro­cessi mostruosi imbastiti su semplici indizi, e le prigionie crudeli e le torture non sgomentavano e non intiepidi­vano i cuori.
Le carte degli archivii contengono i nomi di questi generosi, molti dei quali noi conoscemmo vecchi, sem­plici e modesti, vivere dimenticati nell'ombra, senza van­terie e senza lamentele.
(1853) Si costituivano qua e là comitati, e uno più numeroso in Palermo, con antichi e nuovi elementi: del quale faceva parte G. Vergara di Craco, Luigi La Porta, Salvatore Spinuzza, Francesco Bentivegna, Vittoriano Lentini, Enrico Amato, Pietro Lo Squiglio, Mario Emanuele di Villabianca; e molti altri; v’entravan pure i fratelli Sant’Anna, i fratelli Botta e di Termini il dottor Arrigo e Giuseppe Oddo, da Girgenti i fratelli Grammitto. Mazzini incorava con le sue lettere di fuoco; e l’opera di propaganda e di preparazione era andata così alacremente innanzi, che s’aspettava per insorgere l’invio di quattrocento uomini, dal Mazzini promessi per guidare la rivoluzione. L’annunzio del prossimo viaggio del re Ferdinando arrestò il lavoro dei liberali, non le repressioni della polizia; anzi, avendo essi, di notte, listato di sangue il servile proclama del decurionato, che annunziava la venuta del re, il De Simone, il Pontillo e altri uguali strumenti del Maniscalco furono sguinzagliati in caccia di quanti erano sospetti amatori di libertà o secreti agitatori. E le carceri si empirono di nuovi arrestati, che tuttavia sfidando i pericoli della rigida vigilanza, corrispondevano coi compagni rimasti liberi. 
(1856) Il comitato s’era ricostituito per impulso di Salvatore Cappello, e ne facevano parte Onofrio Di Benedetto, Tomaso Lo Cascio, Salvatore Buccheri e Giacomo Lo Forte. Si era posto in relazione coi fratelli Agresta di Messina, i fratelli Caudullo e Tomaso Amato di Cata­nia, i fratelli La Russa e Mario Palizzolo di Trapani, agitatori e anima anch’essi dei comitati di quelle città: corrispondeva in Marsiglia con Rosario Bagnasco, in Malta con Giorgio Tamaio e Fabrizi, in Genova coi fratelli Orlando, che lo mettevano in relazione con Crispi, Rosolino Pilo e Mazzini.
(1859) Il comitato direttivo di Palermo si era in quei giorni ricostituito con l’architetto Tomaso Di Chiara, col dot­tore Onofrio Di Benedetto, coi fratelli Salvatore e Raffaele De Benedetto, Salvatore Cappello, conte Antonino Fe­derico e Salvatore Buccheri: ad esso facevan indi capo per legame con questo o con quello dei membri, Gio­vanni Faija (non Emanuele o Antonino come altri scrisse), Domenico Corteggiani, Andrea Rammacca, Giovan Bat­tista Marinuzzi, Rosario Ondes-Reggio, Giuseppe Campo, il barone Pisani, Martino Beltrami-Scalia; e, allargan­dosi ancor più le fila, Francesco Perrone-Paladini, En­rico Albanese, Giuseppe Bruno-Giordano, Andrea d’Ur­so, Antonino Colina, molti altri, quasi tutti provati nella rivoluzione del 1848.
Altro convegno di liberali, senza formar per questo un vero comitato, s’adunava in casa del dottor Gaetano La Loggia, e vi convenivano, oltre il Pisani, Ignazio Federico, Antonino Lomonaco-Ciaccio, il barone Ca­marata-Scovazzo, i quali ben presto, per mezzo dei co­muni amici, entrarono e si fusero con quel comitato.
 
 
 
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 24,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online
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Nella foto: Lapide commemorativa del Comitato rivoluzionario del 1848 (Palazzo delle Aquile - Palermo)

 

mercoledì 18 ottobre 2017

Luigi Natoli intervista Santa Miloro, una donna del Risorgimento siciliano. Tratto da: Piccole storie nella grande.


