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lunedì 20 dicembre 2021

Giuseppe Ernesto Nuccio: L' "addiminavinturi" parla di Francesco Bentivegna. Tratto da: Picciotti e Garibaldini

 
Era un vecchio così strano e dall’aspetto così antico da parere fosse vissuto centinaia d’anni. Sedeva su una roccia, e, siccome poggiava le spalle al muro del castello, sembrava una cariatide incavata a sostenere chi sa quale colonna portata via dalla furia del tempo. Avea una fronte enorme, bozzacchiuta, d’un giallo vecchio scuro che sopravanzava come a far più profonde le buche delle occhiaie, dove si perdevano, in un’ombra cupa, gli occhi piccoli e neri, ma d’un nero opaco, smorto; gli zigomi sporgenti facevano più piccoli il naso e il mento acuti, sì che, vista da lontano, la testa, nell’insieme, prendea l’aspetto d’un cuneo di pietra gialla coperto al sommo da uno strato di calcina, cui somigliava la massa di capelli bianchi.
L’Addiminavinturi ricominciò: – Un’altra volta – sei volte era passato l’inverno da quando aveano fucilato Nicolò Garzilli e stava per cominciare l’altro inverno, e poco ci mancava alla festa dei nostri morti – un uomo di campagna (era di Corleone e si chiamava Ciccio Bentivegna) anche lui volle mettersi contro il gigante Borbone. Aiutato da molti paesani s’avanzavano armati.... Ma re Borbone e Maniscalco, il padrone di Palermo, mandarono soldati quanti ne vollero con cannoni e fucili e mezzo mondo, e li sterminarono. Ma Ciccio Bentivegna fu salvo. Zitto zitto, passa questo paese passa quell’altro, mangia e dorme in questa casa mangia e dorme in quell’altra, chè nessuno aveva paura di ospitare un fratello cercato dai birri. Camminava verso Sciacca, che è paese di marina e di dove poteva salpare per Malta o per il Piemonte, dove ci sono ancora tanti fratelli nostri colà rifugiati.
Cammina cammina cammina, era giunto a buon punto quando incontra un suo amico; ma amico di quando era piccolo. A vederlo gli si allargò il cuore; si gettò fra le sue braccia; e dicendogli: “Fratuzzu, sono nelle tue mani” gli contò tutto, ossia che i soldati del Borbone lo cercavano per ammazzarlo come Cristo in persona.
L’amico – si chiamava Milone – gli disse: “La mia casa è tua!” Ma quando l’infame lo ebbe chiuso dentro ben bene, corse a chiamare i birri e glielo consegnò tale quale fece Giuda. E i birri subito l’ammazzarono. E Milone se ne andò da re Borbone a Napoli e gli disse: “Maestà, ho fatto questo e questo”. E il Re disse: “Bravo!” e lo fece cavaliere e gli diede denari e mezzo mondo.  
Il vecchio tacque e chiuse gli occhi.... ma tosto li riaperse e soggiunse:
- Ma re Ferdinando campò poco. Se non lo potè ammazzare Agesilao Milano con la baionettata che gli dette mentre si godeva tutti i soldati messi in parata, lo fece morire il Signore. E suo figlio Francesco (sta scritto nel libro del destino) non morirà Re come suo padre, perché Santa Rosalia, la vergine palermitana che salvò Palermo dal colera, la salverà dalla schiavitù dei Borboni e manderà un guerriero fatato. E tutti quelli che lavorano la terra e quelli che vanno pei monti come siete voi, scenderanno alla pianura, e Palermo sarà libera per secula et seculorum.  
Poiché la bocca del vecchio si richiuse nuovamente, i giovani della montagna ricercarono la città nella quale il sole, per uno squarcio delle nubi, mandava un fascio di raggi vibranti come volesse svegliarla dal sonno. E i pastori si sentirono le anime investite da una ventata d’eroismo e si sentirono capaci di fare quello che il vecchio prediceva.

Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e garibaldini. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1860.
Il volume è la fedele riproduzione del romanzo originale pubblicato con la casa editrice Bemporad nel 1919 e arricchito dalle illustrazioni di Diego della Valle. 
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 523 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su Amazon Prime, Ibs e tutti gli store online.
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Nuova Ipsa (Piazza Leoni), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi) 


Luigi Natoli: Francesco Bentivegna raccolse le fila della cospirazione... Tratto da: Storia di Sicilia.

Al supplizio seguì un processo contro sessantacinque presunti rei di cospirazione, dei quali oltre la metà latitanti, e fra essi il Bentivegna. Contro gli arrestati la polizia incrudelì; il tribunale prosciolse ben trentasei dall’imputazione, gli altri condannò a pene ben gravi.
Francesco Bentivegna, scampato per allora, raccolse le fila della cospirazione, corrispondendo con gli esuli, che in terra straniera non dimenticavano l’isola nativa e la sua liberazione.
V’era fra i nostri esuli il fior dell’ingegno, del sapere, del valore, del patriottismo di Sicilia; e molti illustravano la terra natale, o insegnando o nei civili negozi o con la virtù della vita austera, quali Francesco Ferrara, Emerico e Michele Amari. Francesco Paolo Perez, Michele Amari lo storico, Giuseppe La Farina, Filippo Cordova, Vincenzo Errante, Mariano Stabile, Ruggero Settimo, il marchese Torrearsa, Rosolino Pilo, Francesco Crispi, Giacinto Carini ed altri. Tra i quali alcuni conservavano il loro antico ideale della indipendenza di Sicilia e della confederazione degli stati italiani; altri affinando le menti e modificando i primi ideali di autonomia, venivano convertendosi all’idea unitaria di Giuseppe Mazzini; ma non tutti convenivano nei mezzi; giacché alcuni, stringendosi al Piemonte, aspettavano dalla diplomazia la libertà e unità della patria; altri invece, più schiettamente democratici, speravano nella pronta azione rivoluzionaria e seguivano il Mazzini. Tutti però cospiravano e corrispondevano coi patrioti dell’isola, concertando, incoraggiando, promettendo.
Le notizie del moto milanese del 6 febbraio 1853, giunte esagerate, animarono e i prigionieri e i liberi: e parendo giunta l’ora, Francesco Bentivegna adunava molti animosi in un magazzino nella campagne di S. Maria di Gesù, e rivolte loro calde parole di incitamento, li apparecchiò alla prossima battaglia. Ma il convegno e i discorsi seppe da un delatore la polizia, che per maggiore sicurezza, fece trasportare i già prigionieri nelle segrete della cittadella di Messina, e arrestò il Bentivegna ed altri della congiura. Contro questo “branco di scellerati” come col consueto linguaggio le polizie di tutti i tempi chiamavano i novatori, si istruì un voluminoso processo. Il De Simone coi gendarmi Tridenti, Scannapicco e Tempesta, nomi convenienti ai tre ribaldi, sottoposto a torture Antonino Lombardo, uno degli arrestati, gli strappava rivelazioni e documenti, che servirono di base all’accusa. 
Per quelle propalazioni altri cittadini furono gittati nelle prigioni, e veniva formulato un formidabile atto di accusa, che inviava dinanzi la Gran Corte Criminale trenta giovani, di cui nessuno toccava i trent’anni. La Gran Corte li mandava assolti a dispetto della polizia; la quale si rifaceva torturandone altri, come il povero farmacista Schifani, che ne rimase storpio e deforme per tutta la vita. 
intanto che l’emigrazione apriva sottoscrizioni e raccoglieva i mezzi per l’acquisto di 10 mila fucili, Francesco Bentivegna correva al comitato di Palermo, prendeva accordi, e stimato giunto il tempo di sostituire l’azione ai disegni, la sera del 22 novembre 1856, congregati in Mezzojuso alquanti fedeli, con David Figlia, Spiridione Franco, Nicolò Di Marco e altri, inalberò il vessillo tricolore al grido di viva l’Italia.
Il comitato di Palermo e i paesi della provincia sgomenti degli apparati del governo, non seguirono il moto rivoluzionario, onde il Bentivegna si trovò solo e abbandonato: allora per non esporre i pochi seguaci a un vano sacrificio, sciolse la squadra, e cupo, silenzioso, dolente riparò a Corleone. 
Cominciò allora tremenda opera di persecuzione; e compagni d’arme, ispettori di polizia, regie truppe commisero atti di crudeltà e violenze che fanno orrore. Il tenente colonnello Ghio, che comandava la colonna, mutando il mestiere di soldato in quello di sicario, domandava al Maniscalco che segnasse con una croce i nomi di “quelli che dovevano sparire”; e tuttavia pareva tiepido e fiacco al direttore di polizia. 
l Bentivegna fu preso, per tradimento, il 3 dicembre, e tradotto in Palermo fu sottoposto a giudizio con procedura illegale, contro la quale ricorsero i suoi difensori, ma invano; ed egli venne dal consiglio di guerra, il 19, condannato alla fucilazione, da eseguirsi in Mezzojuso entro le ventiquattro ore. Ricondotto fra la sbirraglia e le truppe a Mezzojuso, impavido e sereno sostenne il martirio, il 20 dicembre, un’ora e mezza circa del pomeriggio. Aveva trentasei anni. Il De Simone infierì sul cadavere, vietandolo alle cure pietose dei parenti, e facendolo buttare con le vesti del condannato in un carnaio, donde, di notte, la pietà di congiunti e di amici, celatamente lo trasse. 
La sentenza illegale e crudele ebbe pubblico biasimo, e svergognò il governo che la volle; ma né il biasimo né la vergogna lo arrestarono nella voluttà del misfare...

