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mercoledì 3 aprile 2019

G.E. Nuccio: Passa tra i prigionieri Francesco Riso... - Tratto da: Picciotti e Garibaldini

Ancora la via Toledo rigurgitava di soldati e di birri; e gli sbocchi dei vicoli eran chiusi da compagnie con le baionette inastate, e ancora durava quel vocìo incomposto di gente lieta che può cantar vittoria. Passavano, a quando a quando, coppie di soldati recanti or fasci di lance, or di fucili, ora ceste di bombe o di cartucce, e si scambiavan con i soldati fermi agli sbocchi, saluti e motti commentati da sghignazzi alti.
Ma, a un tratto, al vocìo alto successe un mugolare sordo, e, dal basso della via, apparve una siepe fitta di baionette e una folla d’armati. Ma il mugolare sordo si veniva placando, e s’udiva ora il tonfo dei passi e il cigolo delle ruote d’un carro....
Pispisedda si rizzò e travide, oltre la siepe delle baionette, un cavallo, un carretto, e sul carretto un uomo, poi altri uomini seduti o accosciati....
“Iddu è” dicevano “Iddu è! Cicciu Riso!”
“È ancora vivo?” si domandò Pispisedda fremendo.
Come il convoglio s’avvicinava, il silenzio si faceva più alto. Pareva che la sorpresa, la meraviglia, la paura serrasse le gole di quel popolaccio di soldati e di birri, che or ora aveva vociato urli di vittoria. “Carognoni” imprecava Pispisedda, scorgendo tutte quelle facce sbiancate, sulle quali il riso ebete di poco fa s’era già spento. E ora risonava alto il tonfo dei passi e lo zoccolo del cavallo e il cigolìo delle ruote. E i soldati e i birri arretravano verso il muro.
Pispisedda fece un lancio, e vide il primo ferito che aveva negli occhi un atteggiamento di sfida.
“Iddu è!” esclamò il ragazzo. E attese trepidando e guardando a una a una le facce sbiancate dei birri e dei soldati che arretravano sempre più a ridosso dei muri.
E il carro fu a mezzo la via assiepato dai soldati: Pispisedda si cacciò risolutamente avanti e scorse don Ciccio Riso sul piano del carro tra la siepe di baionette, con quel suo sguardo, ardente, fiero, che pareva investisse come ventata di sfida la folla dei venduti.
Per quel giovane, per quel giovane e pochi altri uomini, tutto l’esercito del Re era stato preso da folle paura; per quel giovane e pochi altri uomini avea tuonato laggiù il cannone! Ma quei soldati e quei birri del Borbone scorgevano nello sguardo di Francesco Riso, ancora il grido di sfida che era di tutto il popolo: come se da dietro le imposte di tutte quelle finestre, e di tutti quei balconi serrati scattassero tuttavia gridi altissimi di minaccia.
Un’ondata di contento investì l’anima di Pispisedda, come se Francesco Riso fosse portato non alla morte, ma in trionfo da un popolo non già spaurito, ma vittorioso.


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico ambientato a Palermo durante la rivoluzione siciliana del 1860. Al centro un gruppo di ragazzini, attraverso i quali il lettore conoscerà i veri protagonisti di quel periodo storico e ne rivivrà i difficili giorni. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad con le illustrazioni dell'epoca di Diego della Valle
Pagine 511 - Prezzo di copertina € 22,00
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G.E. Nuccio: I prigionieri del 04 aprile. Tratto da: Picciotti e Garibaldini



