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mercoledì 10 ottobre 2018

Giuseppe Ernesto Nuccio e il 4 aprile 1860: Don Ciccio Riso raccoglie le armi... Tratto da: Picciotti e Garibaldini.

Attraversata la Cala, Pispisedda gettò uno sguardo sul Castello a mare, fosco, che pareva urlasse minacce dalle innumeri bocche delle feritoie; ma attorno alla statua del Santo vide alcuni monelli, i quali faceano la ronda con alte, gioconde grida come a sfidar il colosso immane.
Giunsero al Borgo. Il mare, a destra, battuto in pieno dal sole, avea vividi riflessi madreperlacei; a sinistra, dinanzi le piccole case dei pescatori, ruzzavan bimbi che parean fusi nel bronzo. In fondo alla piazza, il mercato risonava delle grida alte dei pescivendoli, che vociavano il pesce. Pareva a Pispisedda che, in quel luogo, la gente vivesse più libera che nella città, forse perchè stava sempre al cospetto del libero mare. Invece, più in là, l’immane mole della Vicarìa gettava tutt’intorno un vivo senso d’oppressione, tanto più che Pispisedda ebbe la visione di due occhi foschi dietro un finestrino; forse gli occhi folli di rabbia del povero Rocco.
Finalmente giunsero ai Colli. Giuseppe Bruno stava ad aspettarli.
Esaminò i barili; ma erano tuttavia bagnati. Non potevan recar le cartucce chè l’umidità le avrebbe guaste. E come si riparava? Come? Non c’era che da far asciugar presto i barili. Ma per far quello bisognò correr a Palermo e chiamar don Giovambattista Piazza il bottaio, il quale scoperchiò i barili, che, messi al sole, s’asciugarono ben presto. Allora otto furono ripieni di cartucce e quattro di vino. E si riprese la via del ritorno. Don Giuseppe Bruno e il fratello Domenico s’accompagnarono ai carrettieri. Pispisedda, ch’era rimasto lontano quando avevano riempito i barili e aveva fatto le viste di nulla accorgersi, ora veniva riguardando con aria smarrita quei fratelli Bruno di cui aveva sentito proclamar l’alto coraggio mostrato nella rivoluzione di dodici anni avanti. E bisognava, con quel carico, passar davanti all’uffizio daziario dove le guardie avrebbero saggiato l’interno dei barili. E se si fossero accorti che contenevano cartucce invece di vino? Non li avrebbero tratti immantinente alla fucilazione? Ma così saldo appariva l’animo di quelli, dalla imperturbata serenità dei visi, che Pispisedda non provò un momento di esitazione e accompagnò il cantilenare malinconioso dei carrettieri.
E giunsero all’ufficio del dazio che era accanto alla casina Airoldi. Quando le guardie s’avvicinarono al carro, Pispisedda sentì schiantarsi il cuore e serrò gli occhi. Visse un attimo di ansia vivissima, tese gli orecchi, parendogli d’udire, da un momento all’altro, le grida minacciose delle guardie. Ma non udì che la voce calma del carrettiere “Dodici barili: tutto vino!” e poi: “Baciamo le manu, brigadiere” e le zampate del cavallo e il cigolio delle ruote.... Salvi!
In piazza Ucciardone scontrarono Filippo Mortillaro, Giuseppe Bivona e Giuseppe Virzì.
- È arrivato bene il vino?
- Meglio non poteva arrivare.
Li aveva mandati don Ciccio Riso, il quale viveva in ansia. Giunsero in via Vetriera quattro ore dopo il tocco. Come giunsero, Pispisedda scorse don Ciccio Riso che accorreva incontro a loro con un lampo di viva gioia nell’occhio nero: – Bene! – mormorò; e non disse altro e aiutò febbrilmente a scaricar nella sua casa i barili.



Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico ambientato a Palermo nella Rivoluzione del 1859-60
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919, con le illustrazioni dell'epoca di Alberto della Valle. 
Prezzo di copertina € 22,00 - Pagine 511
Disponibile in libreria e in tutti i siti vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it

