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martedì 22 novembre 2022

Luigi Natoli: Si costituivano qua e là Comitati... Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione.

Il prete Domenico Mastruzzi compose un fervido proclama, che venne in potere della polizia; onde egli fu preso, e martoriato dal tenente dei gendarmi De Simone, maestro di crudeltà; e mandato a giudizio con altri, ne avevano condanna ai ferri. Ciò non impedì che si costituisse un comitato centrale esecutivo, in relazione col comitato di Londra di cui era anima il Mazzini, e fedeli interpreti France­sco Crispi e Rosolino Pilo, infaticabili sempre; e coi comitati degli esuli di Genova, Marsiglia, Parigi e Malta: e già concertata ogni cosa per insorgere, si provvede­vano i mezzi finanziari, quando per la troppa fiducia di uno dei cospiratori e di un prete, la polizia ebbe nelle mani le fila della vasta trama: il prete, un tal Papanno, ottuagenario, ne morì di cordoglio nelle prigioni, dove molti altri marcirono. Ma per venti cospiratori arrestati, altri cinquanta sorgevano a prenderne il posto; ché i pro­cessi mostruosi imbastiti su semplici indizi, e le prigionie crudeli e le torture non sgomentavano e non intiepidi­vano i cuori.
Le carte degli archivii contengono i nomi di questi generosi, molti dei quali noi conoscemmo vecchi, sem­plici e modesti, vivere dimenticati nell'ombra, senza van­terie e senza lamente.
(1853) Si costituivano qua e là comitati, e uno più numeroso in Palermo, con antichi e nuovi elementi: del quale faceva parte G. Vergara di Craco, Luigi La Porta, Salvatore Spinuzza, Francesco Bentivegna, Vittoriano Lentini, Enrico Amato, Pietro Lo Squiglio, Mario Emanuele di Villabianca; e molti altri; v’entravan pure i fratelli Sant’Anna, i fratelli Botta e di Termini il dottor Arrigo e Giuseppe Oddo, da Girgenti i fratelli Grammitto. Mazzini incorava con le sue lettere di fuoco; e l’opera di propaganda e di preparazione era andata così alacremente innanzi, che s’aspettava per insorgere l’invio di quattrocento uomini, dal Mazzini promessi per guidare la rivoluzione. L’annunzio del prossimo viaggio del re Ferdinando arrestò il lavoro dei liberali, non le repressioni della polizia; anzi, avendo essi, di notte, listato di sangue il servile proclama del decurionato, che annunziava la venuta del re, il De Simone, il Pontillo e altri uguali strumenti del Maniscalco furono sguinzagliati in caccia di quanti erano sospetti amatori di libertà o secreti agitatori. E le carceri si empirono di nuovi arrestati, che tuttavia sfidando i pericoli della rigida vigilanza, corrispondevano coi compagni rimasti liberi.
(1856) Il comitato s’era ricostituito per impulso di Salvatore Cappello, e ne facevano parte Onofrio Di Benedetto, Tomaso Lo Cascio, Salvatore Buccheri e Giacomo Lo Forte. Si era posto in relazione coi fratelli Agresta di Messina, i fratelli Caudullo e Tomaso Amato di Cata­nia, i fratelli La Russa e Mario Palizzolo di Trapani, agitatori e anima anch’essi dei comitati di quelle città: corrispondeva in Marsiglia con Rosario Bagnasco, in Malta con Giorgio Tamaio e Fabrizi, in Genova coi fratelli Orlando, che lo mettevano in relazione con Crispi, Rosolino Pilo e Mazzini.
(1859) Il comitato direttivo di Palermo si era in quei giorni ricostituito con l’architetto Tomaso Di Chiara, col dot­tore Onofrio Di Benedetto, coi fratelli Salvatore e Raffaele De Benedetto, Salvatore Cappello, conte Antonino Fe­derico e Salvatore Buccheri: ad esso facevan indi capo per legame con questo o con quello dei membri, Gio­vanni Faija (non Emanuele o Antonino come altri scrisse), Domenico Corteggiani, Andrea Rammacca, Giovan Bat­tista Marinuzzi, Rosario Ondes-Reggio, Giuseppe Campo, il barone Pisani, Martino Beltrami-Scalia; e, allargan­dosi ancor più le fila, Francesco Perrone-Paladini, En­rico Albanese, Giuseppe Bruno-Giordano, Andrea d’Ur­so, Antonino Colina, molti altri, quasi tutti provati nella rivoluzione del 1848.
Altro convegno di liberali, senza formar per questo un vero comitato, s’adunava in casa del dottor Gaetano La Loggia, e vi convenivano, oltre il Pisani, Ignazio Federico, Antonino Lomonaco-Ciaccio, il barone Ca­marata-Scovazzo, i quali ben presto, per mezzo dei co­muni amici, entrarono e si fusero con quel comitato.
(1860) I vuoti prodotti dagli arresti infatti erano stati ricol­mi; nuovi comitati si costituivano, con vecchi e nuovi elementi, e con più fervore; autonomi dapprima, e quasi ignari l’un dall’altro; ogni quartiere ne aveva uno; poi per mezzo di cospiratori che entravano nell’uno e nell’altro, si mettevano in rapporti. I fratelli De Bene­detto, Antonino Lomonaco-Ciaccio, i due Pisani padre e figlio, il barone Camarata-Scovazzo, Enrico Albanese, il Beltrami-Scalia, il Marinuzzi, il Rammacca, il d’Urso, Ignazio Federico ne formavano uno; al quale poco dopo s’univano Gaetano La Loggia, Francesco Perrone-Pa­ladini, Mariano Indelicato, il Bruno-Giordano, Silvestro Federico, Salvatore Perricone. Contemporaneamente il principe Pignatelli, il barone Riso, il principino di Niscemi, il marchese di Rudinì, il padre Ottavio Lanza di maggiore autorità fra tutti, senza comporre un comitato vero e proprio, cospiravano anch’essi, tenendosi in rap­porto con la parte moderata e aristocratica dell’emigra­zione; ma entrati in relazione col comitato borghese, per mezzo del Pisani e del Brancaccio, non gli furono avari di aiuti e di incoraggiamenti. E il comitato si pose ala­cremente all'opera, spronato dalle lettere del Crispi, di Rosolino Pilo, degli Orlando, dell'Amari e degli altri esuli più ardenti; riordinava le fila della cospirazione coi comitati di Messina e Catania e del continente; Carmelo Agnese corriere postale e il Davì capitano marittimo portavano la corrispondenza; altra ne giungeva per mezzo del con­solato inglese e del consolato francese, il cui cancelliere Luigi Naselli, la mandava ai Campo e ai Peranni af­fidandola a Salvatore Tomasino, allora giovane e audace, ora vecchio e povero, abbandonato anche dall'arte sua di comico da cui traeva il pane.
(Maggio 1860): Tra queste agitazioni giungeva in Palermo la notizia dell’avvenuto sbarco di Garibaldi a Marsala; la quale empiva gli animi di speranze e di giubilo. Il comitato ne dava subito comunicazione al popolo con un piccolo avviso stampato alla macchia: “Garibaldi è con noi, e il suo nome suona vittoria. I nostri sforzi sono stati soddisfatti, compiuti i voti e le speranze. Non sia lordato di sangue il giorno del trionfo, e se nel periglio fummo intrepidi, siamo or generosi e magnanimi...”. 
Generosi verso i nemici che erano anch’essi Italiani.
Al quale proclama altro ne faceva seguire il giorno dopo, nel quale diceva al popolo “non esser più tempo di pacifiche dimostrazioni” dover ciascuno prepararsi alla lotta finale; ai soldati volgeva parole amichevoli, perché disertata la causa del tiranno e respinta ogni solidarietà col gendarme Maniscalco, si affratellassero col popolo. Da quel giorno imprendeva a stampare un “bollettino officiale” della rivoluzione, in contrapposto ai bandi e ai bollettini del governo.