Luigi Natoli: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo.
Il volume è la fedele riproduzione dell'opera originale pubblicata dalla casa editrice Ciuni nel 1935
Pagine 509 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
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Spiridione Franco: Il Bentivegna cadde sulla nuda terra inverso nel proprio sangue... Tratto da: Francesco Bentivegna. Storia della rivoluzione del 1856 in Sicilia...

Avvicinatasi l’ora del sacrifizio fu ordinata l’uscita del condannato, il quale camminava con passo fermo: a destra stava l’assistente Prete, a sinistra il Desimone, circondati da due fila di soldati e da molta sbirraglia, comandati dal capitano Giorgio Chinnici, e dell’Ispettore tanto conosciuto Gaetano Scarlata nella nostra storia. Nella vasta piazza stava schierato in quadrato il battaglione comandato dallo stesso Colonnello Ghio, si giunse nel sito destinato alla esecuzione, il portone della casa del Cav. Dimarco. 
Fu quel momento di silenzio e di terrore non mai provato! Dieci soldati erano pronti, al muto segno il Prete si discostava. Fu ordinato il fuoco, e il Bentivegna in men che si dica, cadde fulminato sulla nuda terra inverso nel proprio sangue, innanzi di quella casa, ove noi avevamo tenuta la prima riunione della congiura rivoluzionaria (consumatum est). 
Il trafìtto corpo sanguinante posto su quattro assi di legno detto fra noi “cataletto”, senza ornamento che indicasse essere corpo umano veniva osservato dai soldati e d’alcuni imbecilli monelli del paese. 
Per evitare questa vista, una donna, pietosa certa Caterina Calagna, si tolse dalle spalle il suo manto nero e coprì il miserando cadavere di quel martire della libertà Italiana! 
Dopo con buona scorta la salma fu trasportata nella Chiesa del Convento del padri Francescani, e fatta aprire la fossa comune, che serviva allora per la povera gente, fu gettato giù nemmeno col riguardo di una misera cassa, tutto ciò venne ordinato da quell’abborrito Governo, che volle compiere l’ultima ed odiosa vendetta all’apostolo della libertà! 
Questi crudeli fatti indignarono i cuori di quei frati del Convento. Io sebbene non sono stato amico del corpo monastico, perchè li ritengo un corpo di parassiti, però come in tutte le classi sociali vi sono dei buoni, così tra i frati, vi sono ottimi sacerdoti caritatevoli verso il prossimo, veri seguaci di Gesù Cristo. 
Nell’epoca di cui scrivo, vi era guardiano di quel Convento, un certo padre Antonio Bellina, nativo da Lercara dei Friddi; uomo assai umano e caritatevole, indignato di quella condotta inumana, e del disprezzo fatto a quel nobile corpo dai satelliti della tirannide Borbonica; venuta la notte, prendendo delle precauzioni per non essere scoperto fece aprire la fossa vi fece scendere un frate, che portò seco una fune, fece legare il trafitto corpo del martire, furono compiute le esumazioni. Dopo di ciò fece aprire la migliore sepoltura; fece collocare il corpo steso in una vecchia cassa, aspettando di rilevarlo in tempi più fortunati, che non tardarono molto tempo a venire.  Questi fatti mi vengono spesso rammentati in Palermo dal prete Giuseppe Capra di Monreale, che in quel tempo stava nel convento di Mezzojuso come chierico novizio. 
Per ora tralascio di scrivere il seguito delle condanne di morte del consiglio di Guerra, e racconterò ai miei pietosi lettori le onoranze fatte nel 1860, dai Corleonesi, e di molte persone dei vicini paesi, alle spoglie immortali di Francesco Bentivegna. I di lui fratelli Giuseppe e Stefano Bentivegna liberati dalla catena, che da parecchi anni portavano, accompagnati da un gran numero di Corleonesi, corsero in Mezzojuso ripresero con grande pompa funebre, i sacri avanzi dì quella salma, e li condussero nella chiesa madre di Corleone, tutti gli abitanti di ogni ceto di persone, andarono fuori della Città, ad incontrare riverente il mesto, ma glorioso convoglio. 
Le campane di tutte le chiese battevano il lutto, la banda cittadina suonava la marcia funebre. La commozione ed il pianto furono generali, il dolore era immenso nel popolo, quella acerba piaga, il tempo solo lenir la può, sanar giammai! 
Celebrati i funeri onori, che mai si sono visti in quel paese, chiusa e sigillata la cassa, fu degnamente collocata nella madre chiesa che viene spesso visitata da coloro che giungono in Corleone. 
Sulla tomba sovrasta una bandiera, quella stessa che il Bentivegna fece costruire in Villafrate il giorno 23 Novembre 1856 che portava e conservò Francesco Labarbiera come ho detto più sopra. 
Io ed altri vecchi amici e compagni del moschettato, abbiamo voluto eternare la di lui memoria, mercè un bellissimo medaglione, in marmo che abbamo fatto scolpire dal valente artista Palermitano Delisi, di felice ricordanza, riuscito di vera rassomiglianza nella persona, che fu collocata nella piazza del Popolo di Mezzojuso accanto al portone ove venne eseguita la barbara sentenza, in quella casa allora del cav. Nicolò Dimarco, ove da pochi di noi fu tenuta la prima congiura come prima ho detto. 
Un tale ricordo storico viene spesso religiosamente ammirato dai forestieri, che giungono in paese, e dalla novella gioventù, che dovrebbe prenderne patriottico esempio. 




Spiridione Franco: Francesco Bentivegna. Ovvero: Storia della rivolta del 1856 in Sicilia organizzata dal Barone Francesco Bentivegna in Mezzojuso e da Salvatore Spinuzza in Cefalù. Entrambi traditi, vennero arrestati e fucilati. Altre 24 persone ebbero sentenza di morte.
Il volume è la fedele riproduzione dell'opera originale pubblicata in Roma nel 1899 dalla Tipografia Econ Commerciale
Prefazione di Santo Lombino 
Pagine 170 - Prezzo di copertina € 15,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (Consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon Prime, Ibs e tutti gli store online
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Nuova Ipsa (Piazza Leoni), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi) 

Spiridione Franco: Giorno 20 dicembre il mio martire amico Francesco Bentivegna sedeva sul banco dei malfattori... Tratto da: Francesco Bentivegna.