Poche donne erano note come “donna Santuzza”. Ella doveva la sua notorietà a tre cose: la sua bellezza, la sua eleganza semplice ma originale, la sua bottega di guanti.
Non v'erano in Palermo guanti migliori di quelli di “donna Santa”, nè v'era chi sapesse increspare o stendere con maggior gusto la spoglia di quei graziosi ombrellini che usavano allora, simili a ninnoli. La sua fabbrica aveva venti tagliatori di guanti; le cucitrici erano un centinaio. Aveva la bottega in Via Cintori­nai, in sul principio, a destra di chi vi entra dalla via detta oggi di Vittorio Emanuele; e questa bottega era sempre affollata. Tutta la nobiltà di Palermo, ed anche quella dell'isola si serviva di guanti, ombrellini, e ven­tagli, da “donna Santa”.
Ella era alta e slanciata. I capelli bruni, copiosi, spartiti sulla fronte, raccolti intorno alle tempie e sugli orecchi, le incorniciavano il volto ovale e bianco.
Il naso piccolo, appena appena arcuato, gli occhi grandi, neri, sereni, la bocca un po' sottile, piccola, fiorita d'un tenue sorriso.
Nel portamento un'aria giunonica, consapevole, quale apparisce ancora da una fotografia di quando era nella piena maturità della vita e della bellezza impe­riosa e magnifica.
Donna Santa, il rudere di questa bellezza, la dispensatrice delle coccarde all'alba del 12 gennaio, questa unica e sola superstite del manipolo che iniziò la rivoluzione famosa, que­sta figura eroica e poetica, della giornata memoranda, che con le belle mani statuarie diffondeva il simbolo della libertà, e affrontava le fucilate; era ancor viva quando nel 1910, io la scopersi nella casetta dove viveva ritirata e silenziosa. Aveva allora novantasei anni ed era svelta; sebbene un po' curva: e malgrado le rughe e solcassero la fronte, gli occhi avevano ancora l'antico lampo; la mente era lucida, e i ricordi vivaci. Nella soli­tudine in cui viveva dimenticata, sopravissuta alla sua storia, serbava gli entusiasmi giovanili nell'animo rimas­to ancora rivoluzionario del '48.
Io andai a trovarla nella sua casetta, al numero 33 della via Volturno. Era seduta in un’ampia poltrona; e appena mi vide entrare, si alzò e mi porse le mani affabilmente. Io volevo udire dalla sua bocca l’episodio del 12 gennaio: ma prima di parlare, ella andò a prendere da un cassetto un libro, lo aprì e me lo porse. 
- Legga, legga! – mi disse. 
Il libro era la raccolta di scritture, proclami, memorie della rivoluzione, stampati nel 1848; e la pagina mostratami conteneva un cenno encomiativo di Santa Miloro, additata alla pubblica ammirazione, e riconosciuta benemerita della patria. 
- Vede chi son io? – aggiunse poco dopo, con un certo tono di orgoglio nel quale c’era anche un po’ di vanità. – Io sono stata una di coloro che liberarono la patria dalla tirannia!...
Ella non nominava diversamente il governo borbonico, e non diceva mai “Ferdinando, il re Borbone” o simile; ma il “tiranno”: la terminologia del ’48 non si era cancellata dalla sua memoria.
- In casa mia – seguitò – si cospirava; ci venivano Paolo Paternostro, Rosalino Pilo, tanti altri. Si fabbricavano cartucce; io apparecchiavo coccarde tricolori. Dapprima gli amici di mio marito diffidavano di me; “Donna Santa dicevano è giovane ed è donna, potrebbe tradirci”. Ma mio marito sapeva di potersi fidare, e li rassicurò.
All'alba del 12 gennaio mio marito uscì co’ suoi fratelli e con suo padre, mio suocero; erano tre fratelli: Pasquale, Antonino e Giorgio. Uscirono armati, perchè doveva scoppiare la rivoluzione. Io avevo un paniere pieno di coccarde, e con tre nastri, uno bianco, uno rosso e uno verde, avevo improvvisato una lunga sciarpa. In quei giorni mi ero fatto un vestito di lana, a quadri con una sopraveste, come era di moda; quel vestito mi stava una pittura.... lo vestivo con molta semplicità; gli abiti me li facevo da me; pure debbo dire che face­vano voltare la testa, e molte signore, anche dell'ari­stocrazia, mi domandavano sul serio, se li facevo venire da Parigi....
Interrompendosi con questa parentesi, il suo volto si illuminava della dolce vanità del passato, e la fem­mina che aveva suscitato fremiti di desiderio con l’im­peto della bellezza, riviveva nella vecchia sepolta nella ampia poltrona e col capo avvolto in un fazzoletto scuro.
- Dunque riprese come le dicevo, udii le pri­me fucilate. Pensando che mio marito e i miei cognati erano fuori e nel pericolo, e non vedendo muovere nes­suno del vicinato, non potei resistere. Indossai il mio bel vestito, mi cinsi con la sciarpa tricolore, presi il paniere delle coccarde, ed uscii. Abitavo allora in piazza Garraffello. Sulle porte, ai balconi la gente si affac­ciava timida, sospettosa, irresoluta: non si sapeva come volgessero le cose.... Si sparse la notizia che qualcuno era stato ucciso. Io allora cominciai a rampognarli: “Su! Che fate? All’armi!... i vostri fratelli combattono; correte ad aiutarli!...Viva l'Italia! viva la libertà!...”. E davo coccarde, e andavo innanzi....
Mentre ella parlava, io me la raffiguravo alta e bella e fiera, nell'incanto della donna di trent'anni, col suo bel vestito a quadri, con la sciarpa tricolore; tra la folla stupita, commossa dallo spettacolo di audacia e di beltà; me la raffiguravo agitatrice, non torbida come una virago, come una amazzone antica, e neppure come una demoiselle Théroigne armata di picca, e coi bruni riccioli sfuggenti di sotto all'elmo: ella rimaneva donna, con tutti i fascini della muliebrità, anche in quei mo­menti pericolosi e tra lo scoppiar della guerra...
Piccole storie nella grande fa parte di Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860.
Nella foto: Piazza della Fieravecchia oggi piazza della Rivoluzione, dove ebbe inizio la rivoluzione del 12 gennaio 1848. 

Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
Pagine 525 - Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita on line. 

martedì 17 ottobre 2017

Luigi Natoli: La morte di Rosolino Pilo. Tratto da: Rivendicazioni.


