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domenica 27 maggio 2018

Luigi Natoli: L'ingresso delle squadre a Palermo. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


“L'avanguardia (dei nostri) invece di sorpren­dere il posto militare del ponte fu ricevuta da un ben nutrito fuoco non solo di fronte, ma ai fianchi, dalle vicine case: la qual cosa gettò una certa confusione fra i Picciotti, che non avevano mai fatta la guerra”.
Una certa confusione; non dice altro l’Eber che stava a fianco di Garibaldi e di Turr, e osservava: non fughe, non sparizioni, o altra simil cosa, inventata per sciocca esaltazione del valore altrui: e della confusione egli, che non ne risparmia nessuna alle squadre, dà anche la spiegazione. Dimenticò dire, però, e forse nol seppe allora, che ciò non ostante i picciotti sostennero il primo fuoco dei regi e che i primi caduti furono pre­cisamente alcuni capi squadriglia, Rocco La Russa, Pietro Lo Squiglio e Pietro Inserillo.
“Mentre i trenta o quaranta uomini dell' avan­guardia” (quelli di Tukory) –  continua l’Eber – “sostenevano il fuoco, giunse in fretta il primo batta­glione dei Cacciatori, e poichè neanche questo potè espu­gnare celermente la posizione, vi fu spedito anche il secondo. I Napoletani all'impeto dei nostri retrocedono: i Picciotti “ (senta, senta anche questa il Luzio) “i Picciotti si rinfrancano alla voce dei capi e in ispecie del Generale e affrontano il fuoco che partiva dalla Porta di Termini”. E qui poteva aggiungere quali altri delle squadre furon feriti, e ricordare per lo meno Raf­faele Di Benedetto: ma non monta.
“.... Oramai era necessario che tutte le forze di Ga­ribaldi entrassero nella città, a fine di evitare d'esser aggrediti alle spalle dai regi che stavano al piano dei Porrazzi. Per ovviare a tale pericolo fu dato ordine che alcune delle bande si appostassero dietro i muri dei giardini.... Queste diversioni e forse anche la ripugnanza a combattere in aperta campagna, furono bastevoli a far fronte al pericolo....; finchè la maggior parte degli uomini delle squadre furono dentro. Nel tempo stesso fu innalzata una barricata per guardarsi le spalle; il che piacque tanto ai Picciotti che ne vollero fare un'altra di rimpetto.... Onde animare i Picciotti, un carabiniere genovese prese quattro o cinque seggiole, vi piantò sopra una bandiera tricolore e vi sedette tranquilla­mente per qualche tempo. L'esempio fece meraviglioso effetto e i Picciotti furono visti fermarsi nello stradale, intrepidamente, scaricando i fucili”. 
Come mai il Luzio non lesse questo racconto dell'Eber? O forse perchè mandava all'aria un altro pezzo della verità pura e semplice del Nievo, si consigliò di sopprimerlo? Ma poichè nè egli lesse tutto Eber, nè questi, e con lui gli altri storici, approfondirono le loro ricerche, racconterò io alcuni altri particolari, che attin­go alla narrazione del Mastricchi (130) e a documenti.

