Le strade erano uno squallore; nei dintorni del Castello e lungo la via
del Borgo, a mare, che i condannati dovevano percorrere, per avviarsi al triste
campo del loro martirio, le botteghe erano chiuse, chiuse le porte e le
finestre; qualche raro viandante passava frettoloso; silenzio ed ombra per
tutto. L’ombra era nel cielo e nell’anima.
Da lontano a intervalli
gemevano i funesti rintocchi di una campana, poi s’udì un cupo e lento rullar
di tamburi. Il doloroso corteo usciva dal Castello.
Innanzi, alcuni birri
armati di bastoni e gendarmi con le sciabole sguainate; dietro a loro la
compagnia dei confrati con la loro croce, poi i tamburini dei granatieri austriaci,
coi tamburi velati a bruno e scordati; un ufficiale coi capelli biondicci e una
faccia rincagnata, duro e dispettoso; un drappello di veterani, e indi fra una
doppia fila di granatieri, i condannati, uno dietro l’altro, vestiti di una
specie di sacco, il capo coperto di un velo nero, le mani legate dietro il
dorso, i piedi scalzi. Andava ognuno fra il sacerdote che lo andava confortando,
e un gendarme che lo sosteneva e lo guidava.
Un confrate degli
agonizzanti dinanzi la porta di S. Giorgio, sull’arco della quale, dentro una
gabbia di ferro, biancheggiavano i teschi di alcuni malandrini, aveva aspettato
il passaggio del corteo. I suoi occhi, sfolgorando dietro i fori del cappuccio,
interrogavano a uno a uno coloro che andavano a morire, il suo petto ansava
sotto il sacco. Pareva che facesse uno sforzo sovrumano per contenersi. Era
Tullio.
Riconobbe i suoi
compagni: la voce interiore gliene diceva il nome, via via che passavano; i
primi erano i due preti, La Villa e Calabrò, già sconsacrati nelle carceri del
Castello; poi venivano Pietro Minnelli, Natale Seidita, Domenico Barucchiere, Giuseppe Candia, e dietro a
questi il giovane Lo Verde, pallido, ma franco, col capo eretto, come se oltre
la benda i suoi occhi vedessero qualche cosa.
Oltre la parrocchia di
Santa Lucia, si allargava un vasto piano, diviso in due dallo stradale che
conduce a Monte Pellegrino. La parte verso il mare prendeva nome dal convento
della Consolazione, che ne segnava il limite settentrionale, l’altra parte dove
ora sorgono le carceri, conserva il nome di piano dell’Ucciardone. Era la meta.
Altre milizie austriache
e borboniche erano sulla piazza della Consolazione; divise in due ali, l’una di
faccia all’altra, perpendicolarmente al muro del Convento, e in modo da
lasciare fra loro un largo spazio. Dietro di esse e al principio della piazza eran
dei gendarmi a cavallo; più addietro, dalla parte del mare, sulla strada del
Molo, i cannoni delle batterie da costa (sparite ora e mutate in magazzini)
avevan le bocche rivolte sulla piazza, e i cannonieri stavan con le micce
accese, minaccia di un popolo che non c’era!…
Ma ben altro colpì la
vista di Tullio e gli gelò il sangue nelle vene. Fra l’una e l’altra schiera di
soldati in capo alla piazza, poco innanzi al bianco muro del convento erano
alcune panchette in fila; allo svolto del fabbricato due carrettoni coperti da
una grossa tela. Quelle e questi aspettavano le vittime.
Quando il corteo giunse,
a un cenno dell’ufficiale, i granatieri che lo accompagnavano si schierarono
fra le due ali, colla fronte al Convento, così da formare con queste, i tre
lati di un quadrato spazioso.
I condannati furono dai
gendarmi spinti dai innanzi, sino alle panche. La confratria si schierò in capo
alla piazza, presso le panchette; Tullio si pose dinanzi. Di là egli era più
vicino ai condannati che non avesse supposto; forse la sua voce sarebbe giunta
all’orecchio di Giuseppe.
Lo cercò; lo riconobbe:
in quel momento i sacerdoti abbracciavano le vittime, e rivolgevan loro
l’ultima parola di conforto; e un drappello di ventisette veterani, su tre
file, staccandosi dal grosso della truppa, si schierava a venti passi dai
condannati. Lo Verde era sulla panchetta a sinistra; diritto, col capo alto, col suo
dolce sorriso. Il pallore della morte vicina non aveva ancor vinto la
giovinezza che gli fioriva su le labbra. Grido e singhiozzo e schianto! Ai suoi occhi velati di lagrime parve che
il Lo Verde si scuotesse, come se avesse riconosciuto la voce amica; ma in quel
punto stesso, all’improvviso balenìo d’una lama, uno scoppio squarciò il
silenzio, una nube di fumo empì lo spazio; quei nove corpi si abbatterono per
terra, coi petti infranti… Non erano morti! I veterani borbonici li avevano
solamente feriti. Bisognò ricaricare le armi, e tirare ancora due volte su
quegli sventurati. Fu un assassinio; e non un giudizio...
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Nella foto: Coccarda della carboneria
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