Il 21 di maggio, mentre Garibaldi studiava la sua marcia strategica, le squadre di Pilo erano attaccate da tre forti colonne borboniche. I nostri non eran più di trecento cinquanta; i borbonici oltre un migliaio; ed eran padroni di alture. Corrao sosteneva il fuoco; ma il pericolo d'essere soverchiato era imminente; Pilo ac­corso con Calvino, salito, contro il consiglio di Corrao, in alto per vedere le posizioni, riconosciuto il pericolo pensò di rivolgersi a Garibaldi, per aver aiuti: Calvino e Corrao, stavano in basso; e voltavan le spalle al Pilo, che aveva con sè Andrea Soldano, di Lipari.
Veramente, per accorrere in aiuto delle squadre, non era forse necessario domandarlo. Gli avamposti garibaldini si spingevano presso la Boarra, e, oltre la loro estrema punta, a Lenzitti era la squadra di Pietro Piediscalzi, attaccata anch'essa dai regi. Il combatti­mento dunque si svolgeva poco lontano. Nondimeno il Piediscalzi a Lenzitti, Pilo e Corrao alla Niviera furon lasciati soli, senza soccorso, a sostenere il fuoco dei regi, che movevano da Monreale e da Palermo. Era una necessità dolorosa, non un abbandono, badiamo; e la rilevo qui, perchè questo fatto d'arme, nel quale, con altri, lasciarono la vita Pietro Piediscalzi e Rosalino Pilo appaia veramente quello che fu: un olocausto, una immolazione per impedire che il campo garibaldino fosse assalito, e rendere possibile a Garibaldi la sua stra­tegica diversione. Rosalino Pilo fu colpito alla testa, mentre scriveva, in piedi, fra due rocce, appoggiando la carta sulle spalle del Soldano. Alle grida del quale accorsero il Corrao, il Calvino e altri, sollevarono il Pilo boccheggiante, e lo portarono nella casa della Neviera, d'onde poi l'abate Castelli, avvertito, lo fece di sera trasportare nel monastero di S. Martino. 
La morte dell'eroe fu avvolta di tristi voci: la ver­sione più ovvia, più naturale, che egli sia stato ucciso da palla borbonica, (non essendo i regi, che eran ben armati, più lontani di 700 metri; ed avendo egli il capo scoperto); questa versione, che consacrava il suo mar­tirio, si è voluta scartare, e si cominciò col l'accusare di averlo ucciso a tradimento Giovanni Corrao, che invece – e risulta da testimonianze, – stava in basso col Calvino e volgendogli le spalle: e l’invereconda e infame accusa contro chi era stato il compagno, il fra­tello di Rosalino, e che pel coraggio leonino, per la fran­chezza, per tutta la sua vita, non avrebbe mai com­messa una viltà, aveva forse il fine partigiano e astioso di offuscare l'eroica figura del fiero popolano repubbli­cano, alla cui lealtà Garibaldi rese omaggio e allora e poi.
Scartata, perchè bugiarda e ignominiosa, l’accusa contro il Corrao, si volle ucciso Rosalino Pilo ora da un Morrealese, or da uno di Capaci, e ora da uno di Carini: per quale insania, io non so; forse, per quelle stesse ragioni che dissero Carlo Mosto, une dei Mille caduto alla fazione di Parco, ucciso da uno di quei terrazzani; quando il Rivalta, che gli era vicino, lo vide morire per mano dei regi! Questa nostra rivoluzione era così incol­pevole, gli entusiasmi le davano tanta purezza, che occorreva forse gittare un'ombra oscura su quelle squa­dre e su quelle popolazioni, che pur davano il loro sangue, agevolavano e salvavano la marcia di Garibaldi.  
Con la morte di Pilo finisce l’azione autonoma delle squadre durata dal 5 aprile al 21 maggio: da questo momento esse seguono la fortuna dei Mille, e di loro gli storici non terranno parola, o forse per dileggiarle: dimenticando che senza di esse e senza la rivoluzione i Mille non avrebbero potuto fare un passo, e sarebbero rimasti vittime della loro audacia. 
Ma che non dissero gli storici? Uno, più grave perché uso a non affermar nulla senza documentazione, non accolse come verità le fanfaronate di uno dei Mille, che fra le altre cose affermava che Palermo pareva una città di morti, e che i Garibaldini, il 27 maggio erano costretti a snidare i Palermitani “per far fare loro la rivoluzione?”
Questi storici hanno anche un altro torto: quello di credere che la spedizione dei Mille sia tutta la rivoluzione siciliana; o che, forse, questa sia scoppiata per virtù di quella. Per cui essi, appena appena si degnano di dare uno sguardo all’episodio del 4 aprile, allo stato insurrezionale durato fino al 27 maggio, alla spedizione di Rosalino Pilo e di Giovanni Corrao; e pare non sospettino neppure che senza questa e quello, né Garibaldi né i Mille sarebbero salpati da Quarto.

Ora a tanti anni di distanza, quando i fatti storici si possono guardare con maggior serenità, e altri documenti son venuti in luce, è bene ristabilire la verità storica, senza esagerazioni, cadute ormai nel dominio dei luoghi comuni, e senza reticenze inutili. E appunto per questo non bisogna fondarsi unicamente sulle testimonianze raccolte da una parte sola: per quanto meritevoli di credito esse vanno riscontrate con altre testimonianze, e saggiate sulla pietra di paragone dei documenti. I Mille che seguirono Garibaldi sono veramente mille eroi, e l’impresa alla quale si accinsero, fu meravigliosa e miracolosa; ma per esser tali non è necessario tacere, travisare e qualche volta calunniare il potentissimo aiuto che direttamente e indirettamente ebbero in Sicilia dai Siciliani; non è necessario tacere l’efficacia risolutiva dello ambiente; giacchè è bene affermarlo ancora una volta e chiaramente, se la spedizione dei Mille non avesse trovato, neppure il solo concorso morale di tutto un popolo in rivoluzione (dico rivoluzione, non ribellione) Garibaldi e i Mille avrebbero incontrato la sorte dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane. Anzi, per rimanere in tema garibaldino, la campagna di Sicilia del 1860, non avrebbe avuto esito diverso della campagna dell’Agro Romano del 1867, che pure si compiè in condizioni numeriche e d’armamento superiori. Vincitori, anche, a Calatafimi, i Mille avreb­bero avuta a Palermo una Mentana assai più disastrosa.
Ora gli esperti di cose militari, che studiano le cose senza lirismo, hanno oramai riconosciuto che la marcia trionfale da Marsala a Palermo e le vittorie strepitose dei legionari, oltre che al valore di essi e all'azione dell’ambiente, si debbono anche agli errori innumerevoli e madornali del comando generale delle truppe borbo­niche; e questi errori madornali furono l’effetto della paura. Paura di combattere in un paese nemico in rivo­luzione; paura di vedersi assaliti da ogni parte dalla popolazione; paura di vedersi tagliate le comunicazioni e la ritirata; paura di mancare – come mancarono – ­di viveri, di ospedali, di medicine, di tutto.
Il che risulta dai documenti, che hanno maggior valore delle lettere di un esaltato.