La prima compagnia che passò il ponte fu quella di Carini, della quale facevano parte Alessandro Ciaccio, Giuseppe Campo e Giuseppe Bracco-Amari, mandata avanti con fra Pantaleo, perchè essendovi molti siciliani, potevan meglio riordinare e guidare i Picciotti. I quali vergognandosi di quell'istante d'incertezza, seguirono e si confusero coi volontari, ed entrarono con loro in città. E questo dice anche l'Abba.
Uno dei primi ad entrare fu Leopoldo Mondino, come risulta da documenti del 1860, firmati dal Cenni.
Dopo Nullo, che a cavallo, d'un balzo, attraversò il crocicchio di Porta di Termini, passò Luigi Bavin Pu­gliesi, che piantò la bandiera sulla barricata di Porta di Termini, dopo di lui, Pasquale Mastricchi.
Chi fu mandato pei giardini per proteggere alla sinistra i volontari, fu l'abate Rotolo, con la squadra dei Lercaresi, il quale costrinse la cavalleria appostata nella strada del Secco, a fuggire: a destra fu mandato Vin­cenzo Fuxa, alla testa di altre squadre, che attraversati gli orti, si gittò nella Villa Giulia, donde superando lo stradone di S. Antonino, ora Via Lincoln, spazzato dalla mitraglia, entrò in città dalla porta Reale, quasi nel tempo stesso che Garibaldi entrava da Porta di Termini.
Queste non sono lettere inviate ad alcuna Bice, sono storia, testimoniata dall'Eber; suffragata dai documenti, dinanzi alla quale le allegre bravate del Nievo, e quella “verità pura e semplice”, e quelle squa­dre “addestrate più a fuggire, che a combattere” non fanno far certo una bella figura a chi le ha inventate. Povere squadre, le quali per sessantacinque giorni osteg­giarono i borbonici; combatterono tre dì per le strade di Palermo; lasciarono centinaia di morti sparsi e sui monti e tra le barricate, ignoti, umili, silenziosi, per non aver altra ricompensa che la calunnia e il dispregio da coloro stessi che, via! pur si avvantaggiarono dei loro sangue!
Oh no, questo non è generoso, non è bello, e sopratutto non è giusto; e il Luzio ripubblicando e dando valore di storia alla sciagurata lettera del Nievo, ha, creda pure, diminuito la gentilezza di cui coloravamo la figura del poeta soldato. Con un po' di prudenza e con maggior serenità egli ci avrebbe risparmiata la pena di vedere in uno dei gloriosi compagni di Garibaldi, in uno di coloro al cui petto Palermo con fraterna ricono­scenza apponeva il simbolo tricuspide della Sicilia, qual­cosa tra il Lelio goldoniano e il Miles plautino.



Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
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Luigi Natoli: L'opera di Giuseppe La Masa nel 27 maggio 1860. Tratto da Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