Mentre mi riposava non senza turbati pensieri nel mio novello nascondiglio (giorno 20 Dicembre) il martire amico e compagno Francesco Bentivegna, sedeva sul banco dei malfattori dentro il forte Castellammare per essere giudicato dal Consiglio di Guerra eretto con forma subitanea. Presideva un tal Consiglio il Colonnello Giordano, faceva da pubblico Ministero il Capitano Cesare Schittini; il Colonnello dichiara aperta la seduta; gli avvocati di Bentivegna fecero le loro proteste. Il valente avv. Giuseppe Puglia prese la parola: 
«Signor Presidente, d’alcuni giorni abbiamo fatto un ricorso alla Suprema Corte di Giustizia sul merito di questa causa documentata dalla nostra legge del Regno, e sino a che quei vecchi magistrati non daranno il loro risponso, voi Signori, quest’oggi non avete il diritto di giudicare l’imputato, e prego che si rimandi la causa ad altro tempo». 
Le ragioni di diritto di quel culto giureconsulto qual fu l’avv. Puglia non valsero per nulla. 
Il Presidente rispose: 
«Ho ricevuto l’ordine dal Governo di giudicare oggi il Bentivegna, e non indugierò di un’ora, si prosiegua il dibattimento. Imputato alzatevi! Oggi come già vedete si fa la vostra causa, se avete cosa da dire per la vostra discolpa chiedetemi la parola che vi sarà accordata. Quante armi avete?» 
Bentivegna con gentilezza ringraziò il Presidente.
«Ma ne sia certo» diceva egli, «che io non domanderò mai la parola, sarebbe un fiato inutilmente sprecato, sono bene persuaso che le mie ore sono contate!» 
Il giudicabile mentre parlava contro di lui, il suo carnefice accusatore, guardava un altro uomo, inchiodato sulla Croce: Gesù Nazzareno ch’era morto per salvare il genere umano, lui offriva la propria vita per liberare un popolo oppresso! 
L’Avv. Puglia, pallido e convulso di pena disse: 
«Signori del Consiglio, prendo la parola contro la mia voglia, il fo soltanto per il decoro della toga, e del foro Palermitano, non si dirà giammai nel nostro regno e specialmente all’estero, che sarà mandato un uomo alla morte senza difesa, io non entro nel merito se il giudicabile sia reo, o innocente, voglio solamente rammentarvi, che noi abbiamo una legge sanzionata dal Sovrano, che tutti dobbiamo rispettarla, insisto in nome della legge di attendere il parere ovvero la sentenza della Corte suprema, astenendovi oggi di pronunciare la vostra sentenza».
Ma accortosi l’avv. ch’erano parole buttate al vento, incomincia colla sua efficacia a portare esempi di valorosi penalisti contrari alla pena di morte, come il Beccaria, il Filangeri, ed altri. 
Alla fine per scuotere quegli animi induriti alla vendetta, conchiuse piangendo:
«Bentivegna non combatteva per sé; ma per altri, in nome dell’umanità, quindi vi prego di accordargli le circostanze attenuanti e se ciò non volete fare raccomandatelo alla Sovrana Clemenza». 
Insorse di scatto allora il Bentivegna con sorriso convulso, che uscì dalla sua bocca serrata dicendo: 
«Siete vili ed ipocriti, affrettate il mio supplizio, spegnete la mia vita, ma non ardite offendere la mia coscienza. Torturatemi ancora quanto volete, ma con le zozze vostre insinuazioni non lordate la mia persona. Se vi è lecito di togliermi la vita lasciatemi l’onore. Non sperate giammai, che io scendo nella tomba contaminato, ed imparate come si muore per una causa patriottica, e santa». 
I componenti del Consiglio scossi dall’audacia di quell’uomo di volontà di ferro, di fronte all’onore che spreggiava la vita, come belve assetate di sangue entrarono nella camera delle deliberazioni e dopo venti minuti uscirono colla crudele sentenza in mano...



Spiridione Franco: Il ricordo dolcissimo dell'amico e compagno di lotta Fracesco Bentivegna... Tratto da: Francesco Bentivegna. Storia della rivolta del 1856 in Sicilia...

Percorrendo una via di Roma, fantasticando sulle memorie del passato, sulla decadenza del presente, su questa Roma sogno di tante generazioni, e di tanti Eroi, su questa Roma Alma Parens, dove la grandezza del suo nome s’infutura a traverso la gloria del mondo, mi venne fatto di posare gli occhi sopra un volumetto, che stava quasi nascosto fra un mucchio di tomi, e stampe antiche, su di un tavolo di rivenditori. 
Quel libro portava il titolo seguente: Francesco Bentivegna. Romanzo storico di Rocco Baldanza. 
Il nome glorioso del martire, e il ricordo dolcissimo dell’amico, e compagno di lotta, mi rinfiorì nella mente lo sfortunato episodio di Mezzojuso, mia patria, di cui io fui testimone oculare, cosicché anzioso di costatare se la narrazione corrispondeva alla esattezza della storia di quei fatti, volli farne acquisto. 
Francesco Bentivegna, figlio di Giliberto, e della Marchesa Teresa De Cordova da Palermo, era nato in Corleone nel 1820, aveva fatto gli studi in Palermo, i suoi genitori lo tenevano presso di loro occupandolo nell’agenda di campagna possedendo essi molte terre. 
Nel 1848, scoppiata la rivoluzione in Palermo il Francesco Bentivegna, ed il fratello Filippo valoroso tiratore di fucile, formarono in Corleone una numerosa guerriglia di valorosi ed arditi giovani, si recarono in Palermo a combattere le milizie Borboniche: fu in quel tempo ch’io ebbi il piacere di conoscere ed apprezzare il valore dei fratelli Bentivegna. 
Quando si diede principio ad organizzare la milizia siciliana, il Francesco Bentivegna ebbe il grado di Maggiore. 
Aperto il Parlamento Siciliano nel giorno 25 marzo 1848, Francesco Bentivegna fu eletto rappresentante di Corleone, e fu tra i primi che nella seduta del 13 Aprile dello stesso anno che si decretò la decadenza dei Borboni del Regno della Sicilia.
Nel 1849 quando le truppe Borboniche comandate dal Generale Principe di Satriano vincitore di Messina e Catania, si erano avvicinate presso Palermo, il Francesco Bentivegna coi colonnelli Giacinto Carini e Francesco Ciaccio, di carissima rimembranza, sostennero varii attacchi nei Monti di Menzagno Belmonte, e nelle vicinanze di S.a Maria di Gesù pugnando con molto sangue freddo, dando prova di valore e coraggio. 
Firmata la capitolazione della resa di Palermo col Principe Satriano, ed i traditori della patria, che da molto tempo erano in segreta corrispondenza col Borbone, il povero mio amico Bentivegna, mentre le regie truppe entravano in Palermo dalla parte orientale, ne usciva dalla parte occidentale pigliando la via di Monreale, maturando sempre nel suo pensiero di giungere alfine di liberare la Sicilia del Borbonico giogo. 
Egli aveva congiurato pure con Nicolò Garzilli nel tentativo rivoluzionario nella sera del 27 Gennaio del 1850 nella piazza della Fieravecchia, oggi piazza della Rivoluzione, che il Garzilli pagò col proprio sangue quel movimento ardimentoso e non ancora maturo, e che il giorno 28 Gennaio venne moschettato nello stesso sito con altri cinque suoi compagni. 
Il Bentivegna non cessava mai di congiurare, tanto è così vero che nel 1854 si univa spesso, quasi ogni sera, nella Farmacia di certo Don Carlo Romano in via Castro in Palermo. Una sera la detta farmacia venne circondata da numerosa forza, e nella dietro bottega venne trovato il Bentivegna con Luigi La Porta ed altri amici, i quali sotto buona scorta coi ferri ai polsi furono condotti nel carcere del Forte Castellammare languendo per molto tempo a pane ed acqua. 
Il Francesco Bentivegna uscendo dal carcere di Trapani aveva ricevuto ordine dal Maniscalco non potersi allontanare di Corleone sua patria; ma lui sebbene lontano da Palermo era in segreta corrispondenza col Comitato rivoluzionario di Palermo, presieduto dal Conte Federico, i di cui membri erano Salvatore Cappello, dottor Onofrio Di Benedetto, Pietro Tondù, dottor Gaetano La Loggia ed altri. 
Nei primi giorni di Novembre del 1856 il mio amico Bentivegna riceveva lettera da Palermo, che la sua persona era desiderata colà per affari di negozio; appena questa ricevuta la notte stessa prese la via per Palermo, e come giunse subito si abboccò cogli amici del Comitato dal quale venne informato, che si erano presi gli accordi coi fratelli di Napoli, e si era stabilito di dare principio alla rivolta nel medesimo tempo incominciando con uccidere Ferdinando II. 
La mattina seguente il mio amico di buon mattino uscì dalla casa della cognata divenuta moglie di Nicolò Dimarco, e si portò prima in Bagheria, parlò con Francesco Gandolfo, uomo di molto coraggio, poscia in Termini Imeresi, si abboccò col Dottor Agostino Quattrocchi, partendo da ultimo per Cefalù, ove giunto si portò nella casa del caldo patriotta Salvatore Spinuzza, ebbe pure abboccamento coi fratelli Nicolò e Carlo Botta, anche coi cugini Salvatore ed Alessandro Guarnera, Andrea Maggio e Cesare Civeddu. 
Mentre Bentivegna faceva questo giro di propaganda il sotto Intendente di Corleone, aveva saputo la di lui assenza da Corleone, e ne aveva subito avvertito il Maniscalco Direttore di Polizia, il quale insospettito di ciò aveva ordinato ai suoi subordinati di scovarlo ed arrestarlo, promettendo un premio...
(nella foto: Spiridione Franco)


