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martedì 28 marzo 2017

Luigi Natoli: Rosalino Pilo. Tratto da: La rivoluzione siciliana del 1860. Narrazione


Rosalino Pilo-Goeni, dei conti di Capace, biondo e bello e di gentile aspetto, cuor di leone in gracile petto, cospiratore innanzi al 1848; combattente nella rivoluzione; esule, amico devoto di Mazzini, cooperatore della spedizione di Carlo Pisacane, anelava alla liberazione della Sicilia. Giovanni Corrao, popolano, nerissimo di capelli e di barba, volto tagliente e fiero, incolto, coraggio senza pari, combattente valoroso nel ’48, esule, non era meno ardente per la liberazione della sua terra. E venuto per tentare un moto, arrestato e confinato a Ustica, poi chiuso nella Cittadella di Messina, vi aveva languito fino al 1855. Liberato, ripresa la via dell’esilio, era tornato alle cospirazioni. Palermitani, della stessa fede, s’erano intesi.
Rosalino, per lettere inviate agli amici e per le assicurazioni ricevute, aveva manifestato a Garibaldi il proposito di andare in Sicilia, per capitanare la insurrezione e aprir la via alla spedizione che Garibaldi avrebbe dovuto guidare. Domandava perciò fucili e mezzi. Garibaldi ne lo dissuase, non giudicando maturi i tempi. Nessuno dei suoi amici credeva alla possibilità di un buon successo: non Medici, non Sirtori, non Bixio ancora; soltanto Crispi, Pilo, La Masa, La Farina, gli esuli siciliani tutti. E Pilo si ostinò. Non ebbe le armi che domandava. Ma non importava. Disse a Garibaldi di prepararsi, che egli andava a preparargli il terreno.
Il 26 di marzo egli e Corrao, soli, senz’altre armi che le loro rivoltelle, delle bombe tascabili e pochi fucili, con poco denaro fornito da Mazzini e dagli Orlando, soli col loro coraggio, con la loro fede, pronti al sacrificio, nella paranza di Silvestro Palmarini, pilota Raffaele Motto, argonauti della libertà, salparono da Genova, sebben sconsigliati da Garibaldi. Affrontarono le tempeste del Tirreno; videro la piccola nave lì lì per sommergersi; rischiarono di cadere su le spiagge napoletane; stettero quindici giorni fra cielo e mare con la morte sospesa sopra di loro. Ma si ostinarono a navigare, contro il parere del pilota e dei marinai. Il 10 di aprile sbarcarono alle Grotte presso Messina, dove Rosa Montmasson, moglie di Crispi li aveva preceduti.
 
 
 
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano
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mercoledì 22 marzo 2017

