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venerdì 20 maggio 2022

Giuseppe Ernesto Nuccio: Centolingue narra la morte dell'eroe... Tratto da: Picciotti e garibaldini.

 

Qui il racconto di Centolingue s’era rotto, spezzato. Ora veniva il momento di annunziare la sciagura grande. Pispisedda, Cacciatore, Sautampizzu e don Gaetanino ansimavano come se, allora allora, avessero percorso un impervio sentiero montano.
- Conta, – ripetè Indovino – conta. – E Centolingue riprese il racconto. Ma questa volta più rapidamente, a sbalzi, quasi seguisse il ritmo del cuore di tutti: – Sulle balze di Sagana raggiunsero Rosolino Pilo. Questi accorse incontro al Calvino e lo abbracciò esclamando: “Era certo che tu non potevi mancare!”. Tutto il giorno e tutta la notte piovve a cielo rotto. Gli uomini delle squadre e i loro capi stavano rannicchiati lungo i pendii, sotto la rovescia che mai non restava. Il giorno dopo scesero al convento di San Martino. I monaci li accolsero come fratelli. Rosolino Pilo scrisse a Pietro Tondù perchè venisse al convento con centinaia di picciotti armati. Ordine del Generale. Scrisse anche a Garibaldi avvertendolo che si trovava nel monastero con duecentocinquanta picciotti e che, il domani, avrebbe fatto venire Giovanni Corrao con i suoi centocinquanta, dalla Neviera. Aveva stabilito di far mostra d’assalire i borbonici sul Castellaccio e dar modo a Garibaldi di avanzare verso Monreale. Ma il nemico, la mattina del ventuno, temendo di essere assalito, prende l’offensiva avanzandosi in tre grandi colonne: una si dirige verso il monte Boarra per attaccare i picciotti di Pietro Piediscalzi, l’altra s’avvia al Pioppo contro le avanguardie dei garibaldini, la terza colonna va crine crine, per la piccola Meta, mirando a conquistar il monte della Neviera con l’intento di sorprendere alle spalle le squadre di Rosolino Pilo che si riposano nel convento di San Martino. Si odono già gli squilli delle trombe nemiche; si vedono le lunghe file dei soldati regi snodarsi e salire da San Martino. Il crepitìo delle fucilate e il rombo del cannone che spara dal Castellaccio si fanno a mano a mano più alti. Turi è accanto a Rosolino Pilo e a Corrao nel convento, mentre la banda intona inni patriottici.
Ma giungono dei messi e avvertono che i regi già sono sulla Meta e tentano di conquistare il monte Neviera. Giovanni Corrao raccomanda a Rosolino Pilo di non muoversi, dà un balzo e grida: “Picciotti, avanti!”. I picciotti lo seguono per la via mulattiera che si snoda e s’arrampica sul monte Neviera. Balzano come caprioli, l’uno dietro l’altro, a catena. Eccoli sulle creste, sul crine, stagliati sul cielo che diventa sempre più luminoso. Si sparpagliano, s’acquattano a coppie, e gridando “Viva l’Italia!” cominciano a far fuoco. I regi, infinitamente più numerosi, a masse larghe, compatte, rispondono al fuoco e avanzano. Giovanni Corrao – i neri capelli folti e arruffati al vento – balza da un punto all’altro incitando i suoi picciotti, che avanzano sempre. Alcuni dei più ardimentosi, hanno già percorso a lanci la costa del monte, e traversata la gola; ora si arrampicano sulla Meta stessa dove le truppe regie procedono lentamente in massa, coperte a tratti da una lunghissima nube di fumo. Ormai lo scroscio altissimo delle fucilate e il rombo del cannone, che rugge, sul Castellaccio, giungono a folate sul basso, alla badia di San Martino. Rosolino Pilo l’ode, scatta in piedi, esce, balza avanti. Lo seguono Calvino, Soldano, Turi e gli altri pochi picciotti rimasti. Fanno la viottola a lanci. Ora, al crepitìo dei fucili e al rombo del cannone si aggiungono le grida dei nostri, che combattono sulle creste: “Viva l’Italia! Viva l’Italia!”.