In cinque giorni il La Masa disciplinò alla meglio quel corpo irrequieto e inadatto a un vero ordinamento. Gli diede uno stato maggiore, un corpo di guide, una intendenza, una ambulanza. A capo vi erano uomini provati, che in tutte le campagne garibaldine diedero esempi di valore eroico: Luigi La Porta, Vincenzo Ga­ruso, Liborio Barranti, Luigi Bavin Pugliesi (129), Ga­spare Nicolai, Nicolò Di Marco, Giacomo Curatolo, Vito Signorino, Ignazio Quattrocchi, Rosario Salvo, Dome­nico Corteggiani, e cento altri. V'era Vincenzo Fuxa, venuto coi Mille, e Pasquale Mastricchi, zio dei Campo, veterano delle cospirazioni, che Garibaldi chiamò il “vecchio di Gibilrossa”. Come si vede non si tratta d'accozzaglia rumorosa, turbolenta, inadatta, e strac­ciata come spacciò il De Cesare, a cui nella “Fine d'un regno”  piacque di celiare: si tratta di una organizza­zione, non certamente perfetta, ma neppure tale da esser desiderabile farne a meno.
Garibaldi ci contò: e fece bene.
Quando la mattina del 26, alle 3, La Masa e Pa­squale Mastricchi calarono a Misilmeri, trovarono il Dit­tatore ancora a letto. Il Dittatore discusse la possibi­lità di una improvvisa entrata in Palermo, e soltanto dopo le assicurazioni del La Masa, disse a questo:
“Andate ad avvertire i picciotti che verrò a pas­sarli in rivista”.
E spediti i volontari sul colle, vi salì anche lui, poco di poi; e al vedere le squadre schierate e piene d'entusiasmo, sorrise; uditi i capisquadra, respinse il sugge­rimento di Sirtori, la ritirata cioè su Castrogiovanni, e deliberò di calare su Palermo.
Senza il concentramento delle squadre a Gibilrossa se lo mettan bene in testa gli storici, Garibaldi non avrebbe concepito il suo magnifico disegno, e il 27 mag­gio non sarebbe piombato su Palermo.
Si può a cose finite, celiare, e anche, se così piace, farneticare; si può dire quel che si vuole; ma allora, ridotti i Mille a poco più di settecento, laceri, male armati, stanchi, quel campo che formicolava di gente desiderosa di battersi, quel grido uscito da migliaia di bocche “A Palermo! A Palermo!” valsero a rialzare il morale dei legionari, a infonder loro la sicurezza della vittoria.
Quando altro non avesse dato il campo di Gibilrossa, basterebbe soltanto questo grandissimo concorso morale, per dargli capitale importanza; giacchè il signor Luzio sa meglio di me, che in una guerra condotta in condizioni disuguali fra le due parti, l’elemento morale è ragione principalissima di successo. Tacerne dopo, se non è prova di ignoranza, lo è certo di ingratitudine. Se le truppe borboniche furono sconfitte, oltre che per gli errori mastodontici dei loro capi, si deve anche e più allo avvilimento del loro morale.
Ma andiamo innanzi.
Garibaldi ordinò che si levasse il campo e incomin­ciasse la discesa, e che tutto il corpo si radunasse e ordinasse giù, nello stradale. La discesa cominciò al tra­monto. L'Eber nelle sue corrispondenze la descrisse minutamente, e salvo in qualche particolare, con una certa esattezza. Ma con maggior precisione è descritta da Pasquale Mastricchi. L'Eber infatti credette che le guide siciliane avessero sbagliata la strada: e invece si tratta di una diversione voluta da Garibaldi. Il Mastric­chi, con otto uomini scelti, marciava alla testa delle squadre, (che formavano, come si sa, la testa dell'eser­cito) per sollecitarle. Arrivato a Rappallo, Garibaldi lo raggiunse, lo fermò, gli fece accendere un fiammifero e guardò l’orologio. Segnava l’una. Domandò al Ma­stricchi, al “vecchio di Gibilrossa”, qual era la strada più corta dal punto dove si trovavano. Il Mastricchi la indicò. Ma dopo mezzo miglio Garibaldi per abbreviare ancora, fece piegare per un sentiero che conduceva alla Favara. Lì dinanzi al fondo Guccia, avvenne un diver­bio fra alcuni picciotti che s'eran fermati per bere, e Bixio, sedato e dalla prudenza del La Masa e dall'inter­vento del Sirtori. Ma se il Mastricchi, come siciliano può sembrare sospetto, lasciamolo lì; tanto più che ci avviciniamo a un'altra seconda fuga, consacrata dal Guerzoni che non c'era; e teniamoci all’Eber, che se ne stava a osservare, da buon reporter.