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
Pagine 525 - Prezzo di copertina € 24,00 - www.ibuonicuginieditori.it 

venerdì 14 luglio 2017

Luigi Natoli: I figli della Libertà e la Battaglia di Milazzo. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Sceso sulla strada, il Gene­rale ordinò al Missori di spingere all'assalto parte del battaglione Dunne, i giovanetti figli della Libertà, che fremevano, come puledri che urtano allo stabio, per cor­rere nei campi.
Al batter della carica, quei giovinetti si lanciarono contro la mitraglia. Il fuoco del nemico si concentrò sopra di loro, seminando la morte nelle loro file; ma nulla tratteneva quei lioncelli, l’ardimento dei quali parve mirabile allo stesso Garibaldi. Qualche mese in­nanzi, laceri, sporchi, oziosi, predestinati al carcere o all'ospedale, alunni del vizio, quei giovanetti, di cui i più vecchi non toccavano ancora diciotto anni, erra­vano per le vie e le piazze di Palermo; la rivoluzione li redimeva, li nobilitava, insegnava loro la grande virtù del sacrificio, ne faceva degli eroi. Superando siepi e canneti, arrampicandosi sui muri, lasciando parte di loro per la via, respinsero i vecchi e fieri cacciatori, si impadronirono del cannone.
Qui avvenne l'episodio della cavalleria, variamente raccontato dagli storici, nel quale ogni attore vide e magnificò il proprio gesto. Raccogliendo le varie redazioni, parmi poter qui ristabilire la verità, dando a ciascuno il suo.
Per incoraggiare i giovani volontari siciliani, Gari­baldi era disceso a piedi sulla strada, con Missori, che era ritornato al suo fianco. Non è vero che c'era anche Statella; Statella, ferito poco innanzi, era stato portato nelle ambulanze. I giovanetti e i cacciatori siculi si affrettavano a trainare il cannone, quando le file bor­boniche si aprirono, e diedero il passo allo squadrone della cavalleria, che si lanciò all'assalto per riprendere il pezzo. Nuovi, anzi inesperti alla scherma contro la cavalleria, i volontari presi da momentaneo sgomento, invece di opporre un forte gruppo, si aprirono in due, forse con l'intenzione di sbandarsi ai lati dello stradale: ma lo stradale era fiancheggiato da fitte siepi di fichi d'India, che impedirono la fuga; costretti da questo ostacolo, per difendersi si voltarono; la voce dei capi, li incoraggiò.
I cacciatori a cavallo, per l'angustia della strada non potevano galoppare a squadrone serrato, ma un dietro l'altro.
Giunsero tra le due file, e i primi non potendo per l'impeto del galoppo, frenare in tempo i cavalli, tra­scorsero oltre le linee; ma da una parte e da l’altra le scariche dei giovani volontari, atterrando cavalli e cava­lieri impedirono al resto d'avanzarsi. Circa venticinque cacciatori col capitano Giuliani e il luogotenente Faraone rimasti tagliati fuori, si affrettarono a tornare indietro. Il tenente Rammacca si para innanzi per affrontarli; il capitano Giuliani gli cala un fendente, che vien parato da un cacciatore siculo. Il sergente Santi Tumminello affronta il tenente Faraone, e con un colpo di baionetta alla gola lo rovescia da cavallo, gli toglie la spada, il revolver e il cavallo.
Il Giuliani, si lancia sopra Garibaldi, e alla intima­zione di arrendersi risponde con un fendente, Garibaldi para il colpo, e afferrato il cavallo per la briglia, dà un colpo di punta alla gola del Giuliani e l’uccide. Mis­sori fa fuoco col suo revolver sopra due altri cavalieri, e li atterra, sebbene i documenti borbonici affermino in modo assoluto, che i cacciatori a cavallo uccisi in quell'episodio furono tutti feriti di arma bianca.
La storia raccolse il gesto del Missori, per la noto­rietà del prode e audace comandante delle guide: non raccolse quello degl’ignoti giovanetti di Corrao e di Dunne, di quei “Picciotti” che aspettano ancora lo sto­rico il quale raccolga, illustri e glorifichi gli episodi di valore e d'eroismo da loro offerti in gran copia, e senza vanità. Eppure la lettera del Dumas al Carini non tace quel che essi fecero; ed essa è confermata dalle rela­zioni Corrao e Rammacca, scritte allora allora. Si vegga dunque quanto sia veritiera l’epigrafe dettata dal Pascoli.
Stupirono i figli della Libertà per lo slan­cio all'assalto e per la resistenza al fuoco. Quando due mesi dopo Garibaldi si apparecchiava per muovere sopra Capua, volle con sè due battaglioni dei nostri giovinetti, e li fece trarre dall'istituto eretto in Palermo nel giu­gno e diretto allora da Alberto Mario.
- A Milazzo – disse al Mario – ho veduto come si battono questi demoni....
E fino agli ultimi suoi anni il valoroso sir Dunne ricordava i “Picciotti” del suo battaglione; e venendo in Italia non tralasciava di domandare se ve ne fos­sero ancora vivi. Fino a pochi anni or sono ce n'erano ancora, e nell'ombra dell'oblio e della povertà si gloria­vano d'essere stati di quel battaglione; e uno dei super­stiti era un Raimondi, reso popolare da un giornaletto, che ignorava forse come pel valore spiegato a Milazzo, il piccolo Raimondi era stato promosso caporale sul campo.
Ma nessuno fuor del Dumas ha consacrato una parola agli eroici giovinetti di Dunne mietuti dalla mitraglia, nè ai cacciatori di Corrao, tre volte ostina­tamente andati all'assalto, e alle cui baionette si deve se Garibaldi non cadde sotto l’impeto della cavalleria borbonica.
Non un marmo dedicato alla virtù di questi oscuri eroi, che la nostra irriconoscenza, la nostra inferiorità civile, ha lasciato sepolti nell'ignoranza! E soltanto per questo, narrando della giornata di Milazzo, io mi son trattenuto a rievocare la parte presavi dai Siciliani, non lieve, nè secondaria. E non per gretto campanilismo, ma per sentimento di giustizia, tanto più doveroso, in quanto anche oggi, con tanto lume di documenti, si ripetono e si consacrano errori, e si perpetuano omissioni e silenzi imperdonabili.



 Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
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Disegno di Niccolò Pizzorno tratto dalla descrizione di Luigi Natoli sulla divisa de I Figli della libertà. 

Luigi Natoli: I Figli della Libertà o Il battaglione Dunne. Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860


Già altre milizie nel fervore di quei giorni s’an­davan formando; e a preparar futuri soldati e sottouf­ficiali volgeva l’animo il Dittatore fra le cure del go­verno.
Essendo giunto in quei giorni Alberto Mario con la moglie Jessie Withe, Garibaldi gli diede incarico di istituire un istituto o collegio militare, per raccogliervi tutti i ragazzi orfani o randagi o abbandonati a sé stessi; destinati forse ad accrescere il numero dei delinquenti, salvati o redenti ora dal nobile fine a cui Garibaldi li chiamava. Il Mario si mise all’opera alacremente, e ben presto il collegio accolse un migliaio di giovanetti, i più vecchi dei quali non avevano diciassette anni: li vestì, li disciplinò, li istruì. Il collegio prosperò; un mese dopo accoglieva altri mille giovanetti, ne formò due battaglioni che diedero esempio maraviglioso di eroismo.

Contemporaneamente l’inglese Dunne, grande e fer­vido amico dell’Italia, a sue spese costituiva un bat­taglione di ragazzi e giovinetti della strada, che chiamò “i figli della Libertà”  e li vestì di bianco, li armò di fucili scelti, e ogni giorno li conduceva al campo, eser­citandoli; sicché in breve di quei giovanetti, fin allora vissuti nell’ozio e nell’ignavia, fece dei cittadini e soldati che stupivano per arditezza d’aspetto e spirito di di­sciplina, e che più tardi a Milazzo fecero prodigi di valore...


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venerdì 7 luglio 2017

Luigi Natoli: Il concorso delle squadre siciliane nei tre giorni della presa di Palermo, dal 27 al 31 maggio 1860. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Io non mi sarei tanto indugiato a raccogliere prove e testimonianze, e a ristabilire la verità storica, se si fosse trattato di uno scrittorello insignificante; ma poichè le antiche e stolide accuse, spiegabili in tempi di passioni e di gelosie, nei quali pareva non poter affer­mare i propri meriti verso la Patria, se non avvilendo gli altri (prova ne sia la guerra invereconda di cui fu vittima Giuseppe La Masa) poichè, dico, queste accuse, vengono sempre rimesse in giro, dopo tanto tempo, e tanto lume di critica, e da uomini che, in fatto di storia, sono tenuti meritatamente autorevoli, era dove­roso ribatterle.
L' ho fatto con serenità; e, più che servirmi di sto­rici moderni, facendo riudire le voci di quelli che furon testimoni dei fatti, e che il Luzio stesso cita. Se avessi voluto, avrei potuto moltiplicare queste voci; e avrei potuto raccogliere nuove e più dolorose prove di male­voglienze e di ingiurie e di falsità; avrei anche potuto ribattere ingiurie con ingiurie. Ma nè io, nè alcuno degli scrittori siciliani pensarono mai di rilevare gli atti di viltà che fecero giudicare diciannove dei volontari salpati da Quarto, indegni di fregiarsi della medaglia commemorativa. Nè le colpe di costoro, nè la fuga di qualche capitano a bordo di una nave francese, generalizzammo a danno e scherno di tutti; come per la istantanea con­fusione di pochi picciotti inesperti di guerra, fecero contro tutte le squadriglie, anzi contro tutto il contri­buto di forze dato dalla Sicilia alla campagna del 1860, alcuni scrittori del continente.
L'opera delle squadre, le condizioni di Palermo, i fattori del successo, la parte presa dalla città all'alba del 27 maggio, ho già dimostrata. Potrei qui continuare narrando quel che il popolo di Palermo e le squadre fecero in tre giorni di combattimento; e far sapere, a chi non lo sa, o ricordarlo a chi l’ha dimenticato, che tutti gli episodi svoltisi nei vari punti della città, e nei quali i narratori non videro che solamente i legionari di Garibaldi, ebbero il concorso eroico del braccio e del cuore siciliano.
I legionari da soli non avrebbero potuto far nulla. Scrive sul proposito l’Eber:
“La città era troppo grande e i guerrieri che dalla penisola condusse Garibaldi, sono troppo pochi per mandarsi in tutti i punti, e la loro vita è troppo preziosa per esporla, tranne nei momenti di assoluto bisogno. Per la qual cosa sono gli insorti quelli che formano il grosso dei combattenti nella più parte dei luoghi”.
E appresso:
“I giovani Siciliani sembra che provino un gran diletto nello snidare i soldati dalle loro posizioni e lo facevano con una ostinazione di volontà tale da mostrare un talento per la tattica; giovandosi d'ogni destro per girarli e prendere alle spalle le loro posizioni”.
Non vi era un piano prestabilito di attacchi; questi erano suggeriti dal bisogno. Si sapeva di dover respin­gere i regi, e tenerli lontani dal quartier generale di Garibaldi; si sapeva che bisognava espugnare il Palazzo Reale, sede del nemico. La necessità e l’importanza di questa espugnazione era nella tradizione rivoluzionaria di Palermo. Dal 1647 in poi, tutte le rivoluzioni ebbero questo obbiettivo principale: impadronirsi del Palazzo Reale. Così si fece al 1820, così al 1848; così bisognava fare al 1860; e così tentossi anche nella infausta som­mossa del 1866...


