In cinque giorni il La Masa disciplinò alla meglio quel
corpo irrequieto e inadatto a un vero ordinamento. Gli diede uno stato
maggiore, un corpo di guide, una intendenza, una ambulanza. A capo vi erano
uomini provati, che in tutte le campagne garibaldine diedero esempi di valore
eroico: Luigi La Porta, Vincenzo Garuso, Liborio Barranti, Luigi Bavin
Pugliesi (129), Gaspare Nicolai, Nicolò Di Marco, Giacomo Curatolo, Vito
Signorino, Ignazio Quattrocchi, Rosario Salvo, Domenico Corteggiani, e cento
altri. V'era Vincenzo Fuxa, venuto coi Mille, e Pasquale Mastricchi, zio dei
Campo, veterano delle cospirazioni, che Garibaldi chiamò il “vecchio di
Gibilrossa”. Come si vede non si tratta d'accozzaglia rumorosa, turbolenta,
inadatta, e stracciata come spacciò il De Cesare, a cui nella “Fine
d'un regno” piacque di
celiare: si tratta di una organizzazione, non certamente perfetta, ma neppure
tale da esser desiderabile farne a meno.
Garibaldi ci contò: e fece bene.
Quando la mattina del 26, alle 3, La Masa e Pasquale
Mastricchi calarono a Misilmeri, trovarono il Dittatore ancora a letto. Il
Dittatore discusse la possibilità di una improvvisa entrata in Palermo, e
soltanto dopo le assicurazioni del La Masa, disse a questo:
“Andate
ad avvertire i picciotti che verrò a passarli in rivista”.
E spediti i volontari sul colle, vi salì anche lui, poco di
poi; e al vedere le squadre schierate e piene d'entusiasmo, sorrise; uditi i
capisquadra, respinse il suggerimento di Sirtori, la ritirata cioè su
Castrogiovanni, e deliberò di calare su Palermo.
Senza il concentramento
delle squadre a Gibilrossa se lo mettan bene in testa gli storici, Garibaldi
non avrebbe concepito il suo magnifico disegno, e il 27 maggio non sarebbe
piombato su Palermo.
Si può a cose finite, celiare, e anche, se così piace, farneticare;
si può dire quel che si vuole; ma allora, ridotti i Mille a poco più di
settecento, laceri, male armati, stanchi, quel campo che formicolava di gente
desiderosa di battersi, quel grido uscito da migliaia di bocche “A Palermo! A
Palermo!” valsero a rialzare il morale dei legionari, a infonder loro la
sicurezza della vittoria.
Quando altro non avesse dato il campo di Gibilrossa,
basterebbe soltanto questo grandissimo concorso morale, per dargli capitale
importanza; giacchè il signor Luzio sa meglio di me, che in una guerra condotta
in condizioni disuguali fra le due parti, l’elemento morale è ragione
principalissima di successo. Tacerne dopo, se non è prova di ignoranza, lo è
certo di ingratitudine. Se le truppe borboniche furono sconfitte, oltre che per
gli errori mastodontici dei loro capi, si deve anche e più allo avvilimento del
loro morale.
Ma andiamo innanzi.
Garibaldi ordinò che si levasse il campo e incominciasse
la discesa, e che tutto il corpo si radunasse e ordinasse giù, nello stradale. La
discesa cominciò al tramonto. L'Eber nelle sue corrispondenze la descrisse
minutamente, e salvo in qualche particolare, con una certa esattezza. Ma con
maggior precisione è descritta da Pasquale Mastricchi. L'Eber infatti credette
che le guide siciliane avessero sbagliata la strada: e invece si tratta di una
diversione voluta da Garibaldi. Il Mastricchi, con otto uomini scelti,
marciava alla testa delle squadre, (che formavano, come si sa, la testa
dell'esercito) per sollecitarle. Arrivato a Rappallo, Garibaldi lo raggiunse,
lo fermò, gli fece accendere un fiammifero e guardò l’orologio. Segnava l’una.
Domandò al Mastricchi, al “vecchio di Gibilrossa”, qual era la strada più
corta dal punto dove si trovavano. Il Mastricchi la indicò. Ma dopo mezzo miglio
Garibaldi per abbreviare ancora, fece piegare per un sentiero che conduceva
alla Favara. Lì dinanzi al fondo Guccia, avvenne un diverbio fra alcuni
picciotti che s'eran fermati per bere, e Bixio, sedato e dalla prudenza del La
Masa e dall'intervento del Sirtori. Ma se il Mastricchi, come siciliano può
sembrare sospetto, lasciamolo lì; tanto più che ci avviciniamo a un'altra
seconda fuga, consacrata dal Guerzoni che non c'era; e teniamoci all’Eber, che
se ne stava a osservare, da buon reporter.
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