Sbucaron nella piazzetta del Cavallo marino e don Gaetanino tacque. Porta Felice era chiusa da una folla di soldati e anche il tratto di via Toledo, che correva da Porta Felice a piazza Marina, ne era zeppo.
I due ragazzi avrebbero voluto imboccare i vicoli che sbucavano in via Butera, ma rigurgitavano di soldati, specialmente il vicolo della Zecca, donde aveva tentato di uscir la terza squadra dei rivoltosi incalzati e dispersi dalle soldatesche.
Appena i due si appressarono alla piazza udirono più alto il gridìo incomposto e il mormorìo febbrile d’una folla briaca di vittoria.
Mute e cieche eran le case, e parea che non un cittadino le abitasse, e sembrava che la città fosse stata abbandonata alla turba dei soldati.
A un tratto, dal fondo della via Bottari, s’iniziò un sommovimento che venne avanzando nella folla, come fa l’onda del mare, e giunse in via Toledo e investì anche i due picciotti gettandoli addietro, poi, rimbalzando, corse verso il sommo dove affittiva la folla dei soldati. E passò col sommovimento una voce ripetuta di bocca in bocca.
- Vengono gli arrestati!... – e corse anche il grido ripetuto agli sbocchi delle vie dalle sentinelle appostate. “Alto, chi va là!”.
Pispisedda fu preso da un brivido di freddo. Un sudore ghiaccio gli scorreva dalla fronte e fermandosi agli angoli delle labbra sapea d’amaro come fosse fiele.
Venivano....
E la banda militare squillò quella sua marcia guerresca, che squarciava il cuore peggio del grido “Viva lu Re!”, urlato dalle bocche dei birri e dei soldati briachi di contento.
Pispisedda si faceva più piccolo e gli pareva di essere solo, sperduto, come una pagliucola sbattuta da onde tempestose e torbide.
I soldati si stipavano a ridosso dei muri e la via Bottari si faceva sgombra nel mezzo. Ed ecco che apparve, in fondo, una folla bigia, cerchiata da una fitta siepe di baionette e di divise luccicanti tagliate in croce dalle cinghie bianche.
E come passava, i birri, che fiancheggiavano la via, sventolavano alti i berretti, unendo il grido di “Viva lu Re!” a quello dei soldati.
Ed eccoli che sbucano in via Toledo, dove urge la ressa dei soldati. Pispisedda si rizza sulle punte dei piedi e guarda attraverso i compagni d’arme, che lo stringono da tutti i lati. Ecco, davanti a tutti, Giovanni Riso, il povero vecchio; e quindi i monaci, legati a due a due, pesti, sanguinanti sul viso, tratti, sospinti da compagni d’arme, da soldati, da birri, ch’hanno sulla faccia un riso sgranato, un riso feroce di belve satolle. Ecco gli altri arrestati delle squadre di don Ciccio Riso, anch’essi pesti nel viso dov’è dipinta una tristezza infinita, una tristezza senza speranza. A tratti, qualcuno d’essi leva lo sguardo sui balconi serrati e sembra chiedere: “Dove sono i fratelli?”.
Pispisedda si lasciava trarre dall’onda dei soldati che saliva; e don Gaetanino gli veniva a lato tremando tutto, il collo affondato, le spalle aguzze, come ghiacciasse per freddo.
Pispisedda guardava in alto; il cielo era cupo ancora, e i balconi e le finestre serrate conferivano alle case un aspetto cupo e dolente. Pareva a Pispisedda di seguir un esercito predone scagliatosi dentro una città morta.
Allo sbocco di via Argenteria il grido: “Alto, chi va là!” della sentinella suscitò urla di “Viva lu Re!”, che correva per l’aria; ma sembrava respinto duramente dai balconi e dalle case serrate. E, come si placava il clamore della banda e delle grida, s’udiva il tonfo dei passi così alto e cupo, che pareva risonato da una fila di tombe scavate nel sottosuolo.
E Pispisedda fu preso da un furore pazzo e urtò e spinse per lanciarsi su quello e straziarlo a morsi. Ma, come furono giunti di fronte alla chiesa di San Matteo, la folla si fermò di botto, quindi fu rigettata addietro come se la testa della colonna avesse dato di cozzo in un ostacolo, e come se ciascuno, cozzando, fosse mandato di qua e di là. A un tratto anche Pispisedda si trovò sbalestrato sugli scalini della chiesa.
E di là potè guardare ai Quattro Cantoni dove era più viva la ressa, e donde venìa il gridìo più alto.
Ecco che la colonna degli arrestati restava per un poco sola nel bel mezzo della piazza; essendosi spartita in due la colonna dei soldati che la fiancheggiava. Torno torno, ai prigionieri, pullulavano i birri agitando alte le mani. Che volevano? Che urlavano? Pispisedda scorgeva gli arrestati stringersi compatti e formare come un sol corpo, per difendersi dall’ira dei birri urlanti!
Ma sopravvenne una compagnia di soldati dal basso; e passò rapida spingendo avanti Pispisedda, che, in un attimo, si trovò sbacchiato all’angolo del palazzo Di Rudinì nei Quattro Cantoni. Di là nulla vedeva; ma udiva le voci dei soldati che gridavano: “Avanti, avanti!” e gli urli dei birri indemoniati: “Fucilateli! fucilateli qui e poi bruciateli!... Viva lu Re!”.
Allora Pispisedda si raggricciò e ripensò alla fucilazione di Nicolò Garzilli e dei compagni.
Per quello adunque avean fatto largo al gruppo degli arrestati? E il tumulto continuava pazzo; e sul tumulto gli urli rochi dei birri: “Fucilateli! Fucilateli qui!”.
E ci fu un momento in cui imperò su la folla un silenzio tragico. Pispisedda avvinghiato dalla paura folle d’udir le schioppettate che squarciavano i petti degli arrestati, si tappò gli orecchi con le mani frementi e gli parve d’udire l’ululare feroce di mille lupi pronti a scagliarsi.
Ma a un tratto, la folla riprese l’andare, e Pispisedda togliendosi le mani di su gli orecchi udì il grido dei soldati: “Avanti, avanti, al comando di Piazza!”.
Ecco, certamente i soldati aveano vinto sui birri che volean fucilar gli arrestati. E questi andavano, stretti, compatti, come volessero morire insieme, d’un sol colpo.
Pispisedda si provò a proseguire oltre i Quattro Cantoni, ma fu ricacciato addietro e tornò verso piazza Marina. Scontrò don Gaetanino che correva verso giù, a zig-zag, fra la folla, come un canuccio spaurito, e se lo trasse dietro lungo la strada. Gli parea ormai d’avere il cuore spezzato e la gola rotta...



Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico ambientato a Palermo durante la rivoluzione siciliana del 1860. Al centro un gruppo di ragazzini, attraverso i quali il lettore conoscerà i veri protagonisti di quel periodo storico e ne rivivrà i difficili giorni. 
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G.E. Nuccio: Francesco Riso cade ferito - Tratto da: Picciotti e Garibaldini

Ah! ecco Francesco Riso sui tegoli. Che fa? Dio! si getta bocconi, abbranca il fucile, prende la mira verso la via che brulica di soldati e di compagni d’arme e spara. Ad ogni colpo un nembo di fumo bianco lo avvolge, e quando il fumo s’è disperso, Pispisedda lo rivede calmo a caricar l’arma e a riprender la mira e a sparare.
E intorno a lui, laggiù nella strada, infuria la mischia disperata. Pispisedda se n’accorge perchè da ogni parte crepitano le fucilate, squillano le trombe, rullano i tamburi; nella via Vetriera, nella via Alloro, in piazza Marina. E le palle battono come grandine sul campanile, sul tetto, su tutto il monastero, bucando muri, spezzando tegoli, imposte, vetri; sì che attorno a don Ciccio Riso e ai compagni (che ricaricano le armi, prendono la mira e sparano gridando “Viva l’Italia!”) tutto è un crepitìo e un fracasso d’inferno.
- Pispisedda! – chiama fra Giovannangelo dall’angolo della sua cella dove s’è buttato a pregare. Pispisedda si volta di scatto e scorge gli occhi spaventati del povero monaco, che urlano una interrogazione disperata. Ma che deve rispondere? Fra poco sarà finita. I soldati del Re infame si cacceranno nel convento come i lupi affamati.
- Dio! – grida Pispisedda che s’è rimesso a guardar don Ciccio Riso.
- Che c’è? – chiede balzando fra Giovannangelo. Pispisedda, pallidissimo, strette le labbra, i pugni, in un’angoscia spasmodica addita sui tegoli....
E anche il monaco scorge: don Ciccio Riso s’è levato a mezzo ginocchioni, è caduto, si rileva, puntando la destra tuttavia armata....
Nè Pispisedda, nè fra Giovannangelo parlano: tutta l’anima hanno negli sguardi fissi su Francesco Riso.
Ricade, ma è un attimo: si rileva e viene carponi dove più fitto è il crepitìo delle palle e rientra per la finestrucola. Pispisedda balza verso l’uscio serrato; ma un terribile fragore, che squassa il monastero e fa ruinar i vetri tutti, lo caccia addietro.
- È finita! – dice il monaco. – Sfondano la porta a cannonate! – e si butta nell’angolo di fronte al Cristo a pregare.
Pispisedda riprende animo; esce e corre all’impazzata. Per tutto incontra monaci che scappano di qua e di là con le mani levate, invocando. I vetri delle finestre ruinano frantumati dai colpi secchi. Gruppi di armati, neri nei visi e nelle mani, vanno, stretti, curvi, ghermendo il fucile con la destra, scrutando dinanzi, appostandosi alle uscite. Pispisedda capisce che da un momento all’altro, entrando i soldati, la battaglia infurierà su per le scale, lungo i corridoi. E i monaci corrono come impazziti. Alcuni si buttano dalle finestre che dànno sul giardinetto: un gruppo di sette si asserraglia dentro una cella. E Pispisedda corre avanti e sbuca dov’è la scala a chiocciola che mena al campanile; ma s’arresta: don Francesco Riso scende, pallido. Il ragazzo torna indietro e s’addossa al corridoio per far largo. E don Ciccio Riso avanza e ad ogni passo sembra che riprenda animo e fissi dinnanzi a sè il corridoio, come volendo giungervi presto.
- Alla porta, alla porta! – grida sommessamente. – Coraggio! Se dura un altro poco, la città ci aiuterà e vinceremo! 
Ma ecco la terribile voce del cannone, e il tremito di tutto il convento, e il ruinar di vetri, e il grido immenso d’un esercito: “Viva lu Re!”.
- Viva l’Italia! – grida don Ciccio Riso, trovando nuova forza per correre.
Pispisedda inebetito, smorto, piantato alla parete, si rizza in piedi, allunga il collo per scorger don Ciccio Riso che scompare laggiù come ingoiato dal buio. Che potrà mai fare lui con pochi altri uomini contro un esercito infinito, contro il cannone che scuote il convento dalle fondamenta?
E Pispisedda scende a precipizio. Perché? Dove va? Non sa nulla, non ha deciso nulla. Non può star più fermo, altrimenti gli scoppia il cuore. Ecco, gli par di scorgere don Ciccio Riso fatto gigante e combatter da solo con un esercito infinito e uccider soldati a montagne....
E Pispisedda corre ancora, impazzato, alla ventura, senza mèta. Eccolo già al piano terreno; attraversa il corridoio; travede il cortile, la porta mezzo sfondata; e, presso la porta, Francesco Riso attorno ad alcuni morti. Pispisedda avanza istintivamente: Francesco Riso carica a stento il fucile; sta per prender la mira; s’ode uno scroscio! una scarica lo coglie, trempella, arranca con le braccia e si piega su se stesso.
Un urlo altissimo segue la sua caduta e fa arretrare Pispisedda. Ecco, ecco i soldati che dànno addosso alla porta, Pispisedda arretra sempre più.... e la porta sobbalza sotto i colpi, si squarcia e l’orda dei soldati irrompe urlando, nel cortile.
Pispisedda balza come un capriolo, rifà il corridoio, s’imbuca per la porticina segreta, e via per Terrasanta, a lanci come un gatto. Presso la panetteria tumultua un nugolo di soldati, ferendo e bastonando i monaci urlanti e gementi; ma Pispisedda non s’arresta, urta, spinge, balza su uno, due soldati, avventando pugni e morsi, infine taglia il gruppo, e, rapidissimamente, come una saetta, balza fuori attraversando altri gruppi di soldati....
- Piglialo! – grida uno ch’era stato malconcio dal monello.
- Tiragli! – grida un altro.
Parte un colpo; Pispisedda ode il sibilo della palla, ma è già nella via Vetriera in fondo, e s’imbuca in una casetta...



Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico ambientato a Palermo durante la rivoluzione siciliana del 1860. Al centro un gruppo di ragazzini, attraverso i quali il lettore conoscerà i veri protagonisti di quel periodo storico e ne rivivrà i difficili giorni. 
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Copertina di Niccolò Pizzorno 
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G.E. Nuccio: Inizia il combattimento all'alba del 04 aprile 1860 - Tratto da Picciotti e Garibaldini

Pispisedda s’addossò al muro per sentire il contatto d’un corpo qualsiasi, chè gli sembrava d’esser sospeso sull’orlo d’un abisso. Il rimestìo e il vocìo si fecero più vivi. Ognuno afferrava il suo fucile e lo preparava, che già era l’ora.
E nuovamente Pispisedda udì la voce di don Ciccio Riso: – Nicola di Lorenzo e Domenico Cucinotta con una cesta di bombe vadano sul campanile. Gaspare e Giuseppe Mortillaro, Giuseppe Cordone e Francesco Virzì vengano con me alla porta. Gli altri s’appostino lungo i corridoi, corrano alle finestre, sul tetto, dove può occorrere!
Un moto incomposto seguì le parole di Francesco Riso.
Pispisedda scorgeva gli uomini che uscivano a uno a uno, curvi, col fucile nella destra. Quando uscì l’ultimo, Pispisedda rifece rapidamente la strada che aveva fatta e giunse, con quelli che salivano verso il campanile, all’uscio di fra Salvatore, il portinaio. La luce smorta del giorno nascente tentava debolmente le imposte.
Pispisedda si tenne indietro; quelli bussarono.
- Chi è? – domanda una voce tremula di dentro. Ma i due non rispondono. La porticina s’apre e quelli irrompono dentro.
- Presto; conduceteci al campanile!
Fra Salvatore arretrò a vedere i due armati, poi prese la lanterna e si mise in cammino, avanti. Pispisedda li seguiva alla lontana. Ora salivano la scala. La luce della lanterna, portata con mano tremante dal monaco, balzando e squarciando l’oscurità, mostrava quando la volta, quando le pareti, quando gli scalini e proiettava addietro le tre ombre fuggenti, che lambivano Pispisedda. Il silenzio non era rotto che dallo zoccolìo dei tre. A un tratto Pispisedda, ch’era ancora in fondo alla scala, udì la voce di don Ciccio Riso che veniva dal di fuori:
- Viva l’Italia!
E un’altra voce gridare:
- Viva lu Re! 
E tosto due colpi di fucile echeggiarono alti, seguìti da un rotolar incessante di altri colpi. Allora i due urlarono a fra Salvatore: – Avanti! – e spingendolo salirono rapidi.
Pispisedda ebbe un momento d’esitazione: quindi tornò risolutamente indietro per accorrere alla porta dove, già, combatteva don Ciccio Riso. Continuavano gli urli fra lo schioppettìo di cui già tremavano i muri del convento. E Pispisedda giù a precipizio. Ma ecco, incontro a lui uno, due, tre uomini: uno porta una bandiera tricolore, tutti e tre hanno i fucili, salgono gli scalini a balzi, eccoli vicinissimi. Pispisedda li scansa. Quello che porta la bandiera è don Ciccio Riso. Pispisedda ritorna a salire di corsa dietro a quelli, ansimando. In cima alla scala i monaci esterrefatti levano le braccia, fanno largo. Quelli passano avanti di corsa. Pispisedda dietro. Ma fra Giovannangelo lo agguanta esterrefatto.
- Dove vai ? Che succede ? Tu che sai? Parla! 
Ma Pispisedda vuol correre al campanile, e si divincola; e il monaco gli grida:
- Sta’ queto! Parla! Tu che sai? 
E altri monaci lo accerchiano per aver notizie.
Ma piove di lassù lo scampanare e le grida “Viva l’Italia! Viva l’Italia! All’armi! All’armi!” e colpi di fucili rintronano nell’alto e nel basso, e gli echi s’incrociano rotolando lungo le scale. E dalle scale del campanile qualcuno scende urlando: “Coraggio!” E i monaci s’intanano nelle celle, segnandosi e gemendo preghiere. E come uno grida, tutti gridano; e come uno tace, tutti tacciono.
Pispisedda vuol ridiscendere avendo scorto don Ciccio Riso che balza verso la porta col suo fucile; ma fra Giovannangelo avvinghia il ragazzo e se lo tira in una cella gridandogli sempre:
- Tu che sai, Pispisedda? Come è stato? Donde sono entrati?  
Ma Pispisedda s’è buttato dietro i vetri e guarda con occhi spalancati. Sul campanile sventola la bandiera tricolore che don Ciccio Riso avea in mano. Dunque è accorso a piantarla lassù e se n’è tornato a combattere. Ecco il crepitìo delle fucilate è più spesso, rotto da grida, da urli e da gemiti. L’attacco deve infuriare da via Vetriera, perchè di là salgono alti nugoli di fumo bianco.
E infuria anche sul campanile donde scende la voce della campana grande; e donde la bandiera sembra che squilli a gloria con i suoi tre colori fiammanti.
Pispisedda adunghia la cimasa della finestra nel guardare; sì, piccoli nugoli di calcinaccio si staccano dal campanile spesseggianti, e a tratti, delle braccia si sporgono e lanciano bombe…