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.
Il volume comprende:
Premessa storica tratta da Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo nella parte di storia che va dal 1812 alla rivoluzione del 1820.
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 544 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria.

Luigi Natoli: I fratelli De Benedetto. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860.

Erano tutti stati attivissimi nel cospirare e appre­star armi alla rivoluzione, rischiando la vita e contri­buendo largamente del loro patrimonio; Salvatore era stato arrestato poco tempo innanzi; Raffaele e Pasquale eran fuggiti alle ricerche della polizia, e s'erano uniti con Rosalino Pilo; poi avevano raggiunto Garibaldi, e il 27 maggio li trovò nelle prime file. Il 28, Salvatore, uscito con gli altri dal carcere, corse a trovarli, ma Raffaele giaceva per la grave ferita toccata il 27 al ponte dell'Ammiraglio, e soltanto Salvatore e Pasquale poteron prender parte ai combattimenti che si svolge­vano nella città. Ora difendevano con le squadre e coi volontari la barricata del palazzo Carini; Pasquale audace, ferito già da una scheggia, pugnando a petto scoverto, cadeva colpito nuovamente da una palla al fianco; Salvatore, che gli stava di presso, accorso per sostenerlo, aveva da un'altra palla passato il cuore: caddero abbracciati sulla barricata, all'ombra della loro bandiera. 
Questa dei De Benedetto fu una famiglia di eroi per nulla inferiore a quella dei Cairoli. Raffaele combattè al ‘48, cospirò nel decennio di preparazione, fu coi fratelli massima parte della rivoluzione del 4 aprile, fu ferito a Palermo, seguì Garibaldi ad Aspromonte, combattè nel Trentino, morì eroicamente a Monte San Giovanni nel 1367, dinanzi a Roma. Salvatore e Pasquale morirono sulle barricate. Anche i due minori fratelli Luigi e Carmelo aiutarono le rivoluzioni, sebbene ancor giovinetti.

Nella foto il ritratto di Raffele De Benedetto esposto al Museo di Storia Patria di Palermo.

 

Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. 
Il volume comprende: 
Premessa storica tratta da Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo nella parte di storia che va dal 1812 alla rivoluzione del 1820.
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 544 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
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lunedì 14 novembre 2022

Antonino Cutrera: La nascita della Compagnia dei Bianchi. Tratto da: Cronologia dei giustiziati di Palermo 1541-1819.

Nella quaresima dell’anno 1541 venne a predicare nella cattedrale di Palermo, fra Pietro Paolo Caporella da Potenza, dell’ordine dei minori conventuali di San Francesco, il quale si fece iniziatore di due istituzioni, che ancora non esistevano nella nostra città: la fondazione del Monte di Pietà, intesa a liberare i poveri dalle esorbitanze dell’usura e la costituzione di una Compagnia, simile a quella fondata da S. Giacomo della Marca in Napoli, dedicata all’assistenza spirituale e morale dei condannati all’estremo supplizio.
Tali progetti furono ben accolti dal Vicerè D. Ferrante Gonzaga, principe di Molfetta, e dal Senato Palermitano. Difatti, nello stesse mese di aprile 1541 con la contribuzione del Senato di Palermo e di alcune cospicue famiglie, sorse il Monte della Pietà, e per opera del Vicerè, sorse la Compagnia del SS. Crocifisso della dei Bianchi, la quale dovea prestare: “aiuto et ausilio di quelli poveretti: i quali per la giusticia sonno condennati alla morte considerato che per li passati tempi erano questi andati alla morte senza consiglio et ricordo alcuno, in modo che molti di questi tali afflitti andavano di sorte, che lo più delle volte si dubitava del loro esito”.
Con l’autorizzazione del Vicerè, e sotto la direzione dello stesso Caporella, alcuni gentilhomini et honorate persone, si riunirono nella chiesa di S. Maria della Candelora presso l’ospedale di San Bartolomeo (La chiesa della Candelora era dietro l’Ospedale di S. Bartolomeo, ove sin dal 1533 esisteva una compagnia di nobili, chiamata della Carità, la quale aveva per istituto l’assistenza degli ammalati dell’Ospedale di S. Bartolomeo) per determinare tutto ciò che era necessario al nascente sodalizio. Dopo alcuni giorni, i neo confrati, avendo bisogno di un luogo più comodo, si riunirono nella chiesa di San Nicolò, dietro il convento di S. Francesco dei PP. Minori Conventuali. Essi furono in numero di quaranta e gettarono le basi del nuovo sodalizio, il quale non era riconosciuto ufficialmente.
Intanto il Vicerè diede incarico ai nuovi confrati di assistere due delinquenti condannati alla forca, e il “secondo del mese di Maggio 1541 con la gratia di quel pietoso Signore Christo Giesù benedetto questa santa et felice Compagnia uscì in campo con felicissimo principio, et non senza gran frutto delle anime di quelli che si giustitiarono perché mai mansueti agnelli come quelli andarno alla morte disposti verso del Signore accompagnate delli Angeli adorno al beato porto della salute. Il che quanta letitia donò a tutta la felice patria di Palermo, lodando tutti il Signore di tanto buono et Santo beneficio incominciato, non si potrebbe scrivere”.


Antonino Cutrera: Cronologia dei giustiziati di Palermo 1541-1819. 
Grazie alla preziosa consultazione dei suoi archivi, in particolare quelli curati dai gentiluomini della confraternita addetti al conforto morale e religioso dei condannati a morte, nasce quest’opera di Antonino Cutrera integrata con note del Mongitore, Villabianca, Auria, Pirri, Paruta, Di Marzo, Zamparrone, La Mantia ed altri ancora. Costituisce un completo e fedele studio dei secoli bui della giustizia terrena. Da questo l’autore esclude solo le esecuzioni capitali, che si fecero per sentenza del Tribunale dell’inquisizione, rimandando ad altri lavori precedentemente pubblicati.
Pagine 396 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store online e nelle migliori librerie.

Luigi Natoli: Le prime aspirazioni liberali e il giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi. Tratto da Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860

Scoppiava la rivoluzione francese, che scuoteva dai cardini gli ordinamenti ancora medioevali della società, e gettava le fondamenta di un nuovo diritto pubblico. Le monarchie ne erano sgomente. La Corte di Napoli, assolutista, arrestò quel moto di riforme, che lentamente andava rinnovando lo Stato, più e meglio in Napoli, che in Sicilia, dove ostava la tenace resistenza dell’istituto parlamentare. La politica estera ondeggiò fra le paure, e le incertezze: si temettero moti interni; ogni aspirazione liberale fu detta giacobinismo; il sospetto guidò gli atti a una reazione. Tre giovani furono nel 1793 impiccati a Napoli, non rei che di innocua simpatia; ma più serio pericolo provocarono in Palermo altre condanne.
Già erano entrate le dottrine rivoluzionarie con la massoneria che aveva logge in Palermo, in Messina, in Catania, in Siracusa e nei minori centri; onde vi furono arresti, prigionie, processi, le cui carte si trovano ancora nell’Archivio di Stato. Vittima più illustre però fu l’avvocato Francesco Di Blasi, cadetto di nobile famiglia, dotto, autore di opere pregiate, giurista, che imbevuto delle dottrine rivoluzionarie, attirati alcuni giovani, fra cui dei militari, tutti della borghesia e delle maestranze, cospirò per abbattere il Governo, e proclamare la repubblica in Sicilia, fidando più nella generosità delle idee, che nella sicurezza dei mezzi. Doveva la rivolta scoppiare nella Settimana Santa del 1795, reggendo la Sicilia l’arcivescovo Lopez y Rojo, successo al Caramanico, improvvisamente morto: ma un delatore, certo Teriaca, avvertì l’Arcivescovo e il Comandante delle Armi, generale Walmoden. Il Di Blasi e i compagni furono arrestati e sottoposti a giudizio: egli, torturato, non accusò che sé stesso. Fu condannato con Giulio Tenaglia, Benedetto La Villa e Bernardo Palumbo; egli ebbe mozzato il capo, gli altri furono impiccati, il 31 di maggio nel piano di S. Teresa, oggi Indipendenza, tra lo squallore della città, e sotto la minaccia delle artiglierie del Palazzo. 
Prima di andare al supplizio il Di Blasi scrisse due sonetti. Furono essi i primi caduti per le nuove idee nel regno di Sicilia.(*)
Gli eccessi e le carneficine del Terrore e più il vilipendio della religione avevano suscitato nel clero di Sicilia e nelle popolazioni un grande orrore pei “giacobini”, i quali erano rappresentati come belve, nemici delle cose più sante: donde l’odio aumentato dalla tradizionale avversione pei francesi, che strinse la Sicilia intorno al trono. Cosicchè, calati i francesi in Italia, e temendo il Re un’invasione, l’Isola non fu sorda alle richieste di uomini e di denari. I grandi feudatari levarono milizie, le città offrirono le somme che poterono. Né la pace segnata fra il re Ferdinando e la Repubblica francese nel 1796 dissipò i timori.

