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giovedì 28 giugno 2018

Giuseppe Ernesto Nuccio: I picciotti presentati da Pispisedda. Tratto da: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico sulla rivoluzione del 1859-60

Se lo tirò appresso fino a piazza Magione, dov’era il mercato delle frutta, che cominciava già a popolarsi.
A mano a mano che i picciotti giungevano, Pispisedda li additava a Fedele:
- Ecco Sautampizzu, famoso saltatore; sorpassa un muro alto, con un lancio; balza sui muri dei giardini, alleggerisce gli alberi; arrampicandosi pei tubi dell’acqua e per le cimase tasta se tra le zucche appese sui muri accosto alle finestre, non ce ne sia qualcuna che vada a male e convenga levarla dalla compagnia delle altre.
Ecco Cacciatore, tiratore abilissimo; con una sassata coglie un uccello a volo, e dà il tocco alla campana canterina del campanile di Sant’Anna; se vai a Porta Nuova, in bocca ad uno dei giganti di pietra ci trovi un sassolino che sembra un mozzicone di sigaretta; ce l’ha buttato lui .... per far fumare il gigante.
Ecco Ferraù: più forte del principe saraceno, torce una barra di ferro con le mani; con un pugno stordisce un cavallo; dieci di noi, se vogliamo tenerlo fermo, ci manda a gambe in aria.
Ecco Centolingue; sa fare il grido di tutti gli animali: del cane, del gatto, della pecora, del bue, del ciuco, del maiale, del pipistrello, del gufo.
Ecco don Gaetanino: sa contare tutta la storia dei Reali di Francia, dei Paladini, di Bovo d’Antona, quello mezzo uomo e mezzo cavallo.... ed è coraggioso come.... Gano di Magonza.
E la presentazione continuò un bel pezzo, mentre i picciotti, facendo spallucce, sbirciavano dall’alto in basso Fedele, che, per essere un pecoraro, stimavano di una razza inferiore alla loro. I monelli, per quanto scalzi si fossero e col vestito a brandelli erano cittadini di Palermo, la capitale, dove ci soleva stare il Re in persona. Da più anni il Re “in persona” non ci stava in Palermo e ciò era anche cagione dell’odio che sentivano i Palermitani per Casa Borbone.
Intanto, nella piazza del Mercato, la folla si veniva affittendo, il gridìo si faceva più alto, sì che Fedele, abituato ai silenzi dei monti, disse a Pispisedda:
- Me ne voglio andare: insegnami la via, ora che mi hai condotto fin qui.
E s’incamminarono.
- Questa è la Fieravecchia dove undici anni fa cominciarono a cacciare i soldati, dove nove anni fa presero Garzilli – veniva dicendo Pispisedda. – Questo è il teatro di Santa Cecilia; e questa è la chiesa di Sant’Anna, questo è il teatro Carolino, questi sono i Quattro Cantoni, ed eccoti a piazza Bologni. Quella è la statua del re Carlo V che dice: “Se il sangue non sarà alto un metro nelle strade di Palermo i birri del Borbone non se ne andranno”. Guarda, quanti ce ne sono di birri davanti al Commissariato; quello vicino la statua è la sentinella che ci sta notte e giorno. Ed ora ti saluto; mi dovresti dare la mancia come la dànno gl’Inglesi con le basette e gli occhiali verdi e il libro sempre nelle mani; ma noi siamo amici e non la voglio. Piuttosto, dimmi quando ci rivedremo? 
Fedele sorrideva malinconicamente; egli amava di già quel monello piccinino come una statuina di terracotta abbronzata; quel monello, con la bella grossa testa ricciuta, dove gli occhioni verdognoli si aprivano come grandi finestre sul mare agitato, che gli aveva fatto tanto bene, così, spensieratamente; e gli pareva di conoscerlo da molto tempo e lo appaiava di già alle altre persone che gli erano care: la madre, la signora Bianca, Rocco e Giulia e il padre suo, morto, ma tanto dolce nella memoria.
- Ci rivedremo presto o qui in città o lassù a Baida. Vieni a trovarmi e staremo insieme come fratelli; lassù l’aria buona ti farà crescere come un pioppo e sarai libero.
- Sì, ma più tardi, se scendi, mi trovi ai Quattro Cantoni o nei quartieri della Kalsa, vicino la chiesa della Gancia. Quando mi dice la testa, faccio il muratore; lavoro da don Ciccio Riso in via Vetriera. Tu puoi venirmi a trovare anche colà.
- Ti saluto.
- Servo suo – fece il monello sberrettandosi e stemperando in una sghignazzata un sorriso affettuoso.