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G.E. Nuccio: Alla vigilia del 04 aprile 1860. Tratto da: Picciotti e Garibaldini

Pispisedda camminava in punta di piedi, chè s’avvicinava al magazzino. Ora, allo stridìo s’univa un cicaleccio sommesso, e tosto il ragazzo travide due ombre sporgersi d’una parte. Allora emise un lievissimo sospiro. Gli pareva di tornare in vita. S’addossò alla parete e stette irrigidito rattenendo il respiro. A un tratto, udì una voce sommessa:
- Fermiamolo.
Uno dei due uomini aveva parlato. Nello stesso momento apparve, in fondo, nel buio, un occhio di luce con lunghe ciglia di foco.... E le due ombre parvero addossarsi alle pareti e confondersi nel buio. Pispisedda sentiva la tempesta urlar pazza nel suo cuore spaventato. L’occhio di luce avanzava con le sue lunghe ciglia, che pareva filettassero di fuoco il nero dell’ombra densa; e ora s’udiva anche lo zoccolìo del monaco che avanzava. Ma le due ombre.... Ecco che si gettano sul monaco e gli tappano la bocca e lo trascinano con loro!
Pispisedda attratto irresistibilmente, li segue come un sonnambulo. Dove vanno? Nella panetteria del convento? nel cortile? Ed eccoli infine sbucar nel magazzino di don Ciccio Riso. Il monaco arretra spaventato, scorgendo armi e armati; ma quelli lo caccian dentro, lasciando l’uscio aperto. E lo strider della sega si fa più alto: Pispisedda travede le armi appese al muro: fucili, lance, bombe, sacchi e berretti scozzesi col nastruccio tricolore. Ma ode un cicaleccio rapido: c’è molta gente attorno al monaco, che protesta, e Pispisedda si ritrae nell’ombra per sbirciare. Nessuno può scorgerlo, chè l’oscurità l’avviluppa tutto.
Attorno al monaco si stringono molti a scongiurarlo:
- Per carità; vossia non gridi. Lo terremo per poco con noi. Ci benedica piuttosto. – Ma il monaco guarda intorno con gli occhi sbarrati; senza poter nulla dire, nulla chiedere.
- Ci benedica piuttosto – e qualcuno gli taglia il cordone, lo bacia e se lo caccia in seno.
- Ci benedica, affinchè la morte ci trovi puri di colpe. 
Ma lo strider della sega si fa più rapido.... “Che fanno dunque?” si domanda Pispisedda; e s’accosta. Ah! ecco. È don Ciccio Riso, tutto intento ad allestire un piccolo cannone; e gli altri preparan le armi, si buttano le giacche a tracolla, si provano i berretti: Pispisedda ne scorge le ombre irrequiete, che, proiettate dalla lampada a olio e dalla lanterna del monaco, corrono al suolo intersecandosi.
Pispisedda sta come impietrito! Se entrasse, che gli direbbero, che gli direbbe don Ciccio Riso? “Ah! bell’uomo che sei! Sei venuto a spiarci!”. E, quasi senz’avvedersene, anzichè procedere, si ritrae e s’addentra ancor più nell’ombra e s’accuccia e s’agguanta i ginocchi e appunta il mento sul petto. È tutt’occhi, tutt’orecchi!
Quanto sta a quel modo? Dal magazzino viene un ronzìo e un rimestìo pacati. Due o tre volte picchiano alla porta del magazzino. I rumori tacciono ad un tratto; una voce sommessa chiede: “Chi è?” e una voce più sommessa risponde: “San Giorgio!”. Così ogni volta.
“Perchè?” si chiede Pispisedda. “Chi è San Giorgio?”. Poi pensa: “Sarà la parola d’ordine”.
Ma trasalisce. Ode una voce ferma che grida: Avanti! È la voce di don Ciccio. Pispisedda la riconosce. Ed ecco che la porta si apre: qualcuno esce; la porta si chiude. E tosto il ronzìo, il vocìo si spengono; pare a Pispisedda d’udire un ansimar multiplo di gente che attenda ansiosamente. E anch’egli sente che il cuore gli batte a sobbalzi. Che avviene? Trascorrono pochi minuti. Una eternità!... Ma ecco che s’ode uno scalpiccìo. Pispisedda scorge che tutti s’assiepano attorno a qualcuno che è entrato.
- Non c’è un’anima alla Fieravecchia – dice il nuovo arrivato.
- Tradimento! – esclama uno, scattando. Le figure sembrano irrigidirsi a quel grido che par echeggiato sommessamente e a lungo. Pispisedda sente corrersi nelle reni un brivido diaccio: e gli sembra d’udir il palpito di un cuore immenso che tutti assommi i cuori dei congiurati.
Ma ecco la voce calma di don Ciccio Riso:
- Coraggio, don Filippo Mortillaro. Noi siamo qua: e quello che dicemmo faremo. Se mi vedrete tremare, ammazzatemi. Così i traditori. Avanti! Dieci ore, sono!