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
Prezzo di copertina € 24,00 - Pagine 575.
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Luigi Natoli: Statistiche sull'opera delle squadre siciliane nella rivoluzione del 1860. Tratto da Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Se le statistiche e i documenti valgono a qualche cosa, io richiamo l’attenzione degli storici su questi dati: dei volontari, nei vari combattimenti di Palermo, mori­rono 35; dei cittadini e delle squadre sono parecchie centinaia. Il 22 e il 23 novembre del 1860 il governo concedeva la pensione a ben 110 tra vedove, o madri, di Siciliani “prodi caduti combattendo per la causa nazionale dal 27 al 29 maggio”. Altre furono concedute prima, moltissime dopo; un numero grande di caduti, in quei giorni rimase ignoto. Le squadre e il popolo di Palermo, dunque, diedero un grande contributo di morti. Le statistiche compilate dall'ufficio di Stato Civile di Palermo, l’8 giugno 1860, per ordine del Dittatore, por­tano il numero dei morti per ferita, dal 27 al 29 e fino al 4 giugno, a 290, dai quali, tolte le donne, e i fan­ciulli, e i vecchi oltre i 60 anni, e i volontari dei Mille, morti tutti in quel periodo, i soldati borbonici Paler­mitani (e perciò dichiarati al Comune di Palermo) e i morti per bomba conosciuti fin allora, rimangono poco più di 200 cittadini morti di ferite; e sono soltanto i Palermitani; quelli delle squadre dei comuni, furon di­chiarati nei rispettivi municipi.
Non minore fu il contributo dei morti dato nel resto della campagna di Sicilia. Gli storici del continente parlano di divisione Medici, brigata Cosenz, ecc....; e a leggere le storie, sembra per esempio che il combatti­mento di Milazzo sia stato sostenuto dai volontari venuti col Medici e col Cosenz dal continente.
Mettiamo anche qui la verità a posto.
Le spedizioni del continente furono: la prima, quella di Garibaldi, sbarcò a Marsala un migliaio di uomini, di cui 44 siciliani; quella di Agnetta, 63 uomini, di cui 16 siciliani; quella del barone Prinzi, 110 uomini tutti del distretto di Trapani; quella di Medici 2500 uomini, molti siciliani fra essi di numero incerto; quella di Cosenz, 1500; del Sacchi, 2500; il battaglione Corte, 800: in tutto, il contributo dato dal continente superò di poco i 9700 uomini. Ora i Siciliani, i soli siciliani che ebbero diritto alla medaglia commemorativa della cam­pagna di Sicilia del 1860, come risulta dal registro che si trova all'Archivio di Stato di Palermo, sono 4735, e non si contano quelli delle squadriglie che, per cattivi precedenti, o perchè non seppero mai nulla, o perchè non continuarono in tutta la campagna, non ebbero la medaglia commemorativa ; coi quali si giungerebbe alle sei migliaia.
Questo per coloro che scrissero non aver l'Isola dato un serio contributo.
A Milazzo le forze garibaldine si componevano così: 1.a linea: Malenchini, con 3 battaglioni e 3 compagnie; Medici, 3 battaglioni e 3 compagnie, i carabinieri geno­vesi e le guide; Fabrizi, con 2 battaglioni e tre com­pagnie; 2.a linea: Cosenz, con battaglioni Dunne, Corte, Vacchieri, Corrao; riserva, Guerzoni. Ora i battaglioni Corrao, Fabrizi, Dunne, questo di giovanetti da quin­dici a diciassette anni e le compagnie Interdonato erano tutti di siciliani.
Ma di questo mi occuperò a parte, chè anche qui c'è da raddrizzare qualche cosa. E che non c'è da rad­drizzare nella storia del Risorgimento? E specialmente nei riguardi di questa povera Sicilia, che ha conosciuti tutti i sacrifici, e in compenso s'è vista strappar tutto, anche la gloria dei sacrifici compiuti?



Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
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mercoledì 28 giugno 2017