Eccoli a mezzo la costa. Giovanni Corrao da su una cresta li travede, li riconosce, e grida a Rosolino Pilo:
“Non salite, non salite fin qua, c’è un fuoco d’inferno!”.
Ma Rosolino Pilo sorride. Ha raggiunto il Corrao e sta impavido a guardar il nemico; e scorgendone soltanto una parte continua a salire ancora, fino a quando non giunge sul Pizzo. Soldano gli è sempre vicino. Arrivano fin là raffiche di fucilate come zaffate di grandine avventate dal turbine.
Ormai i regi salgono d’ogni parte. Anche i cacciatori del colonnello Bosco si avvicinano verso San Martino impedendo così la ritirata ai picciotti. Ma questi, sparpagliati d’ogni parte, da dietro le rocce, dalle fosse, sparano instancabilmente. Sulla Sierra dell’occhio una folla di contadini li incoraggia levando alte le mani e gridando “Viva l’Italia!”. Tratto tratto i picciotti chiedono munizioni. Corrao balza di qua e di là, animando e assicurando che le munizioni giungeranno. Rosolino Pilo l’ode, si caccia dentro il cavo di due massi e chiama Soldano: “Bisogna correr da Garibaldi e domandar munizioni”. Poggia un foglio sulle spalle del messo e scrive il biglietto. Il sole balena sulla sua testa luminosa che sovrasta i massi. Le raffiche delle fucilate continuano, sollevando intorno nugoli di polvere, e mordendo i massi. Di quando in quando vengono, commisti, il rombo del cannone lontano, le note squillanti delle bande e i gridi dei combattenti e quelli dei contadini, che, da sulla Sierra dell’occhio, incitano i nostri.
Ma a un punto Giovanni Soldano non sente più su la spalla la mano che scrive; si volta, vede che Rosolino Pilo annaspa e cade rovescio sulla terra: intorno ai capelli d’oro si dilata una macchia di sangue. Soldano dà un grido, si getta sul ferito chiamando: “Don Rosolino, don Rosolino!”.
Ma il ferito è scosso da forti strattoni e non parla, non geme: solo gli occhi turchini appaiono stravolti e s’appannano. Soldano fa urli disperati. Accorrono Giovanni Corrao, Salvatore Calvino, Turi e altri che combattevano poco discosto, sul basso. Corrao, Calvino, Soldano, si gettano sul ferito urlando di rabbia e d’angoscia:
“Rosolino, Rosolino, fratello, fratello!...”.
Turi si sente scoppiare il cuore! Il sangue dilagava intorno al capo mentre tutti stavano chini, reggendo il ferito, con i visi stravolti dall’angoscia. Uno della squadra, certo Canepa, carinese, lavò le due ferite: una tra i capelli d’oro presso l’orecchio, l’altra sulla fronte: fiore rosso sulla neve purissima; e come s’accorse che tra il sangue c’era anche la massa cerebrale e che il viso si faceva di cera e la luce dell’occhio s’appannava, a gli altri, che gli urlavano, con gli occhi vitrei e gonfi, la domanda angosciosa: “Vive? Vivrà?” egli non seppe rispondere che scotendo tristemente il capo.... Ormai il sangue non fluiva più; il viso bianco s’era fatto di cera e l’occhio non aveva più luce.
Allora tutti, muti, senza guardarsi l’un l’altro, ringoiando il pianto che montava, serrando nel cuore l’angoscia straziante, stettero un attimo, così com’erano, piegati sul morto. Giovanni Soldano, il mento sul petto, le labbra serrate, raccolse con le mani tremanti la borsa e la mise nelle mani del Corrao ch’erano rattrappite come quelle del morto; poi, delicato, gli tolse anche la fascia tricolore e se la mise sul cuore; quindi, come per un’intesa comune (durando le raffiche di piombo e il selvaggio grido dei soldati mercenari, che pareva s’avvicinassero), tutti insieme, delicatamente, levarono il morto e calarono a passo a passo per la costa del monte. Turi reggeva il capo biondo dell’eroe, perchè non penzolasse, e si sentiva tra le dita la massa dei capelli morbidissimi color dell’oro nuovo che, ondeggiando, parevano gettar baleni di raggi sul bruno della terra già pregna del suo ultimo sangue.


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1860, che narra la rivoluzione siciliana agli occhi di coraggiosi adolescenti. Con le illustrazioni dell'epoca di Diego della Valle. 
Pagine 523 - Prezzo di copertina € 22,00
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