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico ambientato a Palermo durante la rivoluzione siciliana del 1860. Al centro un gruppo di ragazzini, attraverso i quali il lettore conoscerà i veri protagonisti di quel periodo storico e ne rivivrà i difficili giorni. 
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martedì 2 aprile 2019

Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana non iniziò il 04 aprile... Tratto da: Rivendicazioni.

La rivoluzione siciliana del 1860 non incominciò il 4 aprile; cominciò lo stesso giorno in cui il principe di Satriano entrò in Palermo a ristabilirvi l’autorità regia; perchè quando i cannoni salutarono il bianco vessillo dai fiordalisi, che s’innalzava là, dove per sedici mesi era sventolato il tricolore, l’anima siciliana vinta, non doma, riprese il suo posto di combattimento nel mistero delle cospirazioni. E per dieci anni, vestale della libertà, alimentò nel segreto e tenne viva la lampada sacra della patria; alla quale, ostie volontarie, Nicolò Garzilli immolò la dolce e pensosa giovinezza; la austera nobiltà, Francesco Bentivegna; la pugnace baldanza, Salvatore Spinuzza: nomi degni di perpetua ricordanza, quanto ogni altro, cui anche le storie per le scuole non mancano di rendere onore.
Nessuna regione d’Italia stese in quei giorni una rete di cospirazioni così vasta, e pur così salda e così infaticabile, che da Palermo si stendeva a Messina, a Catania, a Trapani, ai minori centri dell’Isola, e, oltrepassando il mare, stendeva ancora i suoi fili a Malta, a Genova, a Torino, a Firenze, a Marsiglia, a Parigi, a Londra. Noi avemmo una emigrazione di grandi nomi e di gran cuori, sparsa da per tutto; la quale, stretta intorno a Mazzini o a Cavour, i due astri maggiori, poteva essere divisa da ideali di forme; ma era unita, oltre che dalla comune origine e dalla comune sorte, nell’ideale più urgente e più alto della liberazione dell’isola e della sua fusione con la patria italiana.
Qualunque tentativo o moto ideato o attuato in Sicilia ebbe la sua preparazione contemporaneamente e concordemente nei comitati dell’isola, e in specie di Palermo, e in quelli dagli esuli costituiti dovunque si trovavano due siciliani.
È null’altro che una vanità attribuire a questo o a quello il vanto o la priorità di una iniziativa. Una era la mente, uno il cuore, uno il braccio; e questa unità era formata di tutte le menti, di tutti i cuori, di tutte le braccia della nostra gente, dovunque sparsa, vigile sempre nella speranza, incrollabile nella fede, indomita nell’insuccesso.
Per dieci anni la nostra rivoluzione fu un insuccesso materiale, e una lenta conquista morale: anche il moto del 4 aprile si presenta come un insuccesso; ma fu invece il cominciamento della vittoria: la sua preparazione era tale, che una prima sconfitta non avrebbe più potuto arrestare o allentare la marcia trionfale della rivoluzione. Essa ebbe un potente ausiliare nella polizia; che in nessun luogo e, forse, in nessun tempo fu così cieca, feroce e inumana contro il reato politico, come fra noi. Essa alimentò, coltivò, crebbe l’odio seminato da Ferdinando II, e lo accumulò sul capo di Francesco II; un re mite e umano, destinato, come Luigi XVI, a pagare i delitti compiuti dai suoi avi. La polizia si impersonò in un uomo: Maniscalco; che più realista del re, era un fanatico dell’assolutismo. Ma i suoi subalterni lo sorpassarono: Pontillo, Desimone, Carrega, Baiona, Sorrentino, Malato rappresentano ciò che si può immaginare di più bestiale; e la birraglia che li accompagnava aveva la voluttà del misfare. Non si può leggere, senza impallidire di orrore, il racconto della gesta che l’ispettore Baiona e tre gendarmi, i cui nomi erano tre rivelazioni: Tridente, Tempesta e Scannapicco, compievano nel Cefalutano per appurare il nascondiglio dello Spinuzza.
Il Baiona aveva inventato strumenti di tortura, che fatti conoscere all’Europa da Giovanni Raffaele levarono un grido di indegnazione. La paura, il sospetto, divenuti metodo di governo, empivano le carceri di presunti rei di cospirazione, che erano sottoposti a sevizie inaudite, delle quali molti serbarono le stimmate per tutta la vita. Quelle inflitte a Salvatore La Licata, arrestato pel tentativo del Campo, costrinsero lo stesso procuratore generale Pasciuta a intervenire, sebbene senza frutto; e l’arresto medesimo del La Licata è un esempio dei metodi scellerati della polizia. Egli celavasi sotto una botola in casa di un guardiano della contessa San Marco, il quale aveva moglie giovane e bella. Vi piombò un esercito di birri, che, secondo il costume, legati il guardiano e la moglie, tentarono a furia di nerbate strappare dalla loro bocca la rivelazione del nascondiglio. Non riuscirono; e allora tratta la donna all’aperto, dopo averla fieramente percossa cominciarono a spogliarla delle vesti. Ella taceva; ma quando quei manigoldi tra osceni sghignazzamenti, furono per strapparle la camicia, che sola le rimaneva, ed esporla nuda agli occhi di tutti, il sentimento del pudore potè più delle percosse: ella cedette e rivelò. Così agiva la polizia….



Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. Raccolta di scritti storici e storiografici che riproducono esattamente le edizioni originali. Il volume comprende: La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910) Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI) I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento Italiano - 1931) Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927) 
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Luigi Natoli: Il 4 aprile 1860. Tratto da Rivendicazioni.

Maniscalco reggeva in quei giorni il governo, per l’assenza del luogotenente generale Castelcicala: finse non saper nulla, ma convocò un consiglio di generali. Nella notte dal 3 al 4 fece circondare il convento della Gancia e le strade adiacenti. Riso aveva in tutto ottantadue uomini divisi in tre squadre: una di cinquantadue capitanata da Salvatore La Placa, uomo di grande audacia, s’era radunata in un magazzino alla Magione; la seconda di dieci, in una casetta nella via della Zecca; la terza di venti uomini con lui nel magazzino della Gancia. Altre squadre dovevano adunarsi qua e là; una nel vicino palazzo S. Cataldo, presso Carlo e Carmelo Trasselli; altra alla Fieravecchia coi fratelli Lomonaco. Si doveva cominciare con l’impadronirsi del Commissariato e del corpo di guardia di Porta di Termini, per aprire libero il passo alle squadre di Misilmeri e Bagheria concentrate alla Guadagna e al ponte delle Teste. All’alba Riso fu avvertito che erano circondati dalle truppe: non si sgomentò, disse che non era tempo di ritrarsi: egli avrebbe dato l’esempio: se lo vedevano tremare, l’uccidessero. E per vedere come stessero le cose, uscì dal suo magazzino. S’imbattè in una pattuglia di compagni d’armi e soldati: “Chi viva”? – “Viva il re”! – dicono. – “Viva l’Italia!” – risponde. Si fa fuoco: un birro, certo Cipollone, cade. Così comincia la mischia. Riso e quel pugno d’uomini sostengono l’assalto delle truppe regie: Domenico Cucinotta e Nicola Di Lorenzo salgono sul campanile e suonano a stormo. Accorre Salvatore La Placa con la sua squadra; cade ferito gravemente: mani pietose lo raccolgono, lo celano, lo curano. Questo eroico giovane, sottratto così alla morte, il 27 maggio riprenderà il suo posto di combattimento, e sarà ferito ancora una volta.
Cadono Michele Boscarello, Damiano Fasitta, Matteo Ciotta, Francesco Migliore, Giuseppe Cordone, un Randazzo: Riso dopo esser corso al campanile a piantarvi il tricolore, scende, si batte, cade ferito da quattro colpi all’addome e al ginocchio; un birro, che qualcuno dice l’Ispettore Ferro, gli è sopra, gli ruba l’orologio, e gli dà una bajonettata all’inguine.
Qualche ora dopo il combattimento era finito. Per vincere questo pugno d’uomini, c’eran voluti un battaglione di linea, un plotone di cacciatori a cavallo, una sezione d’artiglieria, compagni d’armi, gendarmi e birri; c’era voluto un generale, il Sury; s’era dovuto atterrare una porta con gli obici, e un obice il tenente Bianchini aveva dovuto portare fin sopra al convento!
Le soldatesche si abbandonarono all’orgia del saccheggio e della strage: finirono a bajonettate uno dei caduti, ancor vivo; uccisero un frate, Giovannangelo da Montemaggiore, altri ne ferirono; il resto percossero, sputarono, legarono, trascinarono al comando di Piazza e alla Prefettura di polizia, insieme coi ribelli presi.
La città sgomenta non seguì il moto. Il comitato si sbandò. Qualcuno che doveva capitanare una squadra si ecclissò: comparve dopo il 27 maggio, nelle sale del Municipio, vestito di velluto all’Ernani, e n’ebbe ricompensa: gli altri, disanimati dal vedere scoperta la trama, creduta l’insurrezione domata in sul nascere, giudicaron vano ogni altro tentativo.
Ma nei dintorni della città seguirono fieri scontri, in quello e nei giorni successivi, fra le squadre e le colonne mobili, spedite dal generale Salzano, comandante in capo. Ai Porrazzi i regi attaccarono la squadra condotta dal Badalamenti e da G. B. Marinuzzi, e per snidarla dovettero usare l’artiglieria; ivi morì, dei nostri, Andrea Amorello, da nessuno ricordato: al ponte delle Teste, a S. Maria di Gesù, alla Guadagna avvenivano altri scontri: e qui facevan prigione Giuseppe Teresi, giovane appena ventiquattrenne, serbato al martirio. A Monreale il maggiore Bosco, coi cacciatori, dovette durar fatica per sostenere l’impeto delle squadre di Piana condotte dal Piediscalzi, di quelle di Partinico, condotte dai fratelli Damiano e Tommaso Gianì, e di quelle di Alcamo, già insorta, condotte dai fratelli Triolo di S. Anna.
Questi combattimenti durarono più giorni, e in uno di essi, il giorno dodici, cadde a Lenzitti prigioniero Liborio Vallone di Alcamo, morirono Giuseppe Fazio da Alcamo e Giuseppe Ricupati da Partinico: lo stesso Bosco scampò per miracolo alle fucilate dei fratelli Trifirò di Monreale.
A Bagheria le squadre respinsero due compagnie di linea, e costrettele a rinserrarsi nel casino Inguaggiato, ve le assediarono. A liberarle fu spedito il generale Sury con quattro compagnie, cannoni e compagni d’arme: avvenne uno scontro; le squadre furono disperse, ma i regi vi lasciaron dieci dei loro. Qui rifulse l’eroismo di Andrea Coffaro, vecchio di sessanta anni, e del suo giovane figlio Giuseppe, che barricatisi in una casa, da soli vi sostennero il fuoco dei regi; fin che Giuseppe, sdegnando combattere dietro i ripari, uscì all’aperto, e colto da una palla in fronte, rese la forte anima: onde Andrea, desolato, gittò l’arme, e fu preso e condotto in Palermo riserbato al martirio. Nessuna storia raccolse l’eroico gesto, le cronache di fonte borbonica sì: noi gli dedichiamo il verde fiore del ricordo....
Nelle foto: Il campanile della Gancia (foto di Giusi Lombardo) e l'ispettore Maniscalco. 