Son note le vicende del regno di Napoli in quegli ultimi anni del secolo: la rottura della pace nel 1798, richiese nuovi sacrifici ai due Regni: si requisì l’oro e l’argento dei privati, che però non risposero tutti, pavidi di non esserne ricompensati.
Riaccesa la guerra con la Francia, re Ferdinando occupò guasconescamente Roma; ma i suoi eserciti, furono sconfitti ed egli ritornò rapidamente a Napoli; imbarcatosi la notte del 23 dicembre sul Vanguardia, vascello della squadra inglese, con la famiglia, la corte, l’ambasciatore britannico e le opere d’arte più pregiate, salpò per Palermo. Dopo una tempestosa traversata, nella quale morì il figlioletto Alberto, vi giunse la notte del 25, improvvisamente. La notizia, diffusasi per la città, destò commozione. Accolto con applausi, sbarcò prima il Re, e il giorno dopo verso sera la Regina. I Sovrani subito si misero all’opera per fortificare la Sicilia e riconquistare il regno perduto, mentre a Napoli entravano i Francesi, e vi istituivano la Repubblica Partenopea.
La Sicilia, illudendosi di riconquistare con la sua fedeltà il Re, e vedere di nuovo risplendere l’antica reggia, fece ogni sforzo per aiutarlo. Si lasciò depauperare, ordinò tre reggimenti, costruì cannoniere, offrì milizie volontarie, come se quella guerra fosse stata cosa sua. La Corte ebbe con sé in quel tempo la nobiltà per calcolo, le plebi per ignoranza e le vane speranze di miglioramenti, il clero per interesse e fanatismo; i faccendieri per speculazione; ma nel ceto medio intellettuale v’erano molti che vagheggiavano nuovi ordinamenti liberi, ed erano avversi alla Corte, che lo sentiva. Del resto l’Isola non era tranquilla; e non solo per cagione della guerra, ma pei disordini che scoppiavano qua e là contro i giacobini veri o supposti; donde scene di barbarie disonorevoli, cui si abbandonavano le plebi fanatiche.
Anche la nobiltà in qualche modo mutata, non fu servile; e quando la Corte abbandonò la Sicilia, non dissimulò il suo malcontento.

(*) L'autore illustra ampiamente la figura del giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi nel romanzo storico Calvello il Bastardo. 


Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.
Il volume comprende:
Il volume contiene:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 544 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
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Luigi Natoli: Noi in Sicilia demmo alla causa dell'Unità centinaia di morti... Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860

Nel 1820 i Palermitani erano soli, e senza capi, e cacciarono le truppe napoletane, che eran cinquemila uomini con cannoni e cavalleria; e nel 1848 erano solissimi, quando costrinsero le truppe regie a lasciare Palermo. Le statistiche dànno che i siciliani combattenti non superarono le due migliaia, e i borbo­nici erano in Palermo, coi rinforzi sopraggiunti dodicimila! (127). E la lotta fra i regi fortificati nelle caserme e nel Castello, e il popolo della città e delle campagne, durò semplicemente ventisei giorni. Per ventisei giorni un popolo, bombardato, combattè; e non posò le armi se non quando l'ultimo dei regi, fuggendogli innanzi, lungo la marina di Solunto, non s'imbarcò. Non so quale altra città d'Italia abbia, fra le sue mura, combattuto ven­tisei giorni! Ma allora, forse, o le squadre e il popolo non si erano sufficientemente addestrati a fuggire, o erano d'accordo coi regi!
E sedici mesi dopo, quando le truppe borboniche, comandate dal Satriano, marciano su Palermo? Ma guar­date un po’ che cosa viene in testa alle squadre citta­dine! Invece di addestrarsi a fuggire, tengono in scacco per tre giorni i Napoletani; e non posan l'armi che per onorevole capitolazione.
E dopo il 4 aprile 1860? Piana, Mezzoiuso, Misil­meri, Alcamo, Partinico, Carini insorgono e mandano squadre sopra Palermo. Queste squadre incominciano una guerra tormentosa, e perfino compiono qualche eroico gesto. Duecento uomini o poco più, nel villaggio di S. Lorenzo, attaccati il 5 aprile da una forte colonna di regi, non soltanto non fuggono, ma fanno indietreg­giare i regi stessi: i quali tornano con cavalleria, e due altre compagnie fresche; perdono trenta uomini, e son costretti a ritirarsi un'altra volta. E di questi episodi ne avvengono a Bagheria, a Lenzitti, dovunque.
Il 21 maggio 1860, alla Neviera, queste squadre, che da oltre un mese vivevano sui monti, dormendo allo sco­perto, bagnati dalla pioggia, soffrendo la fame, sosten­gono l’urto di tre colonne borboniche. Vi perdono la vita, fra gli altri, Rosalino Pilo e Pietro Piediscalzi, ma salvano Garibaldi dall'essere assalito a Renda; ciò che nella migliore ipotesi lo avrebbe costretto a ritirarsi sopra Castrogiovanni; e addio rivoluzione. Questa è storia documentata; ma nondimeno si continuerà a ripe­tere che le squadre nel 1860, per compiacere il signor Guerzoni, il signor Luzio, e compagnia, fuggivano!
Rendere omaggio a quelli dei Mille che mori­rono o ebbero ferita, è dovere: ma tacere i nomi dei Siciliani caduti, negare anzi che si siano battuti, peg­gio ancora calunniarli, non è soltanto ingiustizia, è viltà.
Ma il torto è però nostro. Dal 4 aprile a tutto il 1860, noi in Sicilia demmo alla causa della libertà e dell'unità centinaia di morti; dei quali non raccogliemmo i nomi, nè si seppe mai chi fossero. I morti dei volon­tari potevano essere identificati agevolmente, con l'aiuto dei registri dell'Intendenza; ma quelli delle squadre, no. Neppure i capi-guerriglia conoscevano i nomi dei loro uomini; quei contadini lasciavano le loro terre, le loro case, le loro famiglie; andavano a ingrossare una squa­dra, combattevano, taciti, senza chiedere altro che il loro pane e le munizioni; morivano avvolti nello stesso silenzio; nessuno domandava chi erano, donde venivano; e i più, la gran maggioranza, restò ignota, anonima, senza postuma gloria, senza compianto, senza onori. Martiri oscuri diedero la vita alla Patria e non conte­sero la gloria a nessuno.


Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. 
Il volume comprende:
Il volume contiene:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni 1935

La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 544 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
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martedì 7 giugno 2022

Mercoledì 8 giugno presentazione del libro: Francesco Bentivegna. Storia della rivolta del 1856 in Sicilia... di Spiridione Franco.


 Alla Gioventù Italiana, 

A voi giovani, dedico quest’umile mio lavoro, dal quale emerge una breve pagina delle nostre sofferenze per arrivare alla sospirata mèta, l’unità della Patria. 
Onoratelo di un vostro sguardo, e da esso apprenderete che a voi incombe il dovere di reclamare le altre Provincie tuttavia soggette allo straniero qualunque sia il sacrifizio che vi possa costare. 
Nel novembre 1856 insorse in Mezzojuso, mia patria il barone Francesco Bentivegna, mentre Salvatore Spinuzza sollevava Cefalù. Traditi, entrambi vennero fucilati, il Bentivegna in Mezzojuso il 21 dicembre 1856, e lo Spinuzza in Cefalù il 14 Marzo 1857. Non per questo la bandiera della rivolta cessava un istante di sventolare ovunque, finché nel 1860 colla venuta di Garibaldi e dei suoi mille eroi abbiamo vinto. 
È in onore del martire Francesco Bentivegna, che io mi sono indotto a pubblicare queste pagine perchè la gioventù impari da lui come si debba contenere in faccia ai tiranni, e come morire intrepidamente per la patria.
Non è un libro d’arte che io offro, perchè la rivoluzione interruppe i miei studii, nè più mi permise di riprenderli, ma è un racconto genuino di tutto quanto ho visto coi miei occhi, essendo stato di tutti gli avvenimenti della mia patria testimonio, e parte.
Leggetelo, studiatelo con amore, o giovani carissimi, questo racconto quanto sincero, altrettanto fedele, e così comprenderete quanto dobbiate gelosamente custodire l’unità della Patria, che a noi è costata tanto sangue e tanti sagrifizii.

Spiridione Franco
20 aprile 1899

venerdì 27 maggio 2022

Luigi Natoli: L'ingresso delle squadre siciliane a Palermo narrate dal diario dell'Eber... Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860

 
“L'avanguardia (dei nostri) invece di sorpren­dere il posto militare del ponte fu ricevuta da un ben nutrito fuoco non solo di fronte, ma ai fianchi, dalle vicine case: la qual cosa gettò una certa confusione fra i Picciotti, che non avevano mai fatta la guerra”.
Una certa confusione; non dice altro l’Eber che stava a fianco di Garibaldi e di Turr, e osservava: non fughe, non sparizioni, o altra simil cosa, inventata per sciocca esaltazione del valore altrui: e della confusione egli, che non ne risparmia nessuna alle squadre, dà anche la spiegazione. Dimenticò dire, però, e forse nol seppe allora, che ciò non ostante i picciotti sostennero il primo fuoco dei regi e che i primi caduti furono pre­cisamente alcuni capi squadriglia, Rocco La Russa, Pietro Lo Squiglio e Pietro Inserillo.
“Mentre i trenta o quaranta uomini dell' avan­guardia” (quelli di Tukory) –  continua l’Eber – “sostenevano il fuoco, giunse in fretta il primo batta­glione dei Cacciatori, e poichè neanche questo potè espu­gnare celermente la posizione, vi fu spedito anche il secondo. I Napoletani all'impeto dei nostri retrocedono: i Picciotti “ (senta, senta anche questa il Luzio) “i Picciotti si rinfrancano alla voce dei capi e in ispecie del Generale e affrontano il fuoco che partiva dalla Porta di Termini”. E qui poteva aggiungere quali altri delle squadre furon feriti, e ricordare per lo meno Raf­faele Di Benedetto: ma non monta.
“.... Oramai era necessario che tutte le forze di Ga­ribaldi entrassero nella città, a fine di evitare d'esser aggrediti alle spalle dai regi che stavano al piano dei Porrazzi. Per ovviare a tale pericolo fu dato ordine che alcune delle bande si appostassero dietro i muri dei giardini.... Queste diversioni e forse anche la ripugnanza a combattere in aperta campagna, furono bastevoli a far fronte al pericolo....; finchè la maggior parte degli uomini delle squadre furono dentro. Nel tempo stesso fu innalzata una barricata per guardarsi le spalle; il che piacque tanto ai Picciotti che ne vollero fare un'altra di rimpetto.... Onde animare i Picciotti, un carabiniere genovese prese quattro o cinque seggiole, vi piantò sopra una bandiera tricolore e vi sedette tranquilla­mente per qualche tempo. L'esempio fece meraviglioso effetto e i Picciotti furono visti fermarsi nello stradale, intrepidamente, scaricando i fucili”. 
Come mai il Luzio non lesse questo racconto dell'Eber? O forse perchè mandava all'aria un altro pezzo della verità pura e semplice del Nievo, si consigliò di sopprimerlo? Ma poichè nè egli lesse tutto Eber, nè questi, e con lui gli altri storici, approfondirono le loro ricerche, racconterò io alcuni altri particolari, che attin­go alla narrazione del Mastricchi e a documenti.
La prima compagnia che passò il ponte fu quella di Carini, della quale facevano parte Alessandro Ciaccio, Giuseppe Campo e Giuseppe Bracco-Amari, mandata avanti con fra Pantaleo, perchè essendovi molti siciliani, potevan meglio riordinare e guidare i Picciotti. I quali vergognandosi di quell'istante d'incertezza, seguirono e si confusero coi volontari, ed entrarono con loro in città. E questo dice anche l'Abba.
Uno dei primi ad entrare fu Leopoldo Mondino, come risulta da documenti del 1860, firmati dal Cenni.
Dopo Nullo, che a cavallo, d'un balzo, attraversò il crocicchio di Porta di Termini, passò Luigi Bavin Pu­gliesi, che piantò la bandiera sulla barricata di Porta di Termini, dopo di lui, Pasquale Mastricchi.
Chi fu mandato pei giardini per proteggere alla sinistra i volontari, fu l'abate Rotolo, con la squadra dei Lercaresi, il quale costrinse la cavalleria appostata nella strada del Secco, a fuggire: a destra fu mandato Vin­cenzo Fuxa, alla testa di altre squadre, che attraversati gli orti, si gittò nella Villa Giulia, donde superando lo stradone di S. Antonino, ora Via Lincoln, spazzato dalla mitraglia, entrò in città dalla porta Reale, quasi nel tempo stesso che Garibaldi entrava da Porta di Termini.
Queste non sono lettere inviate ad alcuna Bice, sono storia, testimoniata dall'Eber; suffragata dai documenti, dinanzi alla quale le allegre bravate del Nievo, e quella “verità pura e semplice”, e quelle squa­dre “addestrate più a fuggire, che a combattere” non fanno far certo una bella figura a chi le ha inventate. Povere squadre, le quali per sessantacinque giorni osteg­giarono i borbonici; combatterono tre dì per le strade di Palermo; lasciarono centinaia di morti sparsi e sui monti e tra le barricate, ignoti, umili, silenziosi, per non aver altra ricompensa che la calunnia e il dispregio da coloro stessi che, via! pur si avvantaggiarono dei loro sangue!
Oh no, questo non è generoso, non è bello, e sopratutto non è giusto; e il Luzio ripubblicando e dando valore di storia alla sciagurata lettera del Nievo, ha, creda pure, diminuito la gentilezza di cui coloravamo la figura del poeta soldato. Con un po' di prudenza e con maggior serenità egli ci avrebbe risparmiata la pena di vedere in uno dei gloriosi compagni di Garibaldi, in uno di coloro al cui petto Palermo con fraterna ricono­scenza apponeva il simbolo tricuspide della Sicilia, qual­cosa tra il Lelio goldoniano e il Miles plautino.


Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana nel 1860. Fa parte di: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. Raccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931) 
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 575 – Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Lafeltrinelli.it, Amazon Prime, Ibs e tutti gli store online. 
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica e nelle migliori librerie

Luigi Natoli: Quel 27 maggio caddero ardenti patrioti... Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860

Cade fe­rito Raffaele De Benedetto; cadono morti, prime vittime della gloriosa giornata, il dottore Rocco La Russa, il ca­valiere Pietro Lo Squiglio, Pietro Inserillo popolano; giovani, ardenti di fede, s’erano da tempo votati alla libertà della patria; compivano ora il voto, morendo di­nanzi le mura della città, ove i destini della terza Italia si decidevano.
Tukory, il nobile ungherese, dinanzi ai suoi, dopo aver oltrepassato il ponte, si avanza; una palla gli rompe il ginocchio; cadono feriti lì presso Benedetto Cairoli, Giorgio Manin, Stefano Canzio, Daniele Piccinini; Bixio è ferito anch’esso. La Masa accorre, obliando l’alterco, gli domanda affettuosamente: – “Sei ferito?” – “Non è nulla, grazie;” – risponde Bixio sorridendo, si toglie da sé la palla e ritorna a combattere.
Ludovico Tukory, ferito il 27 al ponte dell'Ammiraglio, trasportato all’ospedale del principe di S. Lorenzo, dopo aver subito l’amputazione della gamba, vi moriva la sera del 6 per sopravvenuta cancrena. Garibaldi ne diede l’annuncio con commoventi parole. Il cadavere fu il giorno dopo accompagnato da tutti i garibaldini ancor validi, dal popolo, da’ signori; e non vi mancarono dame che vollero testimoniare il loro cordoglio per la morte del prode straniero. Lungo il tragitto, dai balconi della via Maqueda, le donne si inginocchiavano, bianche e silenziose, e gittavan fiori sulla bara.
Ludovico Tukóry di Koros Hadany in Ungheria, aveva trentadue anni; aveva combattuto sotto il generale Bem per la sua patria, poi era andato in Turchia. Nel ‘59 aveva con altri ungheresi seguito Garibaldi in Lombardia contro il comune oppressore; si era segnalato a Varese e a Como, ed era stato fra i primi a correre allo scoglio di Quarto. Impavido, avventuroso, audace, aveva nel pallido volto e negli occhi profondi tutti i sogni della sua razza.
Insieme a lui morì lo stesso giorno Michele del Mastro di Ortodonico che nel Cilento, aveva preso parte ai rivolgimenti di Napoli del 1848; esule in Genova, seguì Garibaldi e con lui combattè alla di­fesa di Roma. Venuto in Sicilia, semplice soldato nella 6a compagnia, fu ferito al braccio il 28, in quella stessa barricata ove cadevano i fratelli De Benedetto ed era ferito Francesco Cucchi, bergamasco. Riusciti vani i soc­corsi dell’arte, Michele del Mastro morì il 9 giugno. La città e i compagni gli resero solenni onoranze, ed egli fu provvisoriamente deposto in una tomba accanto a quella di Tukory, nella chiesa di S. Antonino.
All’uno e all’altro diede con calda enfasi l’ultimo sa­luto fra Giovanni Pantaleo.
(Nella foto: lapide ai fratelli Salvatore e Pasquale De Benedetto, in corso Vittorio Emanuele)


Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana nel 1860. Fa parte di: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. Raccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:
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La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
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I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931) 
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Luigi Natoli: Sorgevano intanto ovunque barricate... Tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo.

Sebbene si sapesse dal Comitato che Garibaldi doveva venire quel giorno, la Piazza della Fieravecchia all’entrare dei volontari era deserta: le case e le porte chiuse. Forse il Comitato non se l’aspettava per quell’ora. Il popolo non sapeva nulla. Ma quasi subito da tutte le case si rovesciò una folla di uomini e donne, vecchi e fanciulli; la piazza si riempì. Accorse il Comitato: il Dittatore diede a stampare il suo proclama, che subito fu divulgato, col quale annunziava che era entrato in Palermo. Indi compose il Comitato provvisorio suggerito da Crispi; per la guerra presidente il conte Federico, segretario G. B. Morana; per l’annona presidente il barone Turrisi, segretario il padre Francesco Di Stefano; per l’interno presidente il Dr. Gaetano La Loggia, segretari Emanuele Sartorio e Giovanni Muratori; per le finanze Paolo Amari presidente, segretario il padre Ugdulena; per le barricate l’architetto Michele Mangano presidente, Carmelo Trasselli segretario. Così, provveduto ai bisogni più urgenti, Garibaldi seguito dai suoi aiutanti, dai cittadini e dai volontari, lasciò la piazza Fieravecchia e venne in piazza Bologni. Scavalcato nel portone del palazzo Villafranca, tolse la sella alla sua cavalla Marsala; ma una pistola cadde dalla fondina ed esplose. Si credette a un attentato, e fu grande sgomento; ma il Generale era illeso, e sorridendo posò a terra la sella, si sdraio, vi appoggiò il capo e si addormentò tranquillamente. 
Dopo qualche ora Garibaldi, consigliato da Crispi e dai cittadini portò il quartiere generale nel Palazzo municipale, ove si era insediato il Comitato provvisorio. Ma egli sedette ai piedi della fontana. Sirtori aveva frattando spinto volontari e squadre nei punti più strategici. Bisognava rompere le comunicazioni fra il Comando Generale Borbonico e le truppe: impedire raggiramenti, lasciar libero il passo alle squadre che sopraggiungevano: obbligare le truppe nemiche a concentrarsi nella piazza del Palazzo reale e chiuderlo in un cerchio di fuoco. 
Sorgevano intanto ovunque barricate. Da ogni casa povera o ricca si offrivano mobili, carri, carrozze, botti, materassi, tutto ciò che poteva sbarrare; altre più solide se ne costruivano con le lastre delle strade, muraglie, che si fornivano di sacchi e si tramutavano in fortini, a breve distanza l’una dall’altra. 
Corrao intanto, lasciati i monti, la notte, attraverso le campagne, riusciva, alle spalle della caserma di S. Francesco di Paola, ad attaccare i regi. Più fiera la lotta al bastione di Porta Montalto, che per quel giorno non si potè espugnare.

Intanto il bombardamento infieriva dal Castello e dalle navi, rovinando case e seminando morte. Grande era il numero dei feriti; non bastando gli ospedali, se ne improvvisarono nei conventi degli Scalzi e di Casa Professa, nella chiesa di Sant’Anna e di S. Domenico e uno già preparato, dalla vigilia, dal principe di S. Lorenzo nel suo palazzo. Altri feriti accolse il Ragusa nel suo Albergo della Trinacria. Tutte le famiglie offrivano letti, lenzuola, bende; le suore mandavano sfilacce, conserve e rosoli; dalle donne della nobiltà alle donne del popolo, chi poteva, serviva i feriti; i migliori chirurghi offrirono gratuitamente l’opera loro; frati e preti si moltiplicavano. Gara di carità, e di patriottismo, alla quale corrispondevano gesti eroici. Fra’ Pantaleo e il padre Tamburello si cacciavano col Crocifisso in mano, dove più fervevano i combattimenti: l’inglese Eber, testimonio oculare, notava le ingegnose iniziative dei «picciotti» nello snidare i regi; i popolani scherzavano al rombare delle bombe; si gittavan per terra, e allo scoppio gridavano: Viva Santa Rosolia!
Più audaci i giovinetti, quando qualcuna cadeva con la miccia ancora accesa, le si gettavano sopra, e le strappavano la miccia. L’Acerbi, l’Uziel, il Rechiedei dei Mille sfidavano temerariamente la mitraglia; una cannonata uccise in un colpo l’Uziel e il Rechiedei poco innanzi del Monastero di S. Caterina.
Per tre giorni Palermo si tramutò in una bolgia infernale, le truppe regie erano state respinte verso il Palazzo reale: grande il numero dei feriti, scarsi i mezzi per curarli....