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Luigi Natoli: Le panzane degli storici sulla "presa" di Palermo. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Veniamo alla “presa” di Palermo. Le fonti a cui ricorse il Luzio le ho citate: ma per questa che egli chiama “presa”, quelli che cita di preferenza sono l'Eber, corrispondente del Times, testimonio di veduta, il Guer­zoni, il diario dell'ammiraglio inglese Mundj, e le lettere a Bice di Ippolito Nievo. Queste sono per lui il vangelo. 
Chi si aspettasse una bella e sicura ricostruzione della magnifica impresa compiutasi albeggiando il 27 maggio 1860, resterebbe deluso.... o stupito: il Luzio non dice nulla di nuovo; s'indugia però a rilevare.... che le squadre siciliane “erano più addestrate a fug­gire che a combattere”; e riporta un lungo brano di una lettera del Nievo, nella quale si dicono le cose più straordinarie: che “i Picciotti fuggivano d'ogni banda” che “Palermo pareva una città di morti”; che non ci era “altra rivoluzione che, sul tardi, qualche scam­panio”; che Garibaldi “entrò in Palermo con 40 uomini, conquistò piazza Bologna con 30” ed era “solo” “tutto al più con suo figlio, quando pose piede in palazzo Pre­torio”! Questo è niente. “Noi – scrive il Nievo da eccellente poeta e romanziere – correvamo per vicoli, per piazze, due qua, uno là, come le pecore, in cerca dei Napoletani per farli sloggiare, e dei Palermitani per far fare loro la rivoluzione o almeno qualche barri­cata.... “. E tralasciamo il resto, che riguarda l'esodo dei napoletani il 7 giugno. Il signor Luzio aggiunge in fine: “Queste note frettolose del Nievo, sono la pura e semplice verità”. Verità? Ma per affermare che questa è la verità bisogna sopprimere quelle corrispondenze dell'Eber, che il Luzio cita, e che dicono tutto il rove­scio. O il Luzio non lesse le corrispondenze dell'Eber, o egli, con poca onestà di storico, le altera.
Il Nievo ha, senza dubbio, scritto belle pagine; e parecchi anni or sono qualcuno scoprì che le Confessioni d'un ottuagenario, sono un capolavoro da stare accanto ai Promessi Sposi; e sarà pure. Il Nievo, se non avesse fatto quella fine dolorosa, sparendo nei gor­ghi del mare, misteriosamente, avrebbe certo dato alla letteratura altri saggi del suo bell’ingegno; ma il debito di riverenza per la sua memoria, non può nè deve impe­dirci di dire, con tutto il dovuto rispetto, che le lettere a Bice sono delle fantasie, per non dir altro. A nes­suno, fosse anche l'uomo più grande della terra, è lecito nascondere la verità.... per far risaltare vieppiù la virtù propria, fino al ridicolo.
La spedizione garibaldina, il genio di Garibaldi e l’eroismo dei suoi compagni non diminuiscono, nè sof­frono alcuna ingiuria dall'eroismo altrui; ne sono anzi lumeggiati e spiegati; e io scommetto che, se Ippolito Nievo fosse vissuto di più, rileggendo serenamente quelle lettere, sarebbe stato il primo ad esclamare:
“Come diamine ho fatto a lasciarmi scappare que­ste panzane?”.
E a guisa di commento, avrebbe aggiunto:
“Ah! faceva gran caldo, laggiù il 27 maggio 1860, ed il vino di Sicilia era traditore”.
Seguiamo il Luzio; il quale, sempre col lodevole intento di mostrare in quali condizioni singolari Garibaldi mosse sopra Palermo, e quanto più meravigliosa fosse la sua marcia, dice che Garibaldi non sapeva nulla di Palermo e che sulle posizioni delle truppe ebbe appena poche e generiche notizie dall'Eber, andato a trovarlo a Gibil­rossa.
Io dubito che il Luzio abbia letto tutte le corri­spondenze dell'Eber al Times, raccolte poi in un opu­scolo diventato raro, e ripubblicate nel volume Docu­menti e memorie della rivoluzione del 1860 (128). L'Eber dice, che un po' prima di lui, Garibaldi fu visitato da ufficiali della marina inglese e americana; e questo di­cono anche altri; i quali aggiungono, anzi, che da qual­che ufficiale il Dittatore si ebbe in regalo armi. Non dunque l’Eber soltanto potè fornire indicazioni; e me­glio e più poteva il Generale attingerne di quegli uffi­ciali, che erano gente di guerra.
Tutto ciò, dico, supponendo, come pare che sup­ponga il Luzio e suppongono gli altri narratori dell'epo­pea garibaldina, che in Palermo non si sapesse nulla della marcia di Garibaldi, e che tra il campo di Gibil­rossa, e il comitato rivoluzionario non vi fossero rela­zioni e corrispondenze.
L'Eber stesso dice che a Palermo “alcuni amici gli indicarono la via da tenere” per andare a Misilmeri e di là a Gibilrossa; e che “egli partì nella carrozza di uno di loro”. Questi amici, che avevan car­rozza propria in Palermo, non saranno stati certa­mente gli ufficiali delle navi inglesi. Qualcuno della colonia straniera? Può darsi; ma era appunto la colo­nia straniera, specialmente inglese e francese, quella che agevolava il carteggio dei rivoluzionari.
Ma ciò che l’Eber non poteva sapere, e che non è meno vero per questo, è che la mattina del 26 qual­che membro del Comitato andò al campo di Garibaldi per concretare i segni coi quali la città doveva essere avvertita dalla prossima discesa dei legionari; e che uno dei pretesi ufficiali inglesi era il giovane Michele Pojero travestito; il quale, come narrerò in altro luogo, portò a Garibaldi una pianta di Palermo, che s'era cinta a una gamba; cosicchè il generale sapeva quali e quante fossero le forze borboniche dalla parte di Porta di Termini, e come disposte; e sapeva che la resistenza sarebbe stata facilmente superabile. Il 26 maggio, il comitato a Palermo, sapeva già della prossima entrata di Garibaldi; il popolo, pur non avendone la certezza, sospettava qualche cosa; chi non sapeva nulla era il governo, che non trovò più un cane di spia. L'ultima spia fu un corriere postale, che passando il 25 da Misilmeri, e trovativi i capi delle squadre, il La Masa, il Fuxa, e tutte le forze rivoluzionarie, ne riferì a Mani­scalco. Ma il governo non osò assalire gli insorti, per­chè era prevalso il concetto di non dislocare le truppe da Palermo; tanto più che vi erano già fuori i famosi battaglioni di von Meckel e le colonne distaccate a Mor­reale e Boccadifalco...