lunedì 1 ottobre 2018

Giuseppe Ernesto Nuccio e la rivolta della Gancia: la notte del 31 marzo 1860

E davvero pareva che tutto andasse bene!
La notte del 31 marzo Pispisedda e i suoi amici si trovavano accoccolati, come stessero a dormire, negli angoli di via Alloro. Pispisedda stava in un angolo dell’atrio della casa di don Enrico Albanese e doveva dare il segno a Centolingue che stava poco discosto, perchè facesse la voce del gatto se i birri fossero vicini e quella del cane se fossero lontani.
Soltanto Pispisedda conosceva la cagione di quella guardia, che egli e i suoi compagni facevano. Era l’Indovino, che, ignoto a molti, aiutava dall’ombra i preparativi per la rivoluzione. I picciotti non sapevano altro che questo: bisognava dare il segno se scorgessero pattuglie, senza conoscere a chi quel segno giovasse; i picciotti intendevano oscuramente che essi lavoravan contro i birri e rischiavan la libertà, e di questo erano paghi.
Pispisedda faceva le finte di russare per non mettere in sospetto quelli che potevano entrare; ma guardava sott’occhi quando, sotto la debole luce del fanale, passava qualcuno dei congiurati, che, rapidi, guardinghi, rasentando i muri venivano nella casa dell’Albanese.
Aveva scorto don Enrico Albanese a sbiluciar dalla finestra del suo studiolo nell’ansia dell’attesa. Ed ecco, l’un dietro l’altro, don Giambattista Marinuzzi, don Casimiro Pisani, don Ignazio e don Silvestro Federico e quindi don Giuseppe Bruno Giordano, don Antonio Lo Monaco, don Francesco Perroni Paladini, don Andrea Rammacca e don Antonio Urso, l’uno dopo l’altro, leggeri e muti a scivolar come ombre lungo il muro alto e a imbucarsi nell’atrio.
Ma la porta ancora non si serrava, e ancora, di quando in quando, Pispisedda intravedeva don Albanese affacciarsi a spiar nel cortile. Aspettavano qualche altro?
Pispisedda affissava la massa d’ombra che affittiva presso l’entrata, quand’ecco scòrse una piccola figura nera, come quella di un giovanotto. Non potè trattenere una esclamazione nello scorgere don Ciccio Riso che passava sotto la debole luce del fanale.
“C’era anche lui dunque?”.
E come questi entrò, la porta e gli scuri furono serrati. Non aspettavano altri, dunque.
Se c’era don Ciccio Riso voleva dire che quella notte avrebbero deciso la data della sommossa. Da mille segni Pispisedda aveva capito che don Ciccio Riso si spazientiva ad aspettare; lo irritava certamente quel discutere continuo, quell’andarsi radunando di qua e di là perdendo del tempo. Pispisedda lo aveva capito non dalle parole, ma dai gesti. Don Ciccio Riso taciturno com’egli era, usava parlare con se stesso e agire, non poteva soffrir quelle continue discussioni dove si disperdeva inutilmente tanto calor d’entusiasmo. Bisognava cominciar presto, facea capir sempre, perchè, da un momento all’altro, Maniscalco poteva scoprir quei preparativi, arrestar tutti e sequestrar le armi.
Dunque, certamente, quella notte, avrebbero presa una decisione definitiva, tanto più che Pispisedda aveva sentito raccontar dall’Indovino al Marchese, misteriosamente, che da Messina avevano annunziato, per i primi di aprile, lo sbarco di due famosi capi siciliani rivoluzionari del ‘48.
Oh se egli avesse potuto trovarsi, piuttosto che accovacciato come un cane nel cortile, framezzo a quegli uomini che stavano per dire: “Il tal giorno comincerà la guerra!”.




Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1859-60, che ha come protagonisti gli adolescenti che vissero la rivoluzione siciliana.  
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919 con le illustrazioni dell'epoca di Alberto della Valle.
Pagine 511 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Giuseppe Ernesto Nuccio e la rivolta della Gancia: Fedele incontra Francesco Riso - Tratto da: Picciotti e Garibaldini

All’imboccatura di via Vetriera, Pispisedda sussurrò a Fedele:
- Ora ti mostro l’entrata di Terrasanta, dove sono i magazzini di don Ciccio Riso. Guarda nel cortile della Gancia, così, a mano dritta. Lo scorgi quel portone sul quale stanno due braccia di pietra incrociate? Quello è il portone di Terrasanta: tu entri e ci trovi un giardinuccio mal tenuto; a mano dritta ci sono i cameroni dove serbiamo le armi. Ma guarda la casa di don Ciccio Riso: è dinanzi al portone di Terrasanta. Li vedi i mucchi di pietre, di calcina, di rena e le travi?... Quello è il posto dove si lavora.... Zitto, viene qualcuno. Tiriamo avanti per la via Vetriera.
Fedele non parlava; commosso dalle rivelazioni del suo amico Pispisedda. Come mai quel piccolo monello spensierato, giovialone, andava a cacciarsi in quei pericoli?
- Senti, – disse Fedele – e se Pontillo ti prendesse?
- Speriamo che non ne abbia il tempo!
- Ma se ti agguanta prima del....
- Così è il gioco; uno può perdere; ma può vincere.
- E se perdi?
- Se perdo faccio la fine di quelli della Fieravecchia.... To’, zitto, viene don Ciccio Riso. 
Fedele ebbe un sussulto a quel nome e affissò l’uomo che veniva avanti. Era un giovane di media statura, mingherlino, dall’andatura franca quasi spavalda; vestiva un abito di velluto marrone a righe e calzava corti stivali; sul petto gli svolazzava un’ampia cravatta turchina. Come giunse presso i due, li squadrò da capo a piedi, e fermandosi chiamò:
- Pispisè.
- Servo suo – rispose questi.
- Che vai facendo da queste parti?
- Niente, passavo col mio amico.
- Chi è?
- È Fedele, di Boccadifalco.
Fedele fissava don Ciccio Riso con un tremito nel cuore aspettando quasi, da quell’uomo parole straordinarie. Ma su quel viso color di bronzo caldo si rifletteva la luce di due grandi occhi penetranti, che scavavano l’anima e riflettevano l’intensa vita interiore. Era il viso d’un taciturno uso a parlar più con se stesso che con gli altri.
- Fedele ti chiami?... È un nome giusto.... Bravo! – gli disse don Ciccio Riso, battendogli la spalla. Stette un po’ indeciso come volesse aggiungere qualche cos’altro, poi bruscamente disse: – Vi saluto – e si allontanò rapidamente, scomparendo nel cortile.
- È ricco, – disse Pispisedda – ma alla mano, come un fratello; e tutti i muratori, i falegnami, i carrettieri, i fontanieri gli vogliono bene, un bene dell’anima; e quello che lui vuole, fanno; e se dice: buttatevi a mare, lo fanno anche. 
Si lasciarono nella discesa dei Giudici ripetendosi l’appuntamento per le cinque ore di notte dinanzi al teatro Carolino.



Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1859-60, che ha come protagonisti gli adolescenti che vissero la rivoluzione siciliana.  
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919 con le illustrazioni dell'epoca di Alberto della Valle. 
Pagine 511 - Prezzo di copertina € 22,00
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Nella foto: Francesco Riso.