Luigi Natoli: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo. 
Pagine 511. Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
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Luigi Natoli: Da Gibilrossa a Palermo, la notte del 27 maggio 1860... Tratto da: Storia di Sicilia.

 
La creazione del campo di Gibilrossa, decisiva per lo svolgimento dell’impresa garibaldina, fu il capolavoro del La Masa. Lanciando proclami magniloquenti, come era sua natura, organizzava squadre, faceva proclamare la dittatura di Garibaldi, eleggeva governatori. Raccoglieva così a Gibilrossa più di tremila uomini. La Masa battezzò queste masse 2° Corpo dell’Esercito Meridionale, Cacciatori dell’Etna, e nel linguaggio comune furono chiamati «picciotti», perchè giovani quasi tutti.
Alle 3 del mattino La Masa scese a Misilmeri; Garibaldi volle essere informato, e poco dopo salì sul colle, dove le squadre del La Masa lo accolsero con tale entusiasmo, che egli ne ebbe lietezza. Dopo, tenuto un consiglio, se fosse il caso di aspettare rinforzi dal Continente o piombare subito a Palermo, e interrogati i capisquadra se avevano fiducia nei propri uomini, ed avutane assicurazione, Garibaldi si fece innanzi sul ciglio del colle, mirò nell’ampia valle la città, e disse: «Domani dunque a Palermo».
Stabilito ciò, Garibaldi spedì un avviso al Corrao, accampato all’Inserra, perché facesse ogni sforzo per entrare a Palermo dal lato opposto. Prima di sera salirono sul colle alcuni ufficiali di marina americani, fra cui un giovane travestito, Michele Amato-Pojero, che portava nascosta una pianta di Palermo con la indicazione delle posizioni borboniche. E quel giorno stesso lo Stato Maggiore borbonico, tratto in inganno dalla finta ritirata dell’Orsini, pubblicava un bollettino, nel quale annunziava che «la banda di Garibaldi incalzata» si ritirava verso Corleone; gli insorti, delusi, si andavano disperdendo. Questo bollettino, avendo parvenza di vero, e nulla il popolo sapendo di Garibaldi, né il Comitato avendo più il tempo di diramare il suo bollettino, diffuse nei più incertezza e timori.
Verso le sette della sera del 26, levato il campo, le squadre e gli insorti cominciarono la discesa pei dirupi, che durò circa cinque ore. A mezzanotte, ordinatisi, cominciarono a marciare innanzi le squadre col La Masa, poi i volontari. Ordine rigoroso non fumare, non accendere zolfanelli, tacere, non far rumore. Bisognava assalire di sorpresa gli avamposti e impedire che dessero l’allarme. Due incidenti turbarono la marcia: un cavallo fuggì e fu creduto un assalto di cavalleria; la colonna ondeggiò, ma fu un istante; si riconobbe il fatto e se ne rise. Più grave l’altro incidente: i giovani di una squadra, non avvezzi a disciplina, ardendo di sete, giunti alle fresche sorgenti della Favara, si fermarono a bere, impedendo e ritardando la marcia. Accorse Bixio, irruento secondo la sua natura, e cominciò a percotere gli assetati, che stavano per rispondere con pari violenza: ma sopravvenuto La Masa, li frenò, e si risentì col Bixio; corsero fiere parole; ma l’intervento di Sirtori placò le ire. Riordinate le schiere, e postisi alla testa, come guide, trenta garibaldini comandati da Ludovico Tuköry, si riprese il cammino.
Il Comando generale borbonico, sicuro della ritirata di Garibaldi, inseguito dal Von Meckel, non aveva provveduto alla difesa di questo punto. Le sue forze erano concentrate a ponente, dove erano fin allora avvenuti gli scontri. Aveva soltanto dislocate due compagnie con due cannoni a S. Antonino, che dominavano il crocicchio formato dalla via dei Corpi Decollati, (ora corso dei Mille), e lo stradone di S. Antonino (ora via Lincoln); al crocicchio innanzi Porta di Termini aveva posto una barricata con una compagnia; gli avamposti avevano fortificato sul Ponte dell’Ammiraglio e su quello vicino detto delle Teste, scaglionando mezzo squadrone di cavalleria, in una strada detta del Secco, diagonale fra Sant’Antonino e lo stradale dei Corpi Decollati; Garibaldi sapeva tutto ciò.
Necessaria dunque la sorpresa per entrare nel cuore della città. Ma i picciotti delle prime squadre, tutti della provincia, giunti alle prime case credettero essere arrivati a Palermo, e levate alte grida tirarono qualche fucilata, a cui i regi destatisi risposero con una scarica, chiamando alle armi. Avvenne un attimo di disordine. Qui i picciotti si sparpagliarono, alcuni salirono nelle case, il che produsse un rigurgito della seconda squadra; ma Tuköry si slanciò coi trenta volontari sul ponte, Bixio spinse la 7^ compagnia Carini a sorreggerlo; e questo esempio, le rampogne dei capi, la voce potente di fra Pantaleo che, levato alto il Cristo, corse fra le fucilate, trascinarono come un torrente i picciotti. Lo stradale è guadagnato: ma al crocicchio bisogna fermarsi, pel fuoco incrociato da S. Antonino, ove i regi fuggiaschi si sono concentrati, e da mare dove si è impostata una fregata napoletana. Il momento è tragico: soltanto l’audacia può guadagnare la giornata. 
Il Nullo allora, colto l’istante, sprona il cavallo e salta la barricata: Francesco Carbone, con un balzo vi corre, e vi pianta una bandiera, sedendovi accanto: e dietro a lui Luigi Bavin Pugliese e poi, mescolati insieme, a gruppi volontari della 7^ con Carini, e picciotti tra una cannonata e l’altra.
Sono circa le sei e mezzo del mattino, quando Garibaldi con Türr, con lo Stato maggiore si ferma alla Fieravecchia. E allora la campana di Montesanto comincia a suonare a martello.
Quel primo combattimento ebbe le sue vittime. Primi a cadere furono Pietro Lo Squiglio, Rocco la Russa, Pietro Inserillo delle squadre; furono feriti Raffaele De Benedetto, Tuköry, Benedetto Cairoli, Giorgio Manin, Stefano Canzio, Daniele Piccinini; Bixio è colpito da una palla di rimbalzo.


Luigi Natoli: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo. 
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venerdì 20 maggio 2022

Giuseppe Ernesto Nuccio: Centolingue narra la morte dell'eroe... Tratto da: Picciotti e garibaldini.