Lapide a Francesco Riso


 
A FRANCESCO RISO
ED AI PRODI
CHE LA RIVOLUZIONE ITALIANA IN SICILIA
IL 4 APRILE 1860
IN QUESTO LUOGO INIZIARONO
 
LA SOCIETA' NAZIONALE ITALIANA
IN PALERMO
IL 4 APRILE 1861

Luigi Natoli: Il processo a Francesco Riso


Poichè, non ostante un vano divieto, del processo furono già estratte alcune copie, e qualcuna pubblicata, non sarà inutile fermarsi a parlarne con serenità. Gli interro­gatori che figurano nel processo sono tre: il primo è del 5 aprile, e il Riso serbò un rigoroso silenzio; l'ul­timo è del 17, compilato, cioè, dopo il colloquio col Ma­niscalco dal giudice Prestipino, per ordine del governo, come si rileva da una lettera del luogotenente generale dello stesso 17. Ora tra la relazione del direttore di polizia, riprodotta nella citata lettera, e il verbale del giudice Prestipino vi sono notevoli differenze: e soltanto si accordano nei nomi dei creduti componenti del comi­tato segreto; i quali, si noti bene, erano già noti alla polizia, ed erano quelli delle persone arrestate già fra il 7 e il 12, prima ancora, cioè, che il Riso avesse fatte le volute rivelazioni. Nessun altro nome vi figura; pure il Riso avrebbe potuto denunziare il Bruno-Gior­dano, il Tondù, i De Benedetto, il Marinuzzi, il Corteg­giani, l'Albanese, avrebbe potuto rivelare come e dove s'eran preparate le armi; avrebbe potuto dire il nome di chi aveva ferito il Direttore di Polizia. Le rivela­zioni non aggiungevano nulla a ciò che la polizia sapeva da altre fonti; e principalmente da G. Battista d'Angelo uno dei congiurati, che, preso il 4, non resistendo alle torture, fece propalazioni, indicò dov'erano nascoste le armi, fu cagione che la polizia mettesse a prezzo la testa del Bruno; e di lì a non molto fu trovato impic­cato alla inferriata del carcere. Rimorso o giustizia.
Il documento e per le singolari condizioni onde venne redatto, e per la mancanza di forme legali e sopratutto della firma dell'interrogato, che pur sapeva leg­gere e scrivere, dà adito a non ingiustificati sospetti sulla sua autenticità e veridicità, in un tempo in cui la polizia creava anche documenti; e con uomini, conte il Maniscalco, che anelavano raccogliere prove o fabbri­carne, per procedere con estremi rigori contro gli arre­stati, e segnatamente i nobili.
Ho voluto indugiare su queste accuse per scrupo­losità di storico, e per ristabilire la verità; non sti­mando equo, per altro, il rigido giudizio di chi, credendo alle confessioni del Riso od esagerandone la portata, vorrebbe anche disconoscerne il sacrificio. Nessuno di coloro che all'ospedale gli stettero vicini lo credette pro­palatore, anzi il cav. Balsano, il cappellano Chiarenza e i medici curanti, che avevano stabilito intorno al ferito un servizio di quasi spionaggio, negano con testi­monianze scritte, che il Riso abbia fatto le rivelazioni che gli si attribuiscono.
La città, più sicura nei giudizi, ne pianse la morte, e allora e poi l'onorò pel martirio, che segnò la irre­vocabile caduta dei Borboni e l'unità della patria.
 
 
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
Nella foto: Lapide a Francesco Riso nel cortile della Gancia
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15%
 
 

Luigi Natoli: La morte di Francesco Riso.


Il 27 aprile moriva Francesco Riso. Trasportato sopra un carretto all'ospedale, vi subiva un primo interrogatorio dal commissario di polizia Carrega, che al cavaliere Balsano, deputato del pio luogo, testimoniava essersi il Riso “battuto come un leone”. Interrogato il domani dal giudice Uzzo, onesto magistrato, serbò il silenzio: la polizia tentò aver nelle mani il ferito, per sottoporlo chi sa a quali torture, non l’ebbe per la ferma resistenza di quei sanitari. Ciò non distolse il Maniscalco dal tormentare il Riso, non solo con gli inter­rogatori processuali, ma con mentite promesse e tristi lusinghe di liberargli il padre, già fucilato. E il 16 lo sottopose a lungo stanchevole esame, in segreto; col quale fece di poi compilare in ufficio un verbale dal giu­dice Prestipino, uomo di pochi scrupoli, sostituito all' Uzzo, giudicato onesto: il qual verbale allora e poi, diffusa ad arte la voce di gravi rivelazioni, offuscando il nome dell'eroico popolano, servì a discreditare gli uomini della rivoluzione.
Il Riso ebbe sentore delle dicerie, e qualche giorno prima di morire, se ne dolse amaramente, dicendole infamie; e si afferma aver richiesto una pistola per uccidere Maniscalco appena ripresentatosi...



Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
Pagine 560 - Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15%
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mercoledì 15 marzo 2017

Luigi Natoli: La fucilazione del 24 ottobre 1831. Tratto da: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro


Il 4 gennaio del 1825 morì improvvisamente Ferdinando I, di sessantaquattro anni, dopo circa sessanta di regno fortunoso, e non lasciò rimpianti. Gli successe Francesco che regnava di fatto: malaticcio, ipocrita, astuto, reazionario più del padre.
Il suo breve regno fu agitato dai tentativi dei Carbonari in Napoli e in Sicilia, di uno dei quali rimase vittima Gaetano Abela, vecchio carbonaro, vecchio cospiratore, entusiasta e sincero, ma più sognatore che altro: il quale, fu fucilato dentro il Castello di Palermo il 30 dicembre 1826. In Favignana fu scoperta tra i deportati una Vendita che voleva “uccidere i nemici della patria e gli oppressori d’Italia”
Il 21 settembre 1830 il Re moriva, funestato da deliri. Aveva un certo ingegno e si dilettava di studi fisici e d’agricoltura. In Palermo, quando era ancora principe, aveva fondato un podere modello con allevamenti nella contrada di Boccadifalco. Aveva accarezzato i liberali, ma poi li aveva abbandonati. 
Lo stesso anno, nel febbraio, era morto stoicamente di fame il principe di Castelnuovo, vissuto solitario e sdegnoso dopo la soppressione del Parlamento. Non avendo figli, lasciò il patrimonio per la fondazione di un istituto agrario, e un forte legato a chi avrebbe ridato la costituzione alla Sicilia; ma questo legato, come contrario alle leggi del regno, fu soppresso dal Re.
A Francesco I successe il figlio Ferdinando, ventenne, il quale lo stesso giorno 8 novembre pubblicò un proclama ai sudditi, che suscitò speranze. Il primo anno del suo regno avvenne l’ultimo tentativo carbonaro, senza preparazione e senza successo.
Domenico Di Marco, impiegato, di famiglia popolana, aveva col fratello Giovanni designato di insorgere; trovati animosi seguaci, stabilì la sollevazione per la notte del 1 settembre, al suono delle campane che commemoravano il terremoto del  1693. Ma, ingannati dallo scampanio d’una cerimonia religiosa in altra chiesa vicina, anticiparono l’ora; e dal luogo ove si erano raccolti, i sollevati entrarono in Palermo gridando: Viva la Costituzione!  Respinta una pattuglia, ucciso un dottore e un birro, non seguiti dalla popolazione, assaliti dalle forze maggiori, si dispersero per la campagna. Messa a prezzo la testa del Di Marco, e data la caccia ai fuggiaschi, in meno d’un mese furono presi; ventuno vennero condannati ai ferri, undici alla fucilazione. Il 24 ottobre caddero sotto il piombo: Domenico Di Marco, Salvatore Sarzana, Giuseppe Maniscalco, Paolo Baluccheri, Giambattista Vitale, Vincenzo Ballotta, Ignazio Rizzo, Francesco Scarpinato, Filippo Quattrocchi, Gaetano Remondini e Girolamo Cardella.
Questo moto generoso quanto sconsigliato non ebbe alcun legame con quelli della Romagna dello stesso anno. Il Di Marco fu un illuso, ma l’aver immolato la vita per la libertà fa sacro il suo nome e quello dei suoi compagni di sacrificio.
 
 
 
Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro.
Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto 15%
Nella foto: Coccarda carbonara

 

 

Luigi Natoli: La fucilazione del 31 gennaio 1821. Tratto da: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro

Le strade erano uno squallore; nei dintorni del Castello e lungo la via del Borgo, a mare, che i condannati dovevano percorrere, per avviarsi al triste campo del loro martirio, le botteghe erano chiuse, chiuse le porte e le finestre; qualche raro viandante passava frettoloso; silenzio ed ombra per tutto. L’ombra era nel cielo e nell’anima.
Da lontano a intervalli gemevano i funesti rintocchi di una campana, poi s’udì un cupo e lento rullar di tamburi. Il doloroso corteo usciva dal Castello.
Innanzi, alcuni birri armati di bastoni e gendarmi con le sciabole sguainate; dietro a loro la compagnia dei confrati con la loro croce, poi i tamburini dei granatieri austriaci, coi tamburi velati a bruno e scordati; un ufficiale coi capelli biondicci e una faccia rincagnata, duro e dispettoso; un drappello di veterani, e indi fra una doppia fila di granatieri, i condannati, uno dietro l’altro, vestiti di una specie di sacco, il capo coperto di un velo nero, le mani legate dietro il dorso, i piedi scalzi. Andava ognuno fra il sacerdote che lo andava confortando, e un gendarme che lo sosteneva e lo guidava.
Un confrate degli agonizzanti dinanzi la porta di S. Giorgio, sull’arco della quale, dentro una gabbia di ferro, biancheggiavano i teschi di alcuni malandrini, aveva aspettato il passaggio del corteo. I suoi occhi, sfolgorando dietro i fori del cappuccio, interrogavano a uno a uno coloro che andavano a morire, il suo petto ansava sotto il sacco. Pareva che facesse uno sforzo sovrumano per contenersi. Era Tullio.
Riconobbe i suoi compagni: la voce interiore gliene diceva il nome, via via che passavano; i primi erano i due preti, La Villa e Calabrò, già sconsacrati nelle carceri del Castello; poi venivano Pietro Minnelli, Natale Seidita, Domenico  Barucchiere, Giuseppe Candia, e dietro a questi il giovane Lo Verde, pallido, ma franco, col capo eretto, come se oltre la benda i suoi occhi vedessero qualche cosa.
Oltre la parrocchia di Santa Lucia, si allargava un vasto piano, diviso in due dallo stradale che conduce a Monte Pellegrino. La parte verso il mare prendeva nome dal convento della Consolazione, che ne segnava il limite settentrionale, l’altra parte dove ora sorgono le carceri, conserva il nome di piano dell’Ucciardone. Era la meta.
Altre milizie austriache e borboniche erano sulla piazza della Consolazione; divise in due ali, l’una di faccia all’altra, perpendicolarmente al muro del Convento, e in modo da lasciare fra loro un largo spazio. Dietro di esse e al principio della piazza eran dei gendarmi a cavallo; più addietro, dalla parte del mare, sulla strada del Molo, i cannoni delle batterie da costa (sparite ora e mutate in magazzini) avevan le bocche rivolte sulla piazza, e i cannonieri stavan con le micce accese, minaccia di un popolo che non c’era!…
Ma ben altro colpì la vista di Tullio e gli gelò il sangue nelle vene. Fra l’una e l’altra schiera di soldati in capo alla piazza, poco innanzi al bianco muro del convento erano alcune panchette in fila; allo svolto del fabbricato due carrettoni coperti da una grossa tela. Quelle e questi aspettavano le vittime.
Quando il corteo giunse, a un cenno dell’ufficiale, i granatieri che lo accompagnavano si schierarono fra le due ali, colla fronte al Convento, così da formare con queste, i tre lati di un quadrato spazioso.
I condannati furono dai gendarmi spinti dai innanzi, sino alle panche. La confratria si schierò in capo alla piazza, presso le panchette; Tullio si pose dinanzi. Di là egli era più vicino ai condannati che non avesse supposto; forse la sua voce sarebbe giunta all’orecchio di Giuseppe.
Lo cercò; lo riconobbe: in quel momento i sacerdoti abbracciavano le vittime, e rivolgevan loro l’ultima parola di conforto; e un drappello di ventisette veterani, su tre file, staccandosi dal grosso della truppa, si schierava a venti passi dai condannati. Lo Verde era sulla panchetta a sinistra; diritto, col capo alto, col suo dolce sorriso. Il pallore della morte vicina non aveva ancor vinto la giovinezza che gli fioriva su le labbra. Grido e singhiozzo e schianto! Ai suoi occhi velati di lagrime parve che il Lo Verde si scuotesse, come se avesse riconosciuto la voce amica; ma in quel punto stesso, all’improvviso balenìo d’una lama, uno scoppio squarciò il silenzio, una nube di fumo empì lo spazio; quei nove corpi si abbatterono per terra, coi petti infranti… Non erano morti! I veterani borbonici li avevano solamente feriti. Bisognò ricaricare le armi, e tirare ancora due volte su quegli sventurati. Fu un assassinio; e non un giudizio...
 