Luigi Natoli: La scelta del campo di Gibilrossa. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Ippo­lito Nievo, e con lui il Luzio e gli altri, con una destrezza meravigliosa, hanno fatto sparire il campo di Gibilrossa. Avete visto a teatro qualche prestigiatore? Mette una caldaia sotto un drappo; uno, due, e tre! La caldaia sparisce. Quel povero Giuseppe La Masa, si affannò dun­que invano, a metter su, concentrare, ordinare, circa quattro mila uomini, impresa quanto mai difficile; formare un campo, che non solo fece risolvere Gari­baldi a non dar retta a quel saggio sì, ma uccello di malaugurio che fu il Sirtori in tutta la campagna gari­baldina; ma gli diede anche una sicura base di opera­zione. Questo campo sparisce!
Lasciamo andare le fantasie e le volate poco pin­dariche dei.... poeti, e diamo a ciascuno il suo. Quando il barone Di Marco, per esperienza del passato, a Cala­tafimi gittò l’idea di concentrar le squadre a Gibil­rossa, Garibaldi addivenne; non perchè avesse conce­pito il disegno, che poi lampeggiò nel suo genio il 22 maggio; ma perchè poteva servire come un diversivo per tirarvi i regi. La sua idea era di piombare a Palermo per la via di Monreale, ma Monreale era formidabil­mente occupata da circa ottomila regi con cannoni, cavalleria, compagni d'armi; e v'eran tra essi i famosi battaglioni bavaresi di Von Meckel. L’impossibilità di aprirsi una strada in mezzo a queste forze, gli sug­gerì l’idea di disgregare le forze nemiche, facendole molestare alla sua sinistra, S. Martino, e alla sua destra, Gibilrossa o Belmonte; e approfittando di ciò, ope­rare la marcia sopra Parco. Fino allora non sembra avesse veramente pensato alla importanza strategica di Gibilrossa. Il 20 maggio, da “Misero Cannone” (come egli interpretava Misilgandone) da Sirtori faceva scrivere a La Masa di concentrare le squadre a Parco; ma poco dopo, di suo pugno – cedendo alle insistenze di questo – gli scriveva che era meglio concentrarle a “Gibilrossa Belmonte”, perchè operando per suo conto, ma in correlazione coi volontari, gli agevolasse le mosse. 
Le cose andarono diversamente perchè i regi da Mon­reale e dai Porrazzi, mossero il 22 per assalire Gari­baldi al Parco, onde Garibaldi chiamò in aiuto La Masa con tutte le sue forze; ciò che il La Masa fece di mala­voglia, temendo di perdere la forte posizione di Gibil­rossa. Fu una vera fortuna che, quando La Masa giunse nelle vicinanze di Parco, Garibaldi avesse compiuto la sua mossa strategica verso Piana; cosicchè il La Masa, si affrettò a ritornare indietro, a riprendere le sue posizioni, non senza aver spedito corrieri a Orsini, per­chè persuadesse Garibaldi a voltare verso Gibilrossa.
Tutto questo risulta dalle lettere corse fra Gari­baldi, La Masa, Orsini: alcune delle quali, anzi quasi tutte, pubblicate fin dal 1863. Come mai il Luzio non le conobbe?
Garibaldi non aveva vanità di pigmei; grandeggiava in tutto; conobbe che La Masa aveva ragione, e a Piana, spinto innanzi l’Orsini co’ carriaggi, i cannoni, i feriti, si gettò per monti e boschi, e compì quel giro meravi­glioso, che lo condusse a Misilmeri, diventata il centro, della rivoluzione, mentre il Von Meckel coi suoi batta­glioni, ingannato dagli informatori, correva dietro ad Orsini.

Misilmeri, com’è noto, è poco lontana dal convento di Gibilrossa, dov'era il quartiere generale delle squadre, o guerriglie, o, come enfaticamente le battezzò il La Masa, il “secondo corpo dell'armata nazionale, Caccia­tori dell'Etna”. 
Garibaldi giunse a Misilmeri, di notte, accolto da luminarie e grida: alloggiò in casa Gucciardi, e mandò subito al La Masa questo biglietto: “Spero vedervi qui domattina alle 3 ant. per combinare cose importanti”. Egli dunque apprezzava quello che aveva fatto il La Masa e la posizione da questo occupata.
Il campo di Gibilrossa era stato piantato il 21 maggio, col nucleo delle squadre di Mezzoiuso, capitanate dal barone di Marco, che aveva con sè Spiridione Franco, Giuseppe Battaglia e altri; di quelle di Marineo e Misilmeri, e poco dopo di quelle di Termini. A mano a mano per l’incitamento del comitato di Termini, propagandosi la rivoluzione, tutti i comuni del distretto si affret­tarono a mandare uomini e denari; ma Termini e Misil­meri furono quelle che sostennero i maggiori sacrifici.
Vi accorrevano anche i fratelli Di Benedetto, Pietro Lo Squiglio, il Marinuzzi: molti scappavan da Palermo e vi si recavano. In breve il campo raggiunse circa quattro mila uomini, che non mancavano di munizioni, di vitto, di vesti.... ma scarseggiavano di armi da fuoco...


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Luigi Natoli difende il coraggio delle squadre siciliane nel 1860 dalle accuse di storici con "dubbia competenza di seconda mano". Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860".


Quello delle squadre più addestrate a fuggire che a combattere, è un tema che dal Guerzoni in poi ogni scrittore delle vicende della spedizione garibaldina, sappia o no la storia, crede di dover ripetere. Anche il Federzoni, o, come si firmava allora, Giulio de Frenzi, nel 1910 scrivendo di storia con dubbia competenza di seconda mano, tirò la sua frecciata contro le squa­dre, le quali, secondo lui, che al '60 non era neppure in mente Dei, riuscivano di danno perfino ai garibaldini!