 

Qui il racconto di Centolingue s’era rotto, spezzato. Ora veniva il momento di annunziare la sciagura grande. Pispisedda, Cacciatore, Sautampizzu e don Gaetanino ansimavano come se, allora allora, avessero percorso un impervio sentiero montano.
- Conta, – ripetè Indovino – conta. – E Centolingue riprese il racconto. Ma questa volta più rapidamente, a sbalzi, quasi seguisse il ritmo del cuore di tutti: – Sulle balze di Sagana raggiunsero Rosolino Pilo. Questi accorse incontro al Calvino e lo abbracciò esclamando: “Era certo che tu non potevi mancare!”. Tutto il giorno e tutta la notte piovve a cielo rotto. Gli uomini delle squadre e i loro capi stavano rannicchiati lungo i pendii, sotto la rovescia che mai non restava. Il giorno dopo scesero al convento di San Martino. I monaci li accolsero come fratelli. Rosolino Pilo scrisse a Pietro Tondù perchè venisse al convento con centinaia di picciotti armati. Ordine del Generale. Scrisse anche a Garibaldi avvertendolo che si trovava nel monastero con duecentocinquanta picciotti e che, il domani, avrebbe fatto venire Giovanni Corrao con i suoi centocinquanta, dalla Neviera. Aveva stabilito di far mostra d’assalire i borbonici sul Castellaccio e dar modo a Garibaldi di avanzare verso Monreale. Ma il nemico, la mattina del ventuno, temendo di essere assalito, prende l’offensiva avanzandosi in tre grandi colonne: una si dirige verso il monte Boarra per attaccare i picciotti di Pietro Piediscalzi, l’altra s’avvia al Pioppo contro le avanguardie dei garibaldini, la terza colonna va crine crine, per la piccola Meta, mirando a conquistar il monte della Neviera con l’intento di sorprendere alle spalle le squadre di Rosolino Pilo che si riposano nel convento di San Martino. Si odono già gli squilli delle trombe nemiche; si vedono le lunghe file dei soldati regi snodarsi e salire da San Martino. Il crepitìo delle fucilate e il rombo del cannone che spara dal Castellaccio si fanno a mano a mano più alti. Turi è accanto a Rosolino Pilo e a Corrao nel convento, mentre la banda intona inni patriottici.
Ma giungono dei messi e avvertono che i regi già sono sulla Meta e tentano di conquistare il monte Neviera. Giovanni Corrao raccomanda a Rosolino Pilo di non muoversi, dà un balzo e grida: “Picciotti, avanti!”. I picciotti lo seguono per la via mulattiera che si snoda e s’arrampica sul monte Neviera. Balzano come caprioli, l’uno dietro l’altro, a catena. Eccoli sulle creste, sul crine, stagliati sul cielo che diventa sempre più luminoso. Si sparpagliano, s’acquattano a coppie, e gridando “Viva l’Italia!” cominciano a far fuoco. I regi, infinitamente più numerosi, a masse larghe, compatte, rispondono al fuoco e avanzano. Giovanni Corrao – i neri capelli folti e arruffati al vento – balza da un punto all’altro incitando i suoi picciotti, che avanzano sempre. Alcuni dei più ardimentosi, hanno già percorso a lanci la costa del monte, e traversata la gola; ora si arrampicano sulla Meta stessa dove le truppe regie procedono lentamente in massa, coperte a tratti da una lunghissima nube di fumo. Ormai lo scroscio altissimo delle fucilate e il rombo del cannone, che rugge, sul Castellaccio, giungono a folate sul basso, alla badia di San Martino. Rosolino Pilo l’ode, scatta in piedi, esce, balza avanti. Lo seguono Calvino, Soldano, Turi e gli altri pochi picciotti rimasti. Fanno la viottola a lanci. Ora, al crepitìo dei fucili e al rombo del cannone si aggiungono le grida dei nostri, che combattono sulle creste: “Viva l’Italia! Viva l’Italia!”.

Eccoli a mezzo la costa. Giovanni Corrao da su una cresta li travede, li riconosce, e grida a Rosolino Pilo:
“Non salite, non salite fin qua, c’è un fuoco d’inferno!”.
Ma Rosolino Pilo sorride. Ha raggiunto il Corrao e sta impavido a guardar il nemico; e scorgendone soltanto una parte continua a salire ancora, fino a quando non giunge sul Pizzo. Soldano gli è sempre vicino. Arrivano fin là raffiche di fucilate come zaffate di grandine avventate dal turbine.
Ormai i regi salgono d’ogni parte. Anche i cacciatori del colonnello Bosco si avvicinano verso San Martino impedendo così la ritirata ai picciotti. Ma questi, sparpagliati d’ogni parte, da dietro le rocce, dalle fosse, sparano instancabilmente. Sulla Sierra dell’occhio una folla di contadini li incoraggia levando alte le mani e gridando “Viva l’Italia!”. Tratto tratto i picciotti chiedono munizioni. Corrao balza di qua e di là, animando e assicurando che le munizioni giungeranno. Rosolino Pilo l’ode, si caccia dentro il cavo di due massi e chiama Soldano: “Bisogna correr da Garibaldi e domandar munizioni”. Poggia un foglio sulle spalle del messo e scrive il biglietto. Il sole balena sulla sua testa luminosa che sovrasta i massi. Le raffiche delle fucilate continuano, sollevando intorno nugoli di polvere, e mordendo i massi. Di quando in quando vengono, commisti, il rombo del cannone lontano, le note squillanti delle bande e i gridi dei combattenti e quelli dei contadini, che, da sulla Sierra dell’occhio, incitano i nostri.
Ma a un punto Giovanni Soldano non sente più su la spalla la mano che scrive; si volta, vede che Rosolino Pilo annaspa e cade rovescio sulla terra: intorno ai capelli d’oro si dilata una macchia di sangue. Soldano dà un grido, si getta sul ferito chiamando: “Don Rosolino, don Rosolino!”.
Ma il ferito è scosso da forti strattoni e non parla, non geme: solo gli occhi turchini appaiono stravolti e s’appannano. Soldano fa urli disperati. Accorrono Giovanni Corrao, Salvatore Calvino, Turi e altri che combattevano poco discosto, sul basso. Corrao, Calvino, Soldano, si gettano sul ferito urlando di rabbia e d’angoscia:
“Rosolino, Rosolino, fratello, fratello!...”.
Turi si sente scoppiare il cuore! Il sangue dilagava intorno al capo mentre tutti stavano chini, reggendo il ferito, con i visi stravolti dall’angoscia. Uno della squadra, certo Canepa, carinese, lavò le due ferite: una tra i capelli d’oro presso l’orecchio, l’altra sulla fronte: fiore rosso sulla neve purissima; e come s’accorse che tra il sangue c’era anche la massa cerebrale e che il viso si faceva di cera e la luce dell’occhio s’appannava, a gli altri, che gli urlavano, con gli occhi vitrei e gonfi, la domanda angosciosa: “Vive? Vivrà?” egli non seppe rispondere che scotendo tristemente il capo.... Ormai il sangue non fluiva più; il viso bianco s’era fatto di cera e l’occhio non aveva più luce.
Allora tutti, muti, senza guardarsi l’un l’altro, ringoiando il pianto che montava, serrando nel cuore l’angoscia straziante, stettero un attimo, così com’erano, piegati sul morto. Giovanni Soldano, il mento sul petto, le labbra serrate, raccolse con le mani tremanti la borsa e la mise nelle mani del Corrao ch’erano rattrappite come quelle del morto; poi, delicato, gli tolse anche la fascia tricolore e se la mise sul cuore; quindi, come per un’intesa comune (durando le raffiche di piombo e il selvaggio grido dei soldati mercenari, che pareva s’avvicinassero), tutti insieme, delicatamente, levarono il morto e calarono a passo a passo per la costa del monte. Turi reggeva il capo biondo dell’eroe, perchè non penzolasse, e si sentiva tra le dita la massa dei capelli morbidissimi color dell’oro nuovo che, ondeggiando, parevano gettar baleni di raggi sul bruno della terra già pregna del suo ultimo sangue.


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1860, che narra la rivoluzione siciliana agli occhi di coraggiosi adolescenti. Con le illustrazioni dell'epoca di Diego della Valle. 
Pagine 523 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon Prime, Ibs, La Feltrinelli.it e tutti gli store online.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica e nelle migliori librerie di Palermo. 