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Luigi Natoli: Il raduno delle squadre siciliane a Gibilrossa - Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione.


Garibaldi chiamò a sé i capi delle squadriglie e i più noti liberali: v’erano Raffaele De Benedetto, l’abate Agostino Rotolo, Luigi Bavin-Pugliesi, Giovanni Forceri, il barone Di Marco, Ignazio Quattrocchi, Liborio Barrante, molti altri, ai quali domandò se fidavano nei loro uomini. Essi lo assicurarono. Stavano adunati sotto un olivo, e la notte magnifica stendeva sopra di loro la sua volta costellata; e pareva che le stelle col tremolìo delle loro fiamme si gloriassero dell’alta impresa che si maturava nell’ombra silenziosa e corruscante. Garibaldi si fece innanzi sul ciglio del colle, e mirò l’ampia valle che si allargava, la città dormente o vegliante, forse pavida del prossimo evento, e i monti in giro fiammeggianti, e disse: “Domani, dunque a Palermo”. Le quali parole semplici e senza enfasi, ripetè poco dopo Nino Bixio alle sue compagnie schierate, aggiungendovi, come riferiscono, un altro motto: “Andremo a Palermo o all’inferno!”. 
Stabilito ciò, il Generale spedì la guida Stassi al Corrao accampato all’Inserra, con l’ordine di fare ogni sforzo per entrare in Palermo, dal lato nord, la notte sopravegnente. 
E intanto quel giorno medesimo lo stato maggiore borbonico pubblicava il seguente bollettino: 

La banda di Garibaldi incalzata sempre si ritira in disordine, traversando il distretto di Corleone. Gli insorti che l’associavano, si sono dispersi e vanno rientrando nei rispettivi comuni scorati e abbattuti per essersi lasciati ingannare dagli invasori stranieri venuti per suscitare la guerra in Sicilia. Le reali truppe l’inseguono. 
Il Capo dello Stato Maggiore
V. Polizzy

E partiva per Napoli il colonnello Nunziante, portando, come un trofeo della vittoria, le spoglie tolte al povero Carlo Mosto, dei carabinieri genovesi, morto nella fazione di Parco!... E il generale Lanza se ne andava a dormire tranquillamente lieto di aver distrutto con tanta facilità il nemico, né dubitando punto della tempesta che fra poche ore gli sarebbe scoppiata sul capo.




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mercoledì 2 maggio 2018

Luigi Natoli: Rosolino Pilo e Giovanni Corrao e le squadre siciliane. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Rosalino Pilo-Goeni, dei conti di Capace, biondo e bello e di gentile aspetto, cuor di leone in gracile petto, cospiratore innanzi al 1848; combattente nella rivoluzione; esule, amico devoto di Mazzini, cooperatore della spedizione di Carlo Pisacane, anelava alla liberazione della Sicilia. Giovanni Corrao, popolano, nerissimo di capelli e di barba, volto tagliente e fiero, incolto, coraggio senza pari, combattente valoroso nel ’48, esule, non era meno ardente per la liberazione della sua terra. E venuto per tentare un moto, arrestato e confinato a Ustica, poi chiuso nella Cittadella di Messina, vi aveva languito fino al 1855. Liberato, ripresa la via dell’esilio, era tornato alle cospirazioni. Palermitani, della stessa fede, s’erano intesi.