Queste cose, come si può vedere anche dal libro del Menghini, scrivevano pure alcuni volontari, alle famiglie o ai giornali del continente, senza dubbio in buona fede. Non domandiamo dove le attingessero; e se nell'escludere o diminuire l'opera e il concorso altrui, ci entrasse un po' di vanità; nè domandiamo come dia­volo facessero gli scrittori di quelle lettere, mentre, chi qua, chi là, sparavano, davan la carica, e dovevan pen­sare alla propria pelle, a osservare e notare quello che facevan gli altri. Ora è curioso che le squadre proprio al 1860 avessero imparato a fuggire; e per darne prova avessero aspettato la venuta dei Mille; e suppongo che, se non sapevano che fuggire o danneggiare i Mille, quei centocinquanta ricordati dal Dumas debbono essere una sua invenzione, o una generosa concessione di Ste­fano Turr. Però nel 1820 i Palermitani erano soli, e senza capi, e cacciarono le truppe napoletane, che eran cinquemila uomini con cannoni e cavalleria; e nel 1848 erano solissimi, quando costrinsero le truppe regie a lasciare Palermo. Le statistiche dànno che i siciliani combattenti non superarono le due migliaia, e i borbo­nici erano in Palermo, coi rinforzi sopraggiunti dodicimila! E la lotta fra i regi fortificati nelle caserme e nel Castello, e il popolo della città e delle campagne, durò semplicemente ventisei giorni. Per ventisei giorni un popolo, bombardato, combattè; e non posò le armi se non quando l'ultimo dei regi, fuggendogli innanzi, lungo la marina di Solunto, non s'imbarcò. Non so quale altra città d'Italia abbia, fra le sue mura, combattuto ven­tisei giorni! Ma allora, forse, o le squadre e il popolo non si erano sufficientemente addestrati a fuggire, o erano d'accordo coi regi!

E sedici mesi dopo, quando le truppe borboniche, comandate dal Satriano, marciano su Palermo? Ma guar­date un po’ che cosa viene in testa alle squadre citta­dine! Invece di addestrarsi a fuggire, tengono in scacco per tre giorni i Napoletani; e non posan l'armi che per onorevole capitolazione.

E dopo il 4 aprile 1860? Piana, Mezzoiuso, Misil­meri, Alcamo, Partinico, Carini insorgono e mandano squadre sopra Palermo. Queste squadre incominciano una guerra tormentosa, e perfino compiono qualche eroico gesto. Duecento uomini o poco più, nel villaggio di S. Lorenzo, attaccati il 5 aprile da una forte colonna di regi, non soltanto non fuggono, ma fanno indietreg­giare i regi stessi: i quali tornano con cavalleria, e due altre compagnie fresche; perdono trenta uomini, e son costretti a ritirarsi un'altra volta. E di questi episodi ne avvengono a Bagheria, a Lenzitti, dovunque.

Il 21 maggio, alla Neviera, queste squadre, che da oltre un mese vivevano sui monti, dormendo allo sco­perto, bagnati dalla pioggia, soffrendo la fame, sosten­gono l’urto di tre colonne borboniche. Vi perdono la vita, fra gli altri, Rosalino Pilo e Pietro Piediscalzi, ma salvano Garibaldi dall'essere assalito a Renda; ciò che nella migliore ipotesi lo avrebbe costretto a ritirarsi sopra Castrogiovanni; e addio rivoluzione. Questa è storia documentata; ma nondimeno si continuerà a ripe­tere che le squadre nel 1860, per compiacere il signor Guerzoni, il signor Luzio, e compagnia, fuggivano!


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lunedì 19 giugno 2017

Luigi Natoli: "La presa di Palermo" e le "panzane" di Ippolito Nievo. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


A proposito del 27 maggio 1860 il Luzio riporta un lungo brano di una lettera del Nievo, nella quale si dicono le cose più straordinarie: che “i Picciotti fuggivano d'ogni banda” che “Palermo pareva una città di morti”; che non ci era “altra rivoluzione che, sul tardi, qualche scam­panio”; che Garibaldi “entrò in Palermo con 40 uomini, conquistò piazza Bologna con 30” ed era “solo” “tutto al più con suo figlio, quando pose piede in palazzo Pre­torio”! Questo è niente. “Noi – scrive il Nievo da eccellente poeta e romanziere – correvamo per vicoli, per piazze, due qua, uno là, come le pecore, in cerca dei Napoletani per farli sloggiare, e dei Palermitani per far fare loro la rivoluzione o almeno qualche barri­cata.... “. E tralasciamo il resto, che riguarda l'esodo dei napoletani il 7 giugno. Il signor Luzio aggiunge in fine: “Queste note frettolose del Nievo, sono la pura e semplice verità”. Verità? Ma per affermare che questa è la verità bisogna sopprimere quelle corrispondenze dell'Eber, che il Luzio cita, e che dicono tutto il rove­scio. O il Luzio non lesse le corrispondenze dell'Eber, o egli, con poca onestà di storico, le altera.
Il Nievo ha, senza dubbio, scritto belle pagine; e parecchi anni or sono qualcuno scoprì che le Confessioni d'un ottuagenario, sono un capolavoro da stare accanto ai Promessi Sposi; e sarà pure. Il Nievo, se non avesse fatto quella fine dolorosa, sparendo nei gor­ghi del mare, misteriosamente, avrebbe certo dato alla letteratura altri saggi del suo bell’ingegno; ma il debito di riverenza per la sua memoria, non può nè deve impe­dirci di dire, con tutto il dovuto rispetto, che le lettere a Bice sono delle fantasie, per non dir altro. A nes­suno, fosse anche l'uomo più grande della terra, è lecito nascondere la verità.... per far risaltare vieppiù la virtù propria, fino al ridicolo.
La spedizione garibaldina, il genio di Garibaldi e l’eroismo dei suoi compagni non diminuiscono, nè sof­frono alcuna ingiuria dall'eroismo altrui; ne sono anzi lumeggiati e spiegati; e io scommetto che, se Ippolito Nievo fosse vissuto di più, rileggendo serenamente quelle lettere, sarebbe stato il primo ad esclamare:
“Come diamine ho fatto a lasciarmi scappare que­ste panzane?”.
E a guisa di commento, avrebbe aggiunto:
“Ah! faceva gran caldo, laggiù il 27 maggio 1860, ed il vino di Sicilia era traditore”.




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