Giuseppe Ernesto Nuccio: "Centolingue" racconta il suo incontro con Rosolino Pilo. Tratto da: Picciotti e Garibaldini

Rosolino Pilo era instancabile; notte e giorno a correr per tutto. L’ultimo a buttarsi sulla nuda terra per riposarsi appena due o tre ore e il primo a levarsi; spesso la pioggia lo flagellava; e i suoi, che gli volevano un bene pazzo e quel Soldano ch’era come la sua ombra, lo costringevan a ricoverarsi un poco nella casetta del Monaco, o in qualche grotta, dove, spesso, Centolingue e Turi gli portavano i viveri che andavano a prendere alle falde del monte nella casa di Giovanni Ferranti, tutta ricinta e celata da spessi carrubi.
Trovavano Rosolino Pilo sempre intento a scriver lettere, a dare ordini, a conversar con gli altri capi, e, sempre, con quel suo dolce e buon sorriso nel volto roseo incorniciato dalla lunga capigliatura d’oro e dalla barba dove pareva s’avvicendassero riflessi d’oro e di fuoco. Li accoglieva sempre lieto e, prima di prender un boccone, domandava se tutti si fossero rifocillati. Una volta sola lo videro vibrar tutto d’ira. Erano venuti a riferirgli che, alcuni giovani delle squadre, arsi dalla sete, si erano dati a ingollar vino su vino, giovandosi di alcuni barili pieni, allora allora arrivati. Ed egli si scagliò su di essi, a sgridarli e a menar piattonate a dritta e a manca. Ma quelli, anzichè adontarsi gli domandaron perdono; e qualcuno, sorridendo, gli baciò la bella mano fine e rosea che li colpiva. Sicchè anch’egli poi aveva finito per sorridere e la sua voce era tornata dolce e le parole buone. Allora s’infiammò tutto e parlò della patria, dell’Italia grande, come era stata al tempo dei Cesari. E parlò della sua vita di passione durata tanti anni. E disse, con lagrime di gioia, che quello sbarco in Sicilia, ch’egli aveva preparato cinque anni avanti, in Genova, con lo stesso Garibaldi, ora, finalmente era avvenuto. Garibaldi era nell’isola e si avvicinava a loro a grandi marce. E non aspettavano che lui per calare su Palermo, Palermo la bianca, la bella, la grande! – E Rosolino Pilo, bello, infiammato, con quel nimbo d’oro lucente sul capo, salì su una roccia e additò la città tutta bianca, chiusa dal verde della pianura e dal turchino del mare, che pareva aspettasse.... Poi raccontò che, anche due anni avanti, con Giovanni Corrao – il leone, colui ch’era ricco di tutte le virtù del siciliano vero: fierezza, coraggio, risolutezza (le stesse virtù di quel Francesco Riso il quale aveva dato il primo squillo e il primo sangue) – avevano ritentato la spedizione che ora alfine si compiva.
Ah, che fiammate di entusiasmo accesero nei cuori dei giovani le parole di Pilo!
Ma ancora più bello, più grande, più vibrante fu poi il discorso che Rosolino Pilo fece il giorno 18, nella piazza di Carini, mentre il sole faceva lampeggiare i colori della bandiera italiana risvettante sul campanile della città libera e metteva baleni d’oro e di fiamma sui capelli e sulla barba del condottiero.
Tutto il popolo di Carini: vecchi, uomini armati, donne, fanciulli stavano a capo scoperto, muti come quando, rientrando la processione, il prete leva alto sulla folla il sacramento per benedirla.
- Udite, fratelli, le parole di Garibaldi. I suoi Mille, fiancheggiati dalle squadre dei picciotti, condotte dal Coppola e dai Sant’Anna hanno fatto morder la polvere a migliaia di soldati mercenari venduti al Borbone.
Il sangue dei garibaldini, venuti d’ogni contrada d’Italia s’è già confuso con quello dei nostri picciotti.... I mercenari del Re tiranno fuggono inseguiti alle reni dai nostri picciotti, che sbucano d’ogni villaggio e s’apprestano a unirsi a Garibaldi e gli corrono incontro.... Udite, fratelli, le parole di Garibaldi:
“Ieri abbiamo combattuto e vinto: i nemici fuggono verso Palermo. Le popolazioni sono animatissime e si riuniscono a me in folla. Domani marcerò per Alcamo. Dite ai Siciliani che è ora di finirla e che la finiremo presto: qualunque arma è buona per un valoroso, fucile, falce, magari un chiodo alla punta del bastone.
“Riunitevi a me ed ostilizzate il nemico in codesti dintorni, se più vi conviene!
“Fate accendere dei fuochi in tutte le alture che contornano il nemico, tirar quante fucilate si può di notte alle sentinelle e posti avanzati, intercettare comunicazioni, incomodarlo infine in ogni modo.
“Spero ci rivedremo presto!”.  
“Spero ci rivedremo presto!”.  
Un triplice coro di grida: “Viva Garibaldi! Viva l’Italia!” salutò le parole del Duce dei Mille e il popolo fremente si strinse attorno a Rosolino Pilo, biondo e bello così come soltanto poteva esserlo Garibaldi stesso. Centolingue sotto sotto, confuso tra la folla, era riuscito a baciargli le mani.


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1860 che la rivoluzione siciliana vista dagli adolescenti. Con le illustrazioni dell'epoca di Diego della Valle. 
Pagine 523 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (Consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
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mercoledì 11 maggio 2022

Luigi Natoli: E i Mille entrarono in Marsala... Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione.

 
Avviatisi verso la città, sotto la mitraglia innocua dei cannoni borbonici, i Mille entrarono in Marsala verso le quattro del pomeriggio e ne occuparono le porte. Il Pentasuglia ed altri corsero a impadronirsi del telegrafo, che aveva già trasmessa al governo di Palermo notizia dello sbarco avvenuto: e domandandosi da questo più precisi particolari, il Pentasuglia rispose, per l’impiegato, aver preso abbaglio, trattarsi invece di navi cariche di zolfo. Poi ruppe il filo telegrafico. Ma a Palermo inte­sero che la mano del telegrafista non era la stessa, e capirono. Scrisse qualcuno e ripeteron poi gli altri, che a Marsala i Mille non ebbero accoglienze, o quasi ostili: e non è vero. Certo, non furono entusiastiche; perché lo sbarco era inaspettato, perché il cannoneggiamento dei borbonici atterrì e disperse la popolazione, e perché improvvidamente il Sirtori, appena sbarcato, sottopose la città a rigoroso stato d’assedio, riprovato dallo stesso Garibaldi; nondimeno, rassicurato dagli esuli siciliani, il popolo fece liete accoglienze e gentili offerte; e ciò Gari­baldi afferma nelle sue lettere e nelle sue Memorie; consacrò il Turr in un documento ufficiale; Guglielmo Ca­puzzi, dei Mille, in un suo libretto stampato nei primi di giugno del 1860; non senza sdegno, Giacinto Bruzzesi più volte in suoi scritti, e, testimonianza non sospetta, il capitano inglese Marryatt nella sua relazione all’Am­miraglio Foushawe.
Accantonate le truppe, provveduto alla difesa da possi­bili aggressioni, Garibaldi pubblicò due proclami. Uno, al popolo, e diceva: 
Siciliani!
Io vi ho guidato una schiera di prodi, accorsi all’eroico grido della Sicilia: resto delle battaglie lombarde. Noi siamo con voi; e non vi chiediamo altro che la liberazione della vostra terra. Tutti uniti, l’opera sarà facile e breve. All’armi dunque; chi non impugnerà un’arma è un codardo, un traditore della patria. Non vale il pretesto della mancanza di armi. Noi avremo fucili, ma per ora un'arma qualunque ci basta impugnata dalla destra di un valoroso. I municipi provvederanno ai bimbi, ai vecchi e alle donne derelitte. All’armi tutti; la Sicilia insegnerà ancora una volta come si libera un paese dagli oppressori con la potente volontà di un popolo unito.
 
GARIBALDI.


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. 
Il volume comprende: 
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" (I Buoni Cugini 2020)
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 544 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
www.ibuonicuginieditori.it