Spiridione Franco: Francesco Bentivegna. Ovvero: Storia della rivolta del 1856 in Sicilia organizzata dal Barone Francesco Bentivegna in Mezzojuso e da Salvatore Spinuzza in Cefalù. Entrambi traditi, vennero arrestati e fucilati. Altre 24 persone ebbero sentenza di morte.
Il volume è la fedele riproduzione dell'opera originale pubblicata in Roma nel 1899 dalla Tipografia Econ Commerciale
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Giovanni Raffaele: Quel 20 dicembre a Mezzojuso... Tratto da: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni

Bentivegna fu arrestato la notte del 3 dicembre da dieci soldati d’armi, e da una compagnia del battaglione cacciatori guidati da spia, un certo Milone uomo più volte beneficato da Bentivegna; e che come tale conoscea ove tenevasi nascosto. Egli fu trovato solo e inerme in una piccola casa di campagna, e fu condotto a Palermo.
La Corte intanto continuava la istruzione del processo, quando il Luogotenente generale con ministeriale del 9 dicembre, Dipartimento di Polizia, scrisse al procuratore generale della gran Corte criminale «Avendo risoluto, che un Consiglio di Guerra subitaneo procedesse pel signor Bentivegna, Ella nel giorno di dimani gli trasmetterà le carte relative allo stesso, e la nota dei testimonii.»
I giureconsulti declamano contro questo atto che essi chiamano arbitrario. La Corte, essi dicono, si trova impossessata del reato, non solo in virtù dei suoi poteri, ma benanco per mandato del governo colla ministeriale del 28 novembre. Bisognava almeno aspettare che il processo appena cominciato fosse completato, e che la Corte si fosse dichiarata incompetente. Operando in tutt’altro modo colla ministeriale del dì 9 dicembre, il governo ha violato la legge. 
Or per impedire i tristi effetti di questa violazione gli avvocati Bellia, Puglia, Sangiorgi, Maurigi e Delserco, allora adibiti dalla madre dell’accusato, ed assistiti dal patrocinatore Vincenzo Bentivegna, esposero al Direttore del Dipartimento di Giustizia, e dimandarono al Procuratore generale della gran Corte criminale, che la Corte si dichiarasse competente nel giudizio di Bentivegna, attesochè 
Primo: L’ordinanza del 16 giugno in forza della quale si pretendeva mandare il Bentivegna al consiglio di guerra non era più in vigore. 
Secondo: Perché quando anche vigesse, l’articolo II della stessa, vi assoggetta tutti quelli presi colle armi alle mani, o su i luoghi stessi della riunione sediziosa, e Bentivegna era stato arrestato solo, inerme, ed in luogo lontano. Conchiudevano gli avvocati dicendo che la Gran corte criminale, persuasa di questa verità si era impossessata del reato, e si era occupata dell’istruzione del processo. 
È bene sapere che la presidenza dei consigli di guerra spetta al comandante del Castello, ma pare che il governo diffidasse dell’attuale comandante, e l’avea affidata a Pietro Bartolomeo Masi, colonnello del 9° di linea, il quale come vedete, rispondea benissimo alla fiducia del governo in lui riposta.
Ad un’ora p. m. gli avvocati aveano lasciato il Consiglio di guerra, e a due ore p. m. dello stesso giorno il governo con sua ministeriale ordina al Consiglio suddetto di sospendere le sue sedute. Con altra ministeriale della stessa data, ed all’istessa ora ordinava alla suprema Corte di giustizia d’immutare l’ordine delle sue udienze e di trattare l’indimani sabato di affari penali, e a preferenza la causa di Bentivegna, rimandando gli affari civili a lunedi. Ed il presidente della Corte suprema, avvertendo gli avvocati di tal fatto, li avvisava per fare il giro ed informare i 4 Consiglieri nella stessa sera. 
Ma quando gli avvocati si presentavano verso le ore 6 p. m. al presidente della suprema Corte di giustizia, questi comunicava loro un’altra ministeriale allora allora pervenutagli, colla quale il governo ordinavagli di non occuparsi più della causa di Bentivegna. 
A mezza notte dello stesso giorno venerdì, una carrozza usciva dal castello scortata da molta forza armata. Vi erano dentro Bentivegna, Maniscalco ispettore di polizia, De Simone Tenente di Gendarmeria. Lungo il viaggio, De Simone dimandava al Bentivegna, se egli avesse tentato di far la rivoluzione per consiglio del console Inglese, o pure di altri, e Bentivegna gli rispondeva con riso sardonico, e gli discorreva di agricoltura.
All’alba la carrozza giunse a Mezzojuso ove il Bentivegna domandò al Caffettiere, caffè e sicari. Poi volle vedere l’arciprete Greco, cui domandò un foglio di carta e calamaio. Il buon Prelato gli fornì tutto, ed egli con mano ferma cominciò a scrivere il suo testamento. Maniscalco e De Simone gli sussurravano che non sarebbe valido, ed egli rispondeva:
«Va bene lasciatemi fare.»
E compì la sua scrittura che consegnò all’arciprete. Poi tornò a fumare, e quando l’ora della esecuzione fu giunta, domandò che non gli si bendassero gli occhi, che non l’obbligassero a sedere sopra sedia.  
«Io cammino e voi tirate.» 
Egli disse, e così fu fatto. 
Così la mattina del sabato, a quell’ora in cui la suprema Corte di giustizia, in virtù della ministeriale comunicatale il giorno prima a due ore p. m. avrebbe dovuto discutere la causa di Bentivegna, questi, poche ore innanzi era stato fucilato in Mezzojuso senza alcun giudizio legale, ma per ordine arbitrario del governo, per cui la suprema Corte in virtù della seconda ministeriale dello stesso giorno di venerdì comunicata alle ore 5 p. m. non si occupava che di affari civili. 
Ma la causa di Bentivegna trovavasi già notata per l’udienza di lunedì, e bisognava smaltirla. La suprema Corte dunque trovavasi imbarazzata se dovesse, o pur no trattare la causa del morto. Un ricorso degli Avvocati presentato all’udienza di lunedì in cui si diceva:
«Poiché Bentivegna è stato fucilato e i morti non si giudicano, così ritiriamo il nostro ricorso.»  
(Nella foto l'ispettore di polizia Salvatore Maniscalco)


Giovanni Raffaele: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni ovvero Un periodo di cronaca contemporanea. 
L'opera è la fedele riproduzione delle corrispondenze originali, Estratto dall'Unità Politica (1862)
Pagine 110 - Prezzo di copertina € 11,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon Prime, Ibs e tutti gli store online
In libreria a Palermo presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Nuova Ipsa (Piazza Leoni), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15)

Giovanni Raffaele e il barone Francesco Bentivegna: liberale di principi, inalberò la bandiera tricolore... Tratto da: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni

 

