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mercoledì 3 aprile 2019

G.E. Nuccio: Francesco Riso cade ferito - Tratto da: Picciotti e Garibaldini

Ah! ecco Francesco Riso sui tegoli. Che fa? Dio! si getta bocconi, abbranca il fucile, prende la mira verso la via che brulica di soldati e di compagni d’arme e spara. Ad ogni colpo un nembo di fumo bianco lo avvolge, e quando il fumo s’è disperso, Pispisedda lo rivede calmo a caricar l’arma e a riprender la mira e a sparare.
E intorno a lui, laggiù nella strada, infuria la mischia disperata. Pispisedda se n’accorge perchè da ogni parte crepitano le fucilate, squillano le trombe, rullano i tamburi; nella via Vetriera, nella via Alloro, in piazza Marina. E le palle battono come grandine sul campanile, sul tetto, su tutto il monastero, bucando muri, spezzando tegoli, imposte, vetri; sì che attorno a don Ciccio Riso e ai compagni (che ricaricano le armi, prendono la mira e sparano gridando “Viva l’Italia!”) tutto è un crepitìo e un fracasso d’inferno.
- Pispisedda! – chiama fra Giovannangelo dall’angolo della sua cella dove s’è buttato a pregare. Pispisedda si volta di scatto e scorge gli occhi spaventati del povero monaco, che urlano una interrogazione disperata. Ma che deve rispondere? Fra poco sarà finita. I soldati del Re infame si cacceranno nel convento come i lupi affamati.
- Dio! – grida Pispisedda che s’è rimesso a guardar don Ciccio Riso.
- Che c’è? – chiede balzando fra Giovannangelo. Pispisedda, pallidissimo, strette le labbra, i pugni, in un’angoscia spasmodica addita sui tegoli....
E anche il monaco scorge: don Ciccio Riso s’è levato a mezzo ginocchioni, è caduto, si rileva, puntando la destra tuttavia armata....
Nè Pispisedda, nè fra Giovannangelo parlano: tutta l’anima hanno negli sguardi fissi su Francesco Riso.
Ricade, ma è un attimo: si rileva e viene carponi dove più fitto è il crepitìo delle palle e rientra per la finestrucola. Pispisedda balza verso l’uscio serrato; ma un terribile fragore, che squassa il monastero e fa ruinar i vetri tutti, lo caccia addietro.
- È finita! – dice il monaco. – Sfondano la porta a cannonate! – e si butta nell’angolo di fronte al Cristo a pregare.
Pispisedda riprende animo; esce e corre all’impazzata. Per tutto incontra monaci che scappano di qua e di là con le mani levate, invocando. I vetri delle finestre ruinano frantumati dai colpi secchi. Gruppi di armati, neri nei visi e nelle mani, vanno, stretti, curvi, ghermendo il fucile con la destra, scrutando dinanzi, appostandosi alle uscite. Pispisedda capisce che da un momento all’altro, entrando i soldati, la battaglia infurierà su per le scale, lungo i corridoi. E i monaci corrono come impazziti. Alcuni si buttano dalle finestre che dànno sul giardinetto: un gruppo di sette si asserraglia dentro una cella. E Pispisedda corre avanti e sbuca dov’è la scala a chiocciola che mena al campanile; ma s’arresta: don Francesco Riso scende, pallido. Il ragazzo torna indietro e s’addossa al corridoio per far largo. E don Ciccio Riso avanza e ad ogni passo sembra che riprenda animo e fissi dinnanzi a sè il corridoio, come volendo giungervi presto.
- Alla porta, alla porta! – grida sommessamente. – Coraggio! Se dura un altro poco, la città ci aiuterà e vinceremo! 
Ma ecco la terribile voce del cannone, e il tremito di tutto il convento, e il ruinar di vetri, e il grido immenso d’un esercito: “Viva lu Re!”.
- Viva l’Italia! – grida don Ciccio Riso, trovando nuova forza per correre.
Pispisedda inebetito, smorto, piantato alla parete, si rizza in piedi, allunga il collo per scorger don Ciccio Riso che scompare laggiù come ingoiato dal buio. Che potrà mai fare lui con pochi altri uomini contro un esercito infinito, contro il cannone che scuote il convento dalle fondamenta?
E Pispisedda scende a precipizio. Perché? Dove va? Non sa nulla, non ha deciso nulla. Non può star più fermo, altrimenti gli scoppia il cuore. Ecco, gli par di scorgere don Ciccio Riso fatto gigante e combatter da solo con un esercito infinito e uccider soldati a montagne....
E Pispisedda corre ancora, impazzato, alla ventura, senza mèta. Eccolo già al piano terreno; attraversa il corridoio; travede il cortile, la porta mezzo sfondata; e, presso la porta, Francesco Riso attorno ad alcuni morti. Pispisedda avanza istintivamente: Francesco Riso carica a stento il fucile; sta per prender la mira; s’ode uno scroscio! una scarica lo coglie, trempella, arranca con le braccia e si piega su se stesso.
Un urlo altissimo segue la sua caduta e fa arretrare Pispisedda. Ecco, ecco i soldati che dànno addosso alla porta, Pispisedda arretra sempre più.... e la porta sobbalza sotto i colpi, si squarcia e l’orda dei soldati irrompe urlando, nel cortile.
Pispisedda balza come un capriolo, rifà il corridoio, s’imbuca per la porticina segreta, e via per Terrasanta, a lanci come un gatto. Presso la panetteria tumultua un nugolo di soldati, ferendo e bastonando i monaci urlanti e gementi; ma Pispisedda non s’arresta, urta, spinge, balza su uno, due soldati, avventando pugni e morsi, infine taglia il gruppo, e, rapidissimamente, come una saetta, balza fuori attraversando altri gruppi di soldati....
- Piglialo! – grida uno ch’era stato malconcio dal monello.
- Tiragli! – grida un altro.
Parte un colpo; Pispisedda ode il sibilo della palla, ma è già nella via Vetriera in fondo, e s’imbuca in una casetta...



Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico ambientato a Palermo durante la rivoluzione siciliana del 1860. Al centro un gruppo di ragazzini, attraverso i quali il lettore conoscerà i veri protagonisti di quel periodo storico e ne rivivrà i difficili giorni. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad con le illustrazioni dell'epoca di Diego della Valle
Pagine 511 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno 
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