Rosalino, per lettere inviate agli amici e per le assicurazioni ricevute, aveva manifestato a Garibaldi il proposito di andare in Sicilia, per capitanare la insurrezione e aprir la via alla spedizione che Garibaldi avrebbe dovuto guidare. Domandava perciò fucili e mezzi. Garibaldi ne lo dissuase, non giudicando maturi i tempi. Nessuno dei suoi amici credeva alla possibilità di un buon successo: non Medici, non Sirtori, non Bixio ancora; soltanto Crispi, Pilo, La Masa, La Farina, gli esuli siciliani tutti. E Pilo si ostinò. Non ebbe le armi che domandava. Ma non importava. Disse a Garibaldi di prepararsi, che egli andava a preparargli il terreno.

Il 26 di marzo egli e Corrao, soli, senz’altre armi che le loro rivoltelle, delle bombe tascabili e pochi fucili, con poco denaro fornito da Mazzini e dagli Orlando, soli col loro coraggio, con la loro fede, pronti al sacrificio, nella paranza di Silvestro Palmarini, pilota Raffaele Motto, argonauti della libertà, salparono da Genova, sebben sconsigliati da Garibaldi. Affrontarono le tempeste del Tirreno; videro la piccola nave lì lì per sommergersi; rischiarono di cadere su le spiagge napoletane; stettero quindici giorni fra cielo e mare con la morte sospesa sopra di loro. Ma si ostinarono a navigare, contro il parere del pilota e dei marinai. Il 10 di aprile sbarcarono alle Grotte presso Messina, dove Rosa Montmasson, moglie di Crispi li aveva preceduti...
Non trovarono in Messina la rivoluzione, perchè già le truppe regie avevano avuto il sopravvento. Spedite lettere a Crispi e a Bertani che affidarono al Mosto, nascoste le armi, raccolte notizie, partirono il 12 aprile in pelle­grinaggio di propaganda, non temendo le compagnie d'armi e le colonne mobili e i birri, che la polizia, avver­tita del loro sbarco, avrebbe sguinzagliato sulle loro tracce.
A Barcellona un vecchio liberale, pauroso degli ap­parati del Governo, li consigliò di non proseguire, comunicando che la rivoluzione di Palermo era fallita: rispose fieramente il Corrao non esser venuti in Sicilia per ritornare indietro, e che avrebbe preferito consegnar la testa al carnefice, piuttosto che esular novamente: eran venuti per la rivoluzione e l’avrebbero fatta, tanto più che forse in quell'ora Garibaldi si apprestava a venire. Pilo abbracciò commosso il compagno. 
Dopo otto giorni, incoraggiando, eccitando, racco­gliendo seguaci e mezzi, il 20 giunsero a Piana dei Greci, in punto per risollevare gli animi degli insorti un po' depressi dopo il combattimento di Carini, e forse sul punto di sciogliersi.
La loro presenza risollevò le speranze, e trattenne le squadre. Avvertito il comitato di Palermo del suo arrivo, e ricevutini soccorsi di denaro e promesse d'altri aiuti, Pilo convocò i principali e più vicini capi di squa­dre, La Porta, Firmaturi, Piediscalzi, Lo Squiglio, diede un primo assetto alle forze di cui disponevano; invitò gli altri capi; ben presto ebbe sotto di sè tutte le squa­dre, nell'altipiano dell'Inserra, buon punto strategico che domina due versanti. Ma poi trasportò il quartier generale a Carini, e attese a dare una certa organiz­zazione alle squadre. Pilo capo supremo, Corrao coman­dante di tutte le squadre, Pietro Tondù all' intendenza, Giuseppe Bruno-Giordano all' ispezione delle guide e dei corrieri, Giovan Battista Marinuzzi ufficiale pagatore, i preti carinesi Calderone e Misseri cappellani. I paesi circonvicini intanto mandavano il loro contributo di uomini e denari...