Gentilissimo amico, 

Mi dimandaste notizie relative al barone Francesco Bentivegna, e le difficoltà che ho incontrato, volendo fornirvele esatte, sono state la causa del ritardo con cui vi rispondo. 
Se vi rivolgete ai liberali, che sono sempre pronti a condannare tutti gli atti del governo, rischiate di cadere nell’esagerazione; se vi rivolgete agli impiegati vi diranno che tutto è giustizia, tutti gli atti sono paterni, tutto è felicità. 
Evitando questi due estremi, da me ben conosciuti, sono riuscito a tracciarvi una storia così esatta, che non ho difficoltà di obbligarmi al pagamento di mille franchi di multa, a favore di colui che vi dimostrasse falso o esagerato, un sol fatto della mia narrazione. 
Francesco Bentivegna nacque l’anno 1819 in Corleone da onesti e ricchi genitori. Sulle prime, nel collegio de’ padri Gesuiti in Palermo, si ebbe una educazione qual si conveniva alla sua condizione sociale: poi le matematiche, gli studi di agricoltura e di poesia, furono le sue occupazioni predilette. 
Liberale di principii, onesto e caritatevole, fu sempre amato e rispettato dai suoi concittadini. Esercitando su di essi grande influenza, ebbe egli una gran parte negli avvenimenti politici del 1848: e quando si apriva il 25 marzo il Parlamento Siciliano in Palermo, egli fu spedito deputato per rappresentare la sua patria. 
Verso la metà del 1849, ristaurato il governo di Ferdinando II, il Bentivegna ritornava in patria ai suoi studii ed alla pratica agraria in apparenza, ma in realtà non pensava e non agiva, che per riacquistare la libertà. 
Cospirò giorno e notte; travestito percorse più volte la maggior parte dei paesi di Sicilia, ed il fece con tanto senno e circospezione che la polizia o non mai ne ebbe sentore, o se qualche volta credette averlo sorpreso, ed arbitrariamente lo avesse arrestato, mai potè riunire tali elementi di prova da farlo condannare; talchè, dopo averlo fatto languire per qualche anno in carcere durissimo, finalmente era costretta a rimetterlo in libertà, e lo mandava a domicilio forzoso in Corleone. 
Ma queste persecuzioni e sevizie non solo non rallentarono in Bentivegna l’amore della libertà, che anzi maggior fuoco accendevano nell’animo suo, rendendolo all’istesso tempo più ardente e più cauto...
Eludendo ogni vigilanza della polizia, in novembre il Bentivegna percorse per l’ultima volta tutti i Comuni di Sicilia che doveano rispondere allo appello, e coi capi dei Comitati stabiliva d’inalberare la bandiera tricolore, contemporaneamente il 12 gennaro 1857 come anniversario della rivoluzione del 1848; menochè circostanze imprevedute non obbligassero di ritardare, o accelerare il movimento. Egli il 16 novembre fu in Palermo, domicilio inibitogli dalla polizia, la quale ne ebbe sospetto e lo cercò; ma non giunse ad arrestarlo, e fu giocoforza contentarsi di accrescere la sorveglianza, e di sospendere l’Ispettore di Corleone sig. Petini cui sin allora era stata affidata. 
A vista dell’imminente pericolo di essere scoperto ed arrestato, il Bentivegna giudicò non potere più oltre differire il cominciamento dell’opera sua, per cui sabato 22 novembre alle ore 8 della sera, aiutato dal cavaliere Dimarco, da’ fratelli Figlia, e Romano zio e nipote, ricchi proprietari, inalberò la bandiera tricolore ed alla testa di 300 persone armate entrò in Mezzojuso. L’indomani domenica 23 tutte le Comuni ove Bentivegna potè far giungere la notizia della inaugurata rivoluzione risposero allo appello, e così il vessillo tricolore si vide sventolare a Villafrate, a Bocina, a Ventimiglia, a Mezzojuso, e poi a Cefalù, a Roccella e Collesano. 
Ma da un canto, la prontezza con cui, mercè i mezzi de’ quali il governo disponea, potè far giungere le sue truppe su i luoghi dell’insurrezione; dall’altro lato, le piogge dirotte e prolungate che ingrossando i fiumi li rendeano impraticabili e impedivano che le notizie si comunicassero ai paesi più lontani e che la rivoluzione rapidamente si diffondesse, furon causa che la rivolta si arrestasse sul suo nascere....



Giovanni Raffaele: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni ovvero Un periodo di cronaca contemporanea. 
L'opera è la fedele riproduzione delle corrispondenze originali, Estratto dall'Unità Politica (1862)
Pagine 110 - Prezzo di copertina € 11,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
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venerdì 21 maggio 2021

Luigi Natoli: Ciò che dissero gli storici sulla morte dell'Eroe. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860

 
Con la morte di Pilo finisce l’azione autonoma delle squadre durata dal 5 aprile al 21 maggio: da questo momento esse seguono la fortuna dei Mille, e di loro gli storici non terranno parola, o forse per dileggiarle: dimenticando che senza di esse e senza la rivoluzione i Mille non avrebbero potuto fare un passo, e sarebbero rimasti vittime della loro audacia.
Ma che non dissero gli storici? Uno, più grave perché uso a non affermar nulla senza documentazione, non accolse come verità le fanfaronate di uno dei Mille, che fra le altre cose affermava che Palermo pareva una città di morti, e che i Garibaldini, il 27 maggio erano costretti a snidare i Palermitani “per far fare loro la rivoluzione?” 
Questi storici hanno anche un altro torto: quello di credere che la spedizione dei Mille sia tutta la rivoluzione siciliana; o che, forse, questa sia scoppiata per virtù di quella. Per cui essi, appena appena si degnano di dare uno sguardo all’episodio del 4 aprile, allo stato insurrezionale durato fino al 27 maggio, alla spedizione di Rosalino Pilo e di Giovanni Corrao; e pare non sospettino neppure che senza questa e quello, né Garibaldi né i Mille sarebbero salpati da Quarto.
Ora a tanti anni di distanza, quando i fatti storici si possono guardare con maggior serenità, e altri documenti son venuti in luce, è bene ristabilire la verità storica, senza esagerazioni, cadute ormai nel dominio dei luoghi comuni, e senza reticenze inutili. E appunto per questo non bisogna fondarsi unicamente sulle testimonianze raccolte da una parte sola: per quanto meritevoli di credito esse vanno riscontrate con altre testimonianze, e saggiate sulla pietra di paragone dei documenti. I Mille che seguirono Garibaldi sono veramente mille eroi, e l’impresa alla quale si accinsero, fu meravigliosa e miracolosa; ma per esser tali non è necessario tacere, travisare e qualche volta calunniare il potentissimo aiuto che direttamente e indirettamente ebbero in Sicilia dai Siciliani; non è necessario tacere l’efficacia risolutiva dello ambiente; giacchè è bene affermarlo ancora una volta e chiaramente, se la spedizione dei Mille non avesse trovato, neppure il solo concorso morale di tutto un popolo in rivoluzione (dico rivoluzione, non ribellione) Garibaldi e i Mille avrebbero incontrato la sorte dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane. Anzi, per rimanere in tema garibaldino, la campagna di Sicilia del 1860, non avrebbe avuto esito diverso della campagna dell’Agro Romano del 1867, che pure si compiè in condizioni numeriche e d’armamento superiori. Vincitori, anche, a Calatafimi, i Mille avreb­bero avuta a Palermo una Mentana assai più disastrosa.
Ora gli esperti di cose militari, che studiano le cose senza lirismo, hanno oramai riconosciuto che la marcia trionfale da Marsala a Palermo e le vittorie strepitose dei legionari, oltre che al valore di essi e all'azione dell’ambiente, si debbono anche agli errori innumerevoli e madornali del comando generale delle truppe borbo­niche; e questi errori madornali furono l’effetto della paura. Paura di combattere in un paese nemico in rivo­luzione; paura di vedersi assaliti da ogni parte dalla popolazione; paura di vedersi tagliate le comunicazioni e la ritirata; paura di mancare – come mancarono – ­di viveri, di ospedali, di medicine, di tutto.
Il che risulta dai documenti, che hanno maggior valore delle lettere di un esaltato…


Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento sicilianoRaccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:

Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931) 
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 575 – Prezzo di copertina € 24,00
Tutti i volumi della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
È possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia
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Disponibili a Palermo in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Nuova Ipsa (Via dei Leoni 71), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Modusvivendi (Via Q. Sella n. 15), Enoteca Letteraria Prospero (Via Marche 8)
Per qualsiasi informazione: ibuonicugini@libero.it – Cell. 3457416697 – Whatsapp 3894697296
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Luigi Natoli: Il 21 maggio 1860 muore il patriota Rosolino Pilo. Tratto da La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