 
Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro.
Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto 15%
Nella foto: Coccarda della carboneria
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Luigi Natoli: 28 gennaio 1850. La fucilazione ove morì Niccolò Garzilli. Tratto da: La rivoluzione siciliana del 1860. Narrazione


Nicolò Garzilli, aquilano d’origine, palermitano d’adozione, studente dell’università, di soli diciannove anni aveva fatto concepire alte speranze di sé, per un suo scritto filosofico. Scoppiata la rivoluzione aveva lasciato la penna pel fucile, combattuto da prode, preso parte alla spedizione Ribotti nelle Calabrie: fatto prigioniero con gli altri, era stato chiuso nelle fortezze borboniche. La prigione non spense la sua fede: uscitone, prese attivamente a cospirare con altri animosi. Illudendosi che le violenze poliziesche avessero negli animi acceso tanto sdegno, che bastasse rinnovare le audacie del 12 gennaio, per far divampare l’incendio della rivoluzione, sebbene sconsigliato dal Lomonaco, divisò co’ suoi compagni d’insorgere pel 27 gennaio 1850. Ma traditi da un Santamarina, che era dei loro, scesi il giorno designato nella piazza della Fieravecchia, al grido di Viva la Costituzione, trovarono le vie occupate dalle milizie regie, e si sbandarono. Il Garzilli poco dopo, preso con altri cinque, e condotto al Castello, vi fu giudicato da un Consiglio di guerra, al quale il Satriano scriveva in precedenza, che sentenziasse per tutti e sei quei giovani la morte, da eseguirsi la stessa giornata. La sera stessa del 28, condannati senza alcuna prova legale, condotti nella piazza Fieravecchia, vi furono moschettati. Un marmo tramanda alla memoria dei posteri i loro nomi: furono Nicolò Garzilli, Giuseppe Caldara, Giuseppe Garofalo, Vincenzo Mondino, Paolo De Luca e Rosario Aiello.
Al supplizio seguì un processo contro sessantacinque presunti rei di cospirazione, dei quali oltre la metà la­titanti, e fra essi il Bentivegna. Contro gli arrestati la polizia incrudelì; il tribunale prosciolse ben trentasei dall'imputazione, gli altri condannò a pene ben gravi.
 
 
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. Il volume raccoglie i testi a seguire trascritti nella loro versione originale: 
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910) 
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI) 
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931) 
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 544 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Disponbile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso: 
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria La Vardera (Via M.se di Villabianca 102), Libreria Forense (Via Maqueda 185). 

Luigi Natoli: la fucilazione del 14 aprile 1860. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Nel pomeriggio del 14, tra lo squallore e il silenzio della città, al funebre rullare dei tamburi, i tredici martiri, circondati di birri e di soldati e confortati dalla voce di sacerdoti, tratti dal Castello, furono condotti ai piedi del baluardo di Porta San Giorgio; e lì fu compiuto l’assassinio.
I tredici corpi crivellati dal piombo, furono ancor caldi buttati, come carogne, in tre carri, e portati via in fretta, come se il rimorso o l’orrore del delitto incalzasse a cancellarne le tracce! Furono Sebastiano Camarrone, Domenico Cucinotta, Pietro Vassallo, Michele Fanaro, Andrea Coffaro, preso l’8 in Bagheria, Giovanni Riso, Giuseppe Teresi, preso alla Guadagna, Francesco Ventimiglia, Michelangelo Barone, Nicolò di Lorenzo, Gaetano Calandra, Cono Cangeri e Liborio Vallone, preso il 12 a Monreale. Tutti popolani.
Ma la sera dopo fu tentato un altro assalto alla VI Casa e vi perdettero la vita due birri e un trombettiere. Successero alcuni giorni di tregua apparente. Il 20 circolò per la città questa epigrafe: A Francesco Riso – martire infelice della libertà della patria – non sospiri di letargo – non pianti di viltà – ma fieri giuramenti di sangue – fremito di vendetta atroce.
 