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Luigi Natoli: Aprile 1860. I centri rivoluzionari intorno a Palermo. Tratto da Rivendicazioni.

Già tutto intorno a Palermo erano dei piccoli centri rivoluzionari; piccole officine, non meno attive e laboriose e fatte più ardite e più libere dalla minore vigilanza della polizia. Alle porte di Palermo, erano Bagheria, Misilmeri e Carini; sotto Carini, Torretta, nido dal quale i De Benedetto, stirpe di prodi a nessuna seconda, stavan pronti a spiccare il volo. Più lontano, Piana, Ciminna e Mezzojuso e Partinico; dalla parte del mare, Termini, la feconda di ingegni e di patriotti, a cui lo spirito democratico discese forse dagli antichi liberi progenitori sicelioti, centro alla sua volta di cospirazioni nel suo distretto; e alle estremità Messina e Trapani; e in altre direzioni Catania e Girgenti. Dovunque era una fiamma.
Questi piccoli centri intorno a Palermo, avevano già le loro squadre e designato i capi. A Bagheria, Luigi Bavin-Pugliesi, spirito temprato a tutte le audacie; a Misilmeri, attivissimi Antonino Ferro, i fratelli Filippo e Francesco Savagnone, Giacinto Trentacoste, e altri; a Ciminna e Ventimiglia, Luigi La Porta, dieci volte scampato alla morte, e pronto sempre a cercarla; a Piana, Pietro Piediscalzi, cuore vibrante di tutti gli entusiasmi, devoto fino all’olocausto; a Carini, anime che non conoscevan riposo, Pietro Tondù, il padre Misseri, il padre Calderone, gli Ajello. Ai Colli, Carmelo Ischia e Francesco Ferrante; a Mezzo Monreale, Giuseppe Badalamenti. Essi non aspettavano che il segnale.
La sera del 31 marzo, in casa Albanese, convenivano Giambattista Marinuzzi, Casimiro Pisani, Giuseppe Bruno-Giordano, Andrea Rammacca, Antonino Lomonaco-Ciaccio, Antonino Urso, Ignazio Federico, Francesco Perrone-Paladini, Silvestro Federico; e deliberarono d’insorgere tra il 6 e il 7 di aprile. La deliberazione da Casimiro Pisani venne comunicata a Messina, perchè si tenesse apparecchiata, e insorgesse a un dispaccio che annunciava “il matrimonio della figlia”. I comitati dei dintorni vennero avvertiti: ma ecco, la sera del 2 la polizia arresta Mariano Indelicato uno dei cospiratori; Casimiro Pisani, avvertito per confidenza di un amico del suo imminente arresto, si mette in salvo col padre, dopo avere deposto ogni incarico nelle mani dei fratelli Lo Monaco. Parve non doversi aspettare oltre, e fu decisa l’insurrezione pel 4 aprile, mercoledì santo. Chi ruppe l’indugio fu Francesco Riso.
Era stato dapprima destinato a capitanare le squadre di Misilmeri; ma quando si cercò chi dovesse dare il segno della rivolta in Palermo e affrontare il fuoco pel primo, volle per sè questo onore. A Misilmeri doveva andare Domenico Corteggiani, ma fu sostituito da Antonino Ferro, attivo e ostinato cospiratore in quel decennio. Francesco Riso aveva accumulato intanto le armi in un magazzino da lui tolto a pigione accanto al convento della Gancia, donde con gli uomini della sua squadra doveva dare il segno.
Una leggenda narrò che i frati fossero consapevoli e partecipi della cospirazione; un’altra che un frate avesse denunciato a Maniscalco gli apparecchi, il luogo il giorno della insurrezione. E non è vero. I frati non seppero nulla fino all’alba del 4 aprile; e la denuncia fu fatta dallo agente segreto Basile, al quale certi Muratori e Urbano, la mattina del 3, ignorando che fosse una spia, confidavano ogni cosa. Probabilmente la leggenda nacque dal vedere, la mattina del 4, un frate col famoso berretto imposto da Maniscalco alle spie. Si chiamava fra Michele da Prizzi, ma non era della Gancia…
Nella foto: Francesco Riso


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