 
Il 21 di maggio, mentre Garibaldi studiava la sua marcia strategica, le squadre di Pilo erano attaccate da tre forti colonne borboniche. I nostri non eran più di trecento cinquanta; i borbonici oltre un migliaio; ed eran padroni di alture. Corrao sosteneva il fuoco; ma il pericolo d'essere soverchiato era imminente; Pilo ac­corso con Calvino, salito, contro il consiglio di Corrao, in alto per vedere le posizioni, riconosciuto il pericolo pensò di rivolgersi a Garibaldi, per aver aiuti: Calvino e Corrao, stavano in basso; e voltavan le spalle al Pilo, che aveva con sè Andrea Soldano, di Lipari. 
Veramente, per accorrere in aiuto delle squadre, non era forse necessario domandarlo. Gli avamposti garibaldini si spingevano presso la Boarra, e, oltre la loro estrema punta, a Lenzitti era la squadra di Pietro Piediscalzi, attaccata anch'essa dai regi. Il combatti­mento dunque si svolgeva poco lontano. Nondimeno il Piediscalzi a Lenzitti, Pilo e Corrao alla Niviera furon lasciati soli, senza soccorso, a sostenere il fuoco dei regi, che movevano da Monreale e da Palermo. Era una necessità dolorosa, non un abbandono, badiamo; e la rilevo qui, perchè questo fatto d'arme, nel quale, con altri, lasciarono la vita Pietro Piediscalzi e Rosalino Pilo appaia veramente quello che fu: un olocausto, una immolazione per impedire che il campo garibaldino fosse assalito, e rendere possibile a Garibaldi la sua stra­tegica diversione. Rosalino Pilo fu colpito alla testa, mentre scriveva, in piedi, fra due rocce, appoggiando la carta sulle spalle del Soldano. Alle grida del quale accorsero il Corrao, il Calvino e altri, sollevarono il Pilo boccheggiante, e lo portarono nella casa della Neviera, d'onde poi l'abate Castelli, avvertito, lo fece di sera trasportare nel monastero di S. Martino. 
 La morte dell'eroe fu avvolta di tristi voci: la ver­sione più ovvia, più naturale, che egli sia stato ucciso da palla borbonica, (non essendo i regi, che eran ben armati, più lontani di 700 metri; ed avendo egli il capo scoperto); questa versione, che consacrava il suo mar­tirio, si è voluta scartare, e si cominciò col l'accusare di averlo ucciso a tradimento Giovanni Corrao, che invece – e risulta da testimonianze, – stava in basso col Calvino e volgendogli le spalle: e l’invereconda e infame accusa contro chi era stato il compagno, il fra­tello di Rosalino, e che pel coraggio leonino, per la fran­chezza, per tutta la sua vita, non avrebbe mai com­messa una viltà, aveva forse il fine partigiano e astioso di offuscare l'eroica figura del fiero popolano repubbli­cano, alla cui lealtà Garibaldi rese omaggio e allora e poi. 
Scartata, perchè bugiarda e ignominiosa, l’accusa contro il Corrao, si volle ucciso Rosalino Pilo ora da un Morrealese, or da uno di Capaci, e ora da uno di Carini: per quale insania, io non so; forse, per quelle stesse ragioni che dissero Carlo Mosto, une dei Mille caduto alla fazione di Parco, ucciso da uno di quei terrazzani; quando il Rivalta, che gli era vicino, lo vide morire per mano dei regi! Questa nostra rivoluzione era così incol­pevole, gli entusiasmi le davano tanta purezza, che occorreva forse gittare un'ombra oscura su quelle squa­dre e su quelle popolazioni, che pur davano il loro sangue, agevolavano e salvavano la marcia di Garibaldi. 
 Con la morte di Pilo finisce l’azione autonoma delle squadre durata dal 5 aprile al 21 maggio: da questo momento esse seguono la fortuna dei Mille, e di loro gli storici non terranno parola, o forse per dileggiarle: dimenticando che senza di esse e senza la rivoluzione i Mille non avrebbero potuto fare un passo, e sarebbero rimasti vittime della loro audacia. 



La rivoluzione siciliana nel 1860 fa parte di: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. Raccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931) 
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 575 – Prezzo di copertina € 24,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia) Contattaci alla mail ibuonicugini@libero.it o al whatsapp 3894697296
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Nuova Ipsa (Via dei Leoni 71), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Modusvivendi (Via Q. Sella n. 15), Enoteca Letteraria Prospero (Via Marche 8)
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mercoledì 12 maggio 2021

Luigi Natoli: Giuseppe Mazzini e gli esuli siciliani: "la salute dell'Italia è nel Sud". Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

 
V’era fra i nostri esuli il fior dell’ingegno, del sapere, del valore, del patriottismo di Sicilia; e molti illustravano la terra natale, o insegnando o nei civili negozi o con la virtù della vita austera, quali Francesco Ferrara, Emerico e Michele Amari. Francesco Paolo Perez, Michele Amari lo storico, Giuseppe La Farina, Filippo Cordova, Vincenzo Errante, Mariano Stabile, Ruggero Settimo, il marchese Torrearsa, Rosolino Pilo, Francesco Crispi, Giacinto Carini ed altri. Tra i quali alcuni conservavano il loro antico ideale della indipendenza di Sicilia e della confederazione degli stati italiani; altri affinando le menti e modificando i primi ideali di autonomia, venivano convertendosi all’idea unitaria di Giuseppe Mazzini; ma non tutti convenivano nei mezzi; giacché alcuni, stringendosi al Piemonte, aspettavano dalla diplomazia la libertà e unità della patria; altri invece, più schiettamente democratici, speravano nella pronta azione rivoluzionaria e seguivano il Mazzini. Tutti però cospiravano e corrispondevano coi patrioti dell’isola, concertando, incoraggiando, promettendo.
La polizia intercettava le lettere, sorprendeva i segreti, procedeva ad arresti: tuttavia la parola del grande Apostolo penetrava e costituendo nuovi centri della Giovine Italia, infiammava gli spiriti. Il prete Domenico Mastruzzi compose un fervido proclama, che venne in potere della polizia; onde egli fu preso, e martoriato dal tenente dei gendarmi De Simone, maestro di crudeltà; e mandato a giudizio con altri, ne avevano condanna ai ferri. Ciò non impedì che si costituisse un comitato centrale esecutivo, in relazione col comitato di Londra di cui era anima il Mazzini, e fedeli interpreti Francesco Crispi e Rosolino Pilo, infaticabili sempre; e coi comitati degli esuli di Genova, Marsiglia, Parigi e Malta: e già concertata ogni cosa per insorgere, si provvedevano i mezzi finanziari, quando per la troppa fiducia di uno dei cospiratori e di un prete, la polizia ebbe nelle mani le fila della vasta trama: il prete, un tal Papanno, ottuagenario, ne morì di cordoglio nelle prigioni, dove molti altri marcirono. Ma per venti cospiratori arrestati, altri cinquanta sorgevano a prenderne il posto; ché i processi mostruosi imbastiti su semplici indizi, e le prigionie crudeli e le torture non sgomentavano e non intiepidivano i cuori.
Le carte degli archivii contengono i nomi di questi generosi, molti dei quali noi conoscemmo vecchi, semplici e modesti, vivere dimenticati nell’ombra, senza vanterie e senza lamentele. Il governo di Sicilia mostravasene soddisfatto, ma non così da non riconoscere i pericoli dell’occulto lavoro delle associazioni segrete “conventicole tenebrose”, dice un documento ufficiale, “ove si temprano le armi per le rivoluzioni”. Le relazioni della luogotenenza al governo di Napoli sono in quegli anni piene di preoccupazioni, e rappresentano le varie provincie dell’isola, quale più, quale meno, in un perenne e pericoloso stato di agitazione latente: e difatti si costituivano qua e là comitati, e uno più numeroso in Palermo, con antichi e nuovi elementi: del quale faceva parte G. Vergara di Craco, Luigi La Porta, Salvatore Spinuzza, Francesco Bentivegna, Vittoriano Lentini, Enrico Amato, Pietro Lo Squiglio, Mario Emanuele di Villabianca; e molti altri; v’entravan pure i fratelli Sant’Anna, i fratelli Botta e di Termini il dottor Arrigo e Giuseppe Oddo, da Girgenti i fratelli Grammitto. Mazzini incorava con le sue lettere di fuoco; e l’opera di propaganda e di preparazione era andata così alacremente innanzi, che s’aspettava per insorgere l’invio di quattrocento uomini, dal Mazzini promessi per guidare la rivoluzione. 
Mentre la democrazia, animata dalla voce di Giuseppe Mazzini, fecondava col sangue la rivoluzione e cementava nell’unità ideale le genti d’Italia da secoli divise, la diplomazia piemontese andava sempre più stringendo legami con l’impero francese; e il Piccolo Corriere, giornale fondato e scritto da Giuseppe La Farina, messinese, esule, grande ingegno, ma fiero partigiano, da Mazzini passato a Cavour, cercando di convertire gli spiriti alla politica del Piemonte, diffondeva l’idea nazionale anche fra i timidi e gli irresoluti. 
L’inaspettato armistizio di Villafranca, voluto da Napoleone III, che temeva complicazioni a suo danno, arrestando il corso delle vittorie, e lasciando Venezia nelle mani dell’Austria, parve a tutti un tradimento, che ritardava il compimento dell’unità nazionale; e dissipando le speranze degli uomini d’azione, che avevano dato alla monarchia di Savoia il loro leale concorso, li persuase che nulla più era da aspettare dalla diplomazia, tutto invece dalla rivoluzione della Sicilia, alla quale i tempi erano già maturi. E questo riconoscevano anche gli uomini di parte più moderata: se non che il partito d’azione, ritornato al verbo di Giuseppe Mazzini, voleva far da sé, anche contro la monarchia di Piemonte; mentre quelli volevan sì la rivoluzione, ma di concerto e con l’aiuto del Piemonte. Comunque, gli sguardi d’ogni parte si volgevano in Sicilia, donde lo spirito profetico di Mazzini presentiva che sarebbe venuta la salvezza dell’ideale unitario.
“Salvo casi imprevisti – scriveva a Nino Bixio in quei giorni – avremo insurrezione siciliana; sarà regia, unitaria; abbandonarla, lasciarla sola contro le forze tutte del re, è un condannarla a essere schiacciata”; e nell’agosto dello stesso anno scriveva al Ricasoli: “otto o diecimila uomini e il nome di Garibaldi e il moto di Sicilia preparato da lunga mano sono l’insurrezione del regno. La salute d’Italia è nel Sud”. E ciò intendevano gli esuli siciliani o no, che a quelli del Maestro univano i loro incitamenti; e Rosolino Pilo e Francesco Crispi da Genova e Nicola Fabrizi e Giorgio Tamaio da Malta, spronavano questo o quel patriotta dell’isola, perché si affrettasse il lavoro dei comitati segreti. 



Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana del 1860. Narrazione. Fa parte di: 
Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano – Raccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931) 
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 575 – Prezzo di copertina € 24,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (Consegne a mezzo corriere in tutta Italia) Invia un messaggio al whatsapp 3894697296 o alla mail ibuonicugini@libero.it
On line su Amazon, Ibs e tutti gli store 
In libreria a Palermo presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Zacco (Corso Vittorio Emanuele), Nuova Ipsa editore (Piazza Leoni), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15)

Luigi Natoli: Le squadre degli insorti siciliani nel 1860. Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

Con pari fortuna si combattè a Bagheria, dove due compagnie di linea, costrette a retrocedere dinanzi a quelle squadre, dovettero riparare e fortificarsi nella casina Inguaggiato; e strettamente assediate, sarebbero cadute, per fame, nelle mani degli insorti, se, dopo due giorni, non fosse in loro aiuto accorso il generale Sury con quattro compagnie, mezza batteria di cannoni, mezzo squadrone di cavalleria: i quali, saccheggiati e devastati i villaggi di Ficarazzi e Ficarazzelli, attaccati e respinti gli insorti, liberarono gli assediati, con cui ritornarono in Palermo. Ebbero per altro dieci uomini fuori combattimento. 
Rifulse in questo conflitto l’eroico valore di Andrea Coffaro e del figlio Giuseppe; i quali, ritiratisi e asserragliatisi in una casa, detta la torre di Ferrara, accerchiati dalla soldatesca, vi si difesero gagliardamente. Giuseppe, giovane ardimentoso, sdegnando combattere dietro i ripari, uscì all’aperto, e colto da una palla in fronte, cadde morto; Andrea, o non volendo più difendersi pel dolore della morte del figlio o per altre ragioni, cedette le armi, e fu trascinato a Palermo, dove lo aspettava crudeltà di fato.
L’insurrezione si allargava: Piana dei Greci, Corleone, Ciminna insorgevano, Termini fin dal 5 inalberava il vessillo tricolore, costringeva il presidio a richiudersi nel forte, costituiva un comitato e diffondeva emissari nel distretto: tutta la provincia era in fiamme, e le faville giungevano a Barcellona, a Messina, a Catania. Trapani, senza colpo ferire, innalzata la bandiera tricolore, e costituito un comitato, obbligava quell’Intendente marchese Stazzone a licenziare la polizia, facultare la formazione della guardia cittadina, liberare dal carcere il cav. Coppola, e far ritirare il presidio nel castello. Marsala insorgeva anch’essa e formava bande.
Il generale Salzano comandante delle armi in Sicilia, proclamava intanto lo stato d’assedio (4 aprile), istituiva il Consiglio di guerra, ordinava il disarmo, vietava il suono delle campane, e, poco dopo ne faceva togliere i batacchi; proibiva l’andare per le strade in compagnia, alloggiare in casa persone estranee. Il luogotenente generale Castelcicala, giunto il giorno dopo, approvava ogni cosa, e affidava la tutela dell’ordine al Salzano e al Maniscalco. Giungevano frattanto tre piroscafi con milizie novelle e farine e munizioni.
La sera del 7, o per delazione o per sospetti, il Maniscalco faceva arrestare i  giovani più attivi del comitato aristocratico, sorpresi in casa del duca Antonio Pignatelli di Monteleone. Erano oltre a quest’ultimo, il barone Riso, il cav. Notarbartolo di S. Giovanni, il principe di Giardinelli, unico superstite oggi di quel comitato, il duca di Cesarò. Il principe di Niscemi, che era con loro e non era stato arrestato, volendo dividerne la sorte, si accusò reo della stessa loro colpa, e porse le mani ai lacci: la polizia non lo scontentò e lo trasse con gli altri. Per maggior avvilimento, ammanettati come malfattori, fece loro attraversare a piedi tutto il Toledo, fino al forte di Castello a mare, circondati di birri. Il popolo salutò riverente e commosso il loro passaggio, compiangendo tanta bella giovinezza, della quale presagiva acerba sorte. Poco dopo, a bordo di una nave americana veniva arrestato il padre Lanza, e si mandava a Napoli, per arrestare il marchese di Rudinì, il quale però riusciva a fuggire per l’astuzia della marchesa Spedalotto.
Cinque bande d’insorti tenevano principalmente il campo, e contrastavano cotidianamente coi regi: quella di Alcamo comandata dai Sant’Anna, quella di Partinico con a capo Damiano e Tomaso Gianì, (questi ancor vive ottantenne) quella di Piana dei Greci capitanata da Pietro Piediscalzi e da Luigi Zalapì, quella di Corleone condotta dal marchese Firmaturi, alla quale si erano aggregati Domenico Corteggiani e Giovan Battista Marinuzzi; quella di Cerda e di Ciminna guidata da Luigi La Porta. V’erano inoltre le squadre della contrada dei Colli, di Carini, Cinisi, Torretta, a capo delle quali erano il d’Ischia, il Bruno-Giordano. Pietro Tondù, i due fratelli Ajello, il padre Messeri, i fratelli De Benedetto.
Le squadre di Carini, di Cinisi, dei Colli, dopo i combattimenti di San Lorenzo si erano ritirate sull’Inserra; quella di Partinico unitasi con quella d’Alcamo, errava sui monti sopra Monreale; quella di Piana, dopo gli scontri sostenuti, si era ritirata a Piana per rinforzarsi, ed ivi infatti era stata raggiunta dalla squadra di Corleone e da molti animosi dei comuni vicini; coi quali, ripresa l’offensiva, sollevati Misilmeri e Belmonte aveva rioccupato il convento di Gibilrossa.
Contro queste squadriglie, che formavano un semicerchio intorno alla città, molestando continuamente gli avamposti e le pattuglie e i piccoli distaccamenti, il governo dell’isola, sollecitato da quello di Napoli e più propriamente dal re, spedì alcune forti colonne mobili. Al generale Cataldo fu assegnato il compito di sloggiare gl’insorti da Gibilrossa, occupare Villabate, Misilmeri, Marineo, spingersi sopra Piana dei Greci, S. Giuseppe delle Mortelle e fermarsi a Partinico. Al maggiore Bosco e al maggiore Morgante, era dato incarico di osteggiare le squadriglie tra Monreale e Boccadifalco; mentre altra colonna sotto gli ordini del tenente colonnello Torrebruna doveva spazzare le campagne dei Colli, fino a Carini. La colonna Cataldo si mosse l’11 di aprile; ma senza mai venire a una vera e propria fazione. Si capì che la tattica delle squadre, era “di non farsi raggiungere mai dalle regie truppe, a solo fine di stancarle, protrarre l’agitazione, e ritardare... il ristabilimento dell’ordine”. Per il che, a troncar una guerra faticosa e senza risultati, il re di Napoli mandava segrete istruzioni per la distruzione delle bande, con la forza da una parte, con gli indulti e spargendo la diffidenza e il tradimento, dall’altra.
Il comando militare, quindi, concertata un’azione simultanea delle varie colonne mobili, diede ordini di assalire gli insorti, che, indietreggiando dinanzi al soverchiare dei regi, si concentravano a Carini. La colonna Cataldo movendo da Partinico, quella del Bosco per Torretta e Montelepre, quella del Torrebruna, rinforzata da altre milizie per la via di Capaci dovevano prendere in un cerchio le squadre. Il 18 infatti gli insorti sono assaliti; si combatte accanitamente per parecchie ore tra forze ineguali: Carini vien presa dai regi del Cataldo, che si abbandonano al saccheggio e alla carneficina. Ma il movimento aggirante, per imperizia del Torrebruna, e per non essere arrivata in tempo un’altra colonna col tenente colonnello Perrone, non riesce: gl’insorti giungono ad aprirsi un varco e a ritirarsi sulle montagne, sebbene fulminati dai borbonici. Gl’incendi, le stragi di Carini indegnarono anche il re, che censurò vivamente la indisciplinatezza e la barbarie delle truppe; segnarono un altro debito verso la vendetta popolare.
Dopo la presa di Carini, i comuni dei dintorni di Palermo ritornarono all’obbedienza; e la più parte degli uomini delle squadre, disanimati da una guerra senza speranza di vittoria, non vedendo giungere gli aiuti che erano stati promessi, non sorretti dalla fede nell’idea dell’unità che essi non capivano, adescati dall’indulto, gittavan le armi e ritornavano sottomessi nelle loro case. La causa della rivoluzione pareva perduta; quando il 20, Rosolino Pilo e Giovanni Corrao giungevano a Piana dei Greci, e con le rinate speranze riaccendevano il fuoco, non ancor domo. Pietro Piediscalzi, infaticabile, ardente, si unì tosto con loro e ricostituì la squadra, che poi tenne, fino alla morte, ai suoi ordini, pagandola del suo.
Spediti messi sicuri al comitato di Palermo, e ricevuti soccorsi di denaro e promesse, Pilo convocò i principali e più vicini capi di squadriglie; e tosto convennero il La Porta, il Firmaturi, il barone di S. Anna, e poco dopo anche Pietro Lo Squiglio, già valoroso combattente in Palermo, e legionario siciliano in Lombardia nel 1848, scampato il 18 aprile al combattimento di Carini, serbato a più gloriosa morte dinanzi le mura di Palermo. Presi gli accordi e separatisi da quei capi, il Pilo, il Corrao e il Lo Squiglio qualche giorno dopo lasciarono Piana dei Greci, in tempo per sfuggire a una sorpresa...




Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana del 1860. Narrazione. Fa parte di: 
Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano – Raccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931) 
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 575 – Prezzo di copertina € 24,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (Consegne a mezzo corriere in tutta Italia) Invia un messaggio al whatsapp 3894697296 o alla mail ibuonicugini@libero.it
On line su Amazon, Ibs e tutti gli store 
In libreria a Palermo presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Zacco (Corso Vittorio Emanuele), Nuova Ipsa editore (Piazza Leoni), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15)

martedì 11 maggio 2021

Luigi Natoli: Fervono i preparativi... Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione.

Nei primi di aprile, cedendo alle sollecitazioni di Bertani e di Crispi, cui Rosolino Pilo aveva commesso di far anche le sue parti, da Torino Garibaldi veniva a Genova, per ordinarvi la spedizione; e dalle finestre del palazzo Coltelletti rivolgeva magnanime parole alla folla plaudente: ma la mancanza delle notizie promesse da Pilo gli tormentava l’anima di dubbi; e le notizie dei giornali sulla rivoluzione siciliana erano così contraddittorie e sconfortanti, che Garibaldi, ripugnandogli avventurare centinaia di vite umane in una impresa disgraziata, reputò come immatura la spedizione. Nondimeno Bertani, Crispi, i fratelli Orlando, La Masa e gli altri esuli di maggior conto non gli davano tregua. Ma fra tanto il 20 giunsero le lettere inviate da Pilo il 12 di aprile agli Orlando, a Bertani, a Crispi e allo stesso Garibaldi, per mezzo del pilota Raffaele Motto.
Il Motto, condotto a Villa Spinola presso Quarto, dove Garibaldi alloggiava, data la lettera al Generale, alle sue domande, rispondeva essere Pilo e Corrao partiti da Messina per Palermo, sollevando le popolazioni; la rivoluzione essere scoppiata in quelle vicinanze, e aggiungeva: – “Generale, ci vuole il vostro nome e il vostro braccio, altrimenti in Sicilia saranno tutti sacrificati”.
Garibaldi rimase un po’cogitabondo, poi domandò notizie sulle coste dell’isola, e il Motto suggerì che le migliori condizioni per uno sbarco si sarebbero trovate a Trapani, e questo era anche il parere di Corrao.
Il Generale risolvette allora di non più indugiare; e fissato il giorno della spedizione pel 25 di aprile, il Crispi ne informava subito Rosolino Pilo: ma sopraggiunte altre lettere del Pilo a Garibaldi, che si riserbavano di indicare il punto preciso dello sbarco, la partenza fu rimandata ancora una volta.
La notte del 29 giunse un altro telegramma del Fabrizi, che più esattamente diceva repressa l’insurrezione in Palermo, ma viva ancora nelle provincie: e giungevano anche altre lettere e dispacci, che, esagerando forse di proposito, affermavano Pilo a capo di un esercito, e l’isola in fiamme. Questi dispacci e quello di Fabrizi, le lettere di Rosolino Pilo e la risolutezza degli esuli siciliani, la fede e la tenacia di Francesco Crispi e di Giuseppe La Masa, vinsero qualunque altro dubbio nell’animo di Garibaldi: e la spedizione, due volte sospesa e rimandata, fu definitivamente decisa. “Partiamo” – egli disse; – “purché sia domani”.
Si è esagerata da alcuni la partecipazione del governo piemontese alla spedizione di Garibaldi; da altri si è negata: la verità è che Cavour aveva da prima anche esso parteggiato per una spedizione nell’isola, nel caso vi fosse scoppiata una rivoluzione; ma voleva farla con truppe regie; e in marzo ne aveva fatto parlare al generale Ribotti, che, per essere stato ai servizi della Sicilia nel 1848, pareva l’uomo acconcio. Ma indi, spaventato dalle conseguenze diplomatiche, non ci pensò altro. Una intesa c’era invece tra Garibaldi e Vittorio Emanuele, al quale Garibaldi aveva chiesto se gli avesse conceduto una brigata di truppe scelte per andare in Sicilia, e ne aveva anche parlato al generale Sacchi antico suo commilitone di Montevideo. Il re sarebbe stato favorevole, ma ne fu dissuaso dal Cavour; il quale, temendo la Francia e possibili complicazioni; non entusiasta di Garibaldi, non fiducioso nel leale concorso di Mazzini; avversario per istinto di razza, per educazione, per ufficio delle rivoluzioni di popolo; pavido che la spedizione, sebbene fatta in nome di Vittorio Emanuele, tendesse a repubblica, si ritrasse; non nascose la sua avversione, e pur non impedendo, come avrebbe potuto, i concerti, gli arruolamenti e tutti i preparativi, fece sequestrare le armi della Società nazionale, che dovevano servire alla liberazione e all’unificazione della patria. 
Fissata la spedizione, la febbre accese tutte le vene. Garibaldi corse a Genova, e fatto chiamare il Fauchè, gerente della Società Rubattino, col quale già fin dal 9 aprile si era inteso, concertò per la cessione dei due piroscafi, il Lombardo e il Piemonte, incaricando Bixio di ogni cosa. Villa Spanola a Quarto diventò il quartiere generale della spedizione. Il Bertani, Crispi, Bixio, si moltiplicavano. Dalla Lombardia, dal Veneto, dalla Liguria; da ogni regione d’Italia accorrevano volontari: i più non superavano il venticinquesimo anno; v’erano dei giovani quindicenni, uno di undici anni; cinque soltanto oltrepassavano i sessanta: la più parte benestanti o impiegati o professionisti; in minor numero, di popolo. Non avevan vestiti uniformi; pochi indossavano camicie rosse; Sirtori e Crispi vestivan di nero con cappello a cilindro, Bixio portava la divisa dell’esercito piemontese; gli altri giacche, giubbe, camiciotti, colori e forme disparate, armi pochissime: e queste, date dal La Farina per le sollecitazioni di Crispi e degli altri esuli, erano un mille fucili e munizioni, che caricati in barche dovevano aspettare i due piroscafi al largo. 
La sera del 5 maggio, con simulata violenza, Bixio prese possesso dei due piroscafi, e li condusse a Quarto. Garibaldi, per mettere al sicuro la responsabilità del Fauchè, scrisse una lettera ai direttori della società Rubattino, promettendo rifarli dei danni; ma la Società poco dopo punì il gerente, destituendolo; né più volle riammetterlo in servizio, reo di aver favorito la più grande e meravigliosa impresa dei nostri tempi. 



Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana del 1860. Narrazione. Fa parte di: 
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La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
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