 
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul risorgimento siciliano.
Pagine 525 - Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15%
Nella foto, il monumento alle XIII vittime, nella omonima piazza di Palermo 

lunedì 13 marzo 2017

Luigi Natoli: Palermo dopo il 4 aprile. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860



Il 7 aprile, Maniscalco fece arrestare il duca di Monteleone, il cavaliere Notarbartolo di S. Giovanni, il barone Riso, il principe di Giardinelli e il duca di Cesarò, che trovò radunati in casa Monteleone. Il principe di Niscemi che era presente, non volendo abbandonare i suoi amici, si dichiarò reo della loro colpa, e offerse da sé i polsi alle manette: e la polizia non lo respinse: era una vittima di più, e non guastava. I sei giovani signori, circondati di birri, incatenati, furono a piedi condotti lungo il Cassaro, come  malfattori; e il popolo commosso salutò, scoprendosi con riverente silenzio, il loro passaggio. Più tardi a bordo di un legno americano arrestò il padre Lanza. Due giorni dopo, faceva punire col fuoco, col saccheggio, le uccisioni degli inermi, il villaggio di S. Lorenzo. Intanto in città e alle sue porte avvenivano zuffe e uccisioni, alternate con dimostrazioni.
La sera del 7 furono tirati dei colpi contro la caserma della Sesta Casa, e fu uccisa una sentinella al Cancelliere; l’8 fu appiccato il fuoco contemporaneamente ai Commissa­riati di via Pizzuto, che bruciò tutto, e a quello di via Vetriera, che bruciò in parte; il 10, fucilate nel sobborgo dell'Olivuzza; birri bastonati in città; il 12 tutte le botteghe della via Toledo si chiusero per invito dei giovani Salvatore Bozzetti, Gaetano Borghese ed Eliodoro Lombardo, poeta e patriota, ingiustamente dimen­ticato: i quali fecero correre la voce di una dimostra­zione pel pomeriggio del 13. La cosa fu concertata dal padre Gustarelli, basiliano, dai tre giovani citati e da altri audaci, fra i quali si ricordano Rosario Ferrara, Giuseppe Lombardi, Antonio e Giovanni Orlando, An­tonino Stancanelli e altri. La folla era grande: il grido di Viva l'Italia, viva la libertà! rimbombò: dai balconi uomini e donne rispondevano; la polizia non seppe rea­gire. Ma il domani, per diffondere il terrore, Maniscalco, contro gli ordini del re Francesco, che, con due dispacci aveva ordinato si soprassedesse all'esecuzione delle sen­tenze di morte pei fatti del 4 aprile, affrettava la fuci­lazione di tredici prigionieri, condannati dal Consiglio di guerra nella “supposizione” che fossero tra’ capi della rivolta....
 
