E davvero pareva che tutto andasse bene!
La notte del 31 marzo Pispisedda e i suoi amici si trovavano accoccolati, come stessero a dormire, negli angoli di via Alloro. Pispisedda stava in un angolo dell’atrio della casa di don Enrico Albanese e doveva dare il segno a Centolingue che stava poco discosto, perchè facesse la voce del gatto se i birri fossero vicini e quella del cane se fossero lontani.
Soltanto Pispisedda conosceva la cagione di quella guardia, che egli e i suoi compagni facevano. Era l’Indovino, che, ignoto a molti, aiutava dall’ombra i preparativi per la rivoluzione. I picciotti non sapevano altro che questo: bisognava dare il segno se scorgessero pattuglie, senza conoscere a chi quel segno giovasse; i picciotti intendevano oscuramente che essi lavoravan contro i birri e rischiavan la libertà, e di questo erano paghi.
Pispisedda faceva le finte di russare per non mettere in sospetto quelli che potevano entrare; ma guardava sott’occhi quando, sotto la debole luce del fanale, passava qualcuno dei congiurati, che, rapidi, guardinghi, rasentando i muri venivano nella casa dell’Albanese.
Aveva scorto don Enrico Albanese a sbiluciar dalla finestra del suo studiolo nell’ansia dell’attesa. Ed ecco, l’un dietro l’altro, don Giambattista Marinuzzi, don Casimiro Pisani, don Ignazio e don Silvestro Federico e quindi don Giuseppe Bruno Giordano, don Antonio Lo Monaco, don Francesco Perroni Paladini, don Andrea Rammacca e don Antonio Urso, l’uno dopo l’altro, leggeri e muti a scivolar come ombre lungo il muro alto e a imbucarsi nell’atrio.
Ma la porta ancora non si serrava, e ancora, di quando in quando, Pispisedda intravedeva don Albanese affacciarsi a spiar nel cortile. Aspettavano qualche altro?
Pispisedda affissava la massa d’ombra che affittiva presso l’entrata, quand’ecco scòrse una piccola figura nera, come quella di un giovanotto. Non potè trattenere una esclamazione nello scorgere don Ciccio Riso che passava sotto la debole luce del fanale.
“C’era anche lui dunque?”.
E come questi entrò, la porta e gli scuri furono serrati. Non aspettavano altri, dunque.
Se c’era don Ciccio Riso voleva dire che quella notte avrebbero deciso la data della sommossa. Da mille segni Pispisedda aveva capito che don Ciccio Riso si spazientiva ad aspettare; lo irritava certamente quel discutere continuo, quell’andarsi radunando di qua e di là perdendo del tempo. Pispisedda lo aveva capito non dalle parole, ma dai gesti. Don Ciccio Riso taciturno com’egli era, usava parlare con se stesso e agire, non poteva soffrir quelle continue discussioni dove si disperdeva inutilmente tanto calor d’entusiasmo. Bisognava cominciar presto, facea capir sempre, perchè, da un momento all’altro, Maniscalco poteva scoprir quei preparativi, arrestar tutti e sequestrar le armi.
Dunque, certamente, quella notte, avrebbero presa una decisione definitiva, tanto più che Pispisedda aveva sentito raccontar dall’Indovino al Marchese, misteriosamente, che da Messina avevano annunziato, per i primi di aprile, lo sbarco di due famosi capi siciliani rivoluzionari del ‘48.
La notte del 31 marzo Pispisedda e i suoi amici si trovavano accoccolati, come stessero a dormire, negli angoli di via Alloro. Pispisedda stava in un angolo dell’atrio della casa di don Enrico Albanese e doveva dare il segno a Centolingue che stava poco discosto, perchè facesse la voce del gatto se i birri fossero vicini e quella del cane se fossero lontani.
Soltanto Pispisedda conosceva la cagione di quella guardia, che egli e i suoi compagni facevano. Era l’Indovino, che, ignoto a molti, aiutava dall’ombra i preparativi per la rivoluzione. I picciotti non sapevano altro che questo: bisognava dare il segno se scorgessero pattuglie, senza conoscere a chi quel segno giovasse; i picciotti intendevano oscuramente che essi lavoravan contro i birri e rischiavan la libertà, e di questo erano paghi.
Pispisedda faceva le finte di russare per non mettere in sospetto quelli che potevano entrare; ma guardava sott’occhi quando, sotto la debole luce del fanale, passava qualcuno dei congiurati, che, rapidi, guardinghi, rasentando i muri venivano nella casa dell’Albanese.
Aveva scorto don Enrico Albanese a sbiluciar dalla finestra del suo studiolo nell’ansia dell’attesa. Ed ecco, l’un dietro l’altro, don Giambattista Marinuzzi, don Casimiro Pisani, don Ignazio e don Silvestro Federico e quindi don Giuseppe Bruno Giordano, don Antonio Lo Monaco, don Francesco Perroni Paladini, don Andrea Rammacca e don Antonio Urso, l’uno dopo l’altro, leggeri e muti a scivolar come ombre lungo il muro alto e a imbucarsi nell’atrio.
Ma la porta ancora non si serrava, e ancora, di quando in quando, Pispisedda intravedeva don Albanese affacciarsi a spiar nel cortile. Aspettavano qualche altro?
Pispisedda affissava la massa d’ombra che affittiva presso l’entrata, quand’ecco scòrse una piccola figura nera, come quella di un giovanotto. Non potè trattenere una esclamazione nello scorgere don Ciccio Riso che passava sotto la debole luce del fanale.
“C’era anche lui dunque?”.
E come questi entrò, la porta e gli scuri furono serrati. Non aspettavano altri, dunque.
Se c’era don Ciccio Riso voleva dire che quella notte avrebbero deciso la data della sommossa. Da mille segni Pispisedda aveva capito che don Ciccio Riso si spazientiva ad aspettare; lo irritava certamente quel discutere continuo, quell’andarsi radunando di qua e di là perdendo del tempo. Pispisedda lo aveva capito non dalle parole, ma dai gesti. Don Ciccio Riso taciturno com’egli era, usava parlare con se stesso e agire, non poteva soffrir quelle continue discussioni dove si disperdeva inutilmente tanto calor d’entusiasmo. Bisognava cominciar presto, facea capir sempre, perchè, da un momento all’altro, Maniscalco poteva scoprir quei preparativi, arrestar tutti e sequestrar le armi.
Dunque, certamente, quella notte, avrebbero presa una decisione definitiva, tanto più che Pispisedda aveva sentito raccontar dall’Indovino al Marchese, misteriosamente, che da Messina avevano annunziato, per i primi di aprile, lo sbarco di due famosi capi siciliani rivoluzionari del ‘48.
Oh se egli avesse potuto trovarsi, piuttosto che accovacciato come un cane nel cortile, framezzo a quegli uomini che stavano per dire: “Il tal giorno comincerà la guerra!”.
Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1859-60, che ha come protagonisti gli adolescenti che vissero la rivoluzione siciliana.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919 con le illustrazioni dell'epoca di Alberto della Valle.
Pagine 511 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online.
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
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