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Luigi Natoli: 27 aprile 1860. Muore l'eroe della Gancia. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Il 27 aprile moriva Francesco Riso. Trasportato sopra un carretto all'ospedale, vi subiva un primo interrogatorio dal commissario di polizia Carrega, che al cavaliere Balsano, deputato del pio luogo, testimoniava essersi il Riso “battuto come un leone”. Interrogato il domani dal giudice Uzzo, onesto magistrato, serbò il silenzio: la polizia tentò aver nelle mani il ferito, per sottoporlo chi sa a quali torture, non l’ebbe per la ferma resistenza di quei sanitari. Ciò non distolse il Maniscalco dal tormentare il Riso, non solo con gli inter­rogatori processuali, ma con mentite promesse e tristi lusinghe di liberargli il padre, già fucilato. E il 16 lo sottopose a lungo stanchevole esame, in segreto; col quale fece di poi compilare in ufficio un verbale dal giu­dice Prestipino, uomo di pochi scrupoli, sostituito all' Uzzo, giudicato onesto: il qual verbale allora e poi, diffusa ad arte la voce di gravi rivelazioni, offuscando il nome dell'eroico popolano, servì a discreditare gli uomini della rivoluzione.
Il Riso ebbe sentore delle dicerie, e qualche giorno prima di morire, se ne dolse amaramente, dicendole infamie; e si afferma aver richiesto una pistola per uccidere Maniscalco appena ripresentatosi. Ora, poichè, non ostante un vano divieto, del processo furono già estratte alcune copie, e qualcuna pubblicata, non sarà inutile fermarsi a parlarne con serenità. Gli interro­gatori che figurano nel processo sono tre: il primo è del 5 aprile, e il Riso serbò un rigoroso silenzio; l'ul­timo è del 17, compilato, cioè, dopo il colloquio col Ma­niscalco dal giudice Prestipino, per ordine del governo, come si rileva da una lettera del luogotenente generale dello stesso 17. Ora tra la relazione del direttore di polizia, riprodotta nella citata lettera, e il verbale del giudice Prestipino vi sono notevoli differenze: e soltanto si accordano nei nomi dei creduti componenti del comi­tato segreto; i quali, si noti bene, erano già noti alla polizia, ed erano quelli delle persone arrestate già fra il 7 e il 12, prima ancora, cioè, che il Riso avesse fatte le volute rivelazioni. Nessun altro nome vi figura; pure il Riso avrebbe potuto denunziare il Bruno-Gior­dano, il Tondù, i De Benedetto, il Marinuzzi, il Corteg­giani, l'Albanese, avrebbe potuto rivelare come e dove s'eran preparate le armi; avrebbe potuto dire il nome di chi aveva ferito il Direttore di Polizia. Le rivela­zioni non aggiungevano nulla a ciò che la polizia sapeva da altre fonti; e principalmente da G. Battista d'Angelo uno dei congiurati, che, preso il 4, non resistendo alle torture, fece propalazioni, indicò dov'erano nascoste le armi, fu cagione che la polizia mettesse a prezzo la testa del Bruno; e di lì a non molto fu trovato impic­cato alla inferriata del carcere. Rimorso o giustizia. 
Il documento e per le singolari condizioni onde venne redatto, e per la mancanza di forme legali e sopratutto della firma dell'interrogato, che pur sapeva leg­gere e scrivere, dà adito a non ingiustificati sospetti sulla sua autenticità e veridicità, in un tempo in cui la polizia creava anche documenti; e con uomini, conte il Maniscalco, che anelavano raccogliere prove o fabbri­carne, per procedere con estremi rigori contro gli arre­stati, e segnatamente i nobili.
Ho voluto indugiare su queste accuse per scrupo­losità di storico, e per ristabilire la verità; non sti­mando equo, per altro, il rigido giudizio di chi, credendo alle confessioni del Riso od esagerandone la portata, vorrebbe anche disconoscerne il sacrificio. Nessuno di coloro che all'ospedale gli stettero vicini lo credette pro­palatore, anzi il cav. Balsano, il cappellano Chiarenza e i medici curanti, che avevano stabilito intorno al ferito un servizio di quasi spionaggio, negano con testi­monianze scritte, che il Riso abbia fatto le rivelazioni che gli si attribuiscono.
La città, più sicura nei giudizi, ne pianse la morte, e allora e poi l'onorò pel martirio, che segnò la irre­vocabile caduta dei Borboni e l'unità della patria.


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