 
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano
Pagine 525 - Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15%
 
 
 

mercoledì 1 marzo 2017

Luigi Natoli: Il 4 aprile non si ferma a Palermo... Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Nei dintorni della città seguirono fieri scontri, in quello e nei giorni successivi, fra le squadre e le colonne mobili, spedite dal generale Salzano, coman­dante in capo. Ai Porrazzi i regi attaccarono la squadra condotta dal Badalamenti e da G. B. Marinuzzi, e per snidarla dovettero usare l’artiglieria; ivi morì, dei nostri, Andrea Amorello, da nessuno ricordato: al ponte delle Teste, a S. Maria di Gesù, alla Guadagna avveni­vano altri scontri: e qui facevan prigione Giuseppe Teresi, giovane appena ventiquattrenne, serbato al mar­tirio. A Monreale il maggiore Bosco, coi cacciatori, do­vette durar fatica per sostenere l’impeto delle squadre di Piana condotte dal Piediscalzi, di quelle di Partinico, condotte dai fratelli Damiano e Tommaso Gianì, e di quelle di Alcamo, già insorta, condotte dai fratelli Triolo di S. Anna.
Questi combattimenti durarono più giorni, e in uno di essi, il giorno dodici, cadde a Lenzitti prigioniero Liborio Vallone di Alcamo, morirono Giuseppe Fazio da Alcamo e Giuseppe Ricupati da Partinico: lo stesso Bosco scampò per miracolo alle fucilate dei fratelli Tri­firò di Monreale.
A Bagheria le squadre respinsero due compagnie di linea, e costrettele a rinserrarsi nel casino Inguag­giato, ve le assediarono. A liberarle fu spedito il gene­rale Sury con quattro compagnie, cannoni e compagni d'arme: avvenne uno scontro; le squadre furono di­sperse, ma i regi vi lasciaron dieci dei loro. Qui rifulse l'eroismo di Andrea Coffaro, vecchio di sessanta anni, e del suo giovane figlio Giuseppe, che barricatisi in una casa, da soli vi sostennero il fuoco dei regi; fin che Giuseppe, sdegnando combattere dietro i ripari, uscì all'aperto, e colto da una palla in fronte, rese la forte anima: onde Andrea, desolato, gittò l'arme, e fu preso e condotto in Palermo riserbato al martirio. Nessuna storia raccolse l’eroico gesto, le cronache di fonte bor­bonica sì: noi gli dedichiamo il verde fiore del ricordo.
Più fieri combattimenti si svolsero a S. Lorenzo ai Colli. Ivi la sera del tre si era recato Giuseppe Bruno-Giordano, per portar munizioni alla squadra di Carmelo Ischia; e poi che nel tornare aveva trovato le vie occu­pate da una colonna condotta dal maggiore Polizzy, rifatta la via, e ignorando l’insuccesso di Palermo, radunò quanti più uomini potè, per affrontare i regi. Alla sua squadra s’aggiunse un buon numero di Carinesi.
Carini, sollevata il 3 dal padre Calderone, aveva mandato una forte squadra, che giunta a Sferracavallo, ucciso un milite, aveva piegato sopra Passo di Rigano; incontrati i regi, dopo breve combattimento, fu respinta. Molti si sbandarono e ritornarono a Carini: i più sce­sero ai Colli e si unirono con quelli del Bruno. Erano in tutto poco più, poco meno di 200 uomini. Il 5, assa­lito il battaglione del Polizzy lo costrinsero a ritirarsi fino ai Leoni: il generale Salzano mandò allora tre com­pagnie del decimo linea e una sezione d'artiglieria da campo; ma quei 200 uomini fortificatisi nel quadrivio di S. Lorenzo, respinsero gli assalti. Quel combattimento, dicono i documenti borbonici, “fu una vera battaglia”; e nessun elogio potrebbe esser migliore di que­sto reso dal nemico a prodi terrazzani, che il governo chiamava “predoni”. Più tardi uno storico narrerà che questi contadini, che per giorni, per settimane, vissero sui monti, patendo la fame, senza disertare la bandiera, il 27 maggio fuggirono agli spari come pas­serotti: e un altro storico più grave e reputato dirà ch’erano dei mafiosi o dei contadini scalzi, i quali.... credevano che la “Talia per cui si battevano, fosse la moglie di Garibaldi”! Piacevolezze o miserie delle quali non mette conto sdegnarsi!
 
 
 
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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Nella foto: Ferdinando del Bosco.