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico sulla rivoluzione del 1859-60
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919, con le illustrazioni originali di Alberto della Valle. 
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Pagine 511 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
 

Giuseppe Ernesto Nuccio: Pispisedda e i lupi a Palermo. Tratto da: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico sulla rivoluzione del 1859-60

Dopo che ebbero raccontato più d’una volta e in tutti i particolari le vicende della lotta e dell’inseguimento agli avventori, che li regalarono generosamente, Fedele e Pispisedda – il monello – attraversando piazza Magione, scivolarono nei quartieri della Kalsa e andarono ad accucciarsi dietro la porta della chiesa di Santa Teresa.
La chiesa alta spandeva la sua larga ombra protettrice sui due ragazzi, sulla via, sulle case di contro e pareva allungarsi per distendersi, laggiù, in fondo, sul mare e sul cielo. I due ragazzi tacevano e non s’udiva che la voce del mare, cupa come un ululìo sommesso di cento lupi, che s’avanzassero in massa.
- Ascolta, ascolta i lupi – disse Pispisedda.
Fedele sorrise:
- In Palermo non ci sono lupi.
- Sì, ci sono.
- Tu vuoi burlarti di me.
- Non scherzo! Quello che ti assalì, e quelli che sbucarono a torme dalla via Alloro e ci inseguivano ululando, erano lupi! Hanno fucili e sciabole invece di zampe e zanne e sono feroci come quelli dei tuoi monti; assaliscono e scannano le pecore e le pecore siamo noi, perchè pochi e senza armi. Tu non lo sai, ma lo sanno tutti i Palermitani. Una volta, undici anni fa, a gennaio, io ero nato allora allora, me lo raccontarono di poi, di lupi ne vennero da Napoli tanti, quanti tutti i lupi veri che ci sono su tutta la terra. Li mandò re Ferdinando, e si gettarono su Palermo; e uomini e donne e fanciulli ne scannarono assai assai, chè il sangue scese a fiumi per via Toledo. 
Fedele ascoltava intensamente. Sì, era vero! Quello che aveva detto il vecchio lassù al Castellaccio ora lo ripeteva Pispisedda. Anche in Palermo c’erano i lupi. Era vero!
- E il lupo capo sai chi è? È Maniscalco, quello che fece spezzare gli specchi e chiudere le porte del Casino.... Fu Maniscalco che disse ai birri-lupi: “Uscite dalle vostre caverne (che sono le caserme), correte per la città, date la caccia a tutte le pecore!”. 
Non s’udì altro che la voce alta del mare, alla quale, poco di poi, s’accompagnò il ronfare di Pispisedda. Fedele stette più a lungo sveglio, ma in un torpore simile al sonno, durante il quale si cozzavano nella sua mente pensieri strani e disparati finchè anche su lui cadde il sonno pesante…


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919 con le illustrazioni di Alberto della Valle e la copertina di Niccolò Pizzorno. 
Pagine 511 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Dalla prefazione di Rosario Atria.

Il romanzo Picciotti e Garibaldini  di Giuseppe Ernesto Nuccio fu pubblicato in volume nel 1919, con illustrazioni di Alberto Della Valle, per i tipi della casa editrice fiorentina R. Bemporad & Figlio, che aveva assorbito sul finire del secolo decimonono la Libreria Editrice Felice Paggi ed era particolarmente attiva sul fronte delle proposte per i più giovani: figuravano già, all’interno del suo catalogo, opere di grande fortuna e popolarità afferenti al filone della narrativa per ragazzi, come Le avventure di Pinocchio di Collodi e Il giornalino di Gian Burrasca di Vamba.
Una prima versione del lavoro di Nuccio, con titolo I Picciotti (“i ragazzi”, in dialetto siciliano) e illustrazioni di Filiberto Scarpelli, era apparsa tra il maggio 1910 e il luglio 1911 sul “Giornalino della Domenica”, prodotto editoriale di punta della Bemporad. Significativa era la scelta del titolo, perfettamente in linea con il pubblico di riferimento del noto settimanale illustrato, che si rifaceva ai modelli tardo-ottocenteschi del “Giornale per i Bambini” e del “Giornale dei Fanciulli”, ma guardava anche alla più recente esperienza della rivista transalpina “La Semaine de Suzette”, proponendosi di offrire al «giovine pubblico» borghese dell’Italia unita una lettura «educatrice senza esser noiosa».
Il “Giornalino” si offriva ai piccoli lettori in una veste grafica accattivante, giovandosi del contributo artistico di giovani illustratori di talento, e – aspetto tutt’altro che secondario – della collaborazione di alcuni tra i più importanti esponenti del mondo letterario italiano. Un progetto di grande fascino e respiro, che portò però l’editore nel 1908 ad un deficit d’impresa: Bemporad lasciò l’iniziativa nelle mani di Bertelli, il quale riuscì a differire di qualche anno il momento della chiusura della rivista, poi disposta nel 1911. Nell’immediato dopoguerra, il periodico riaprì i battenti, pubblicato dall’editore fiorentino Somigli, sempre sotto la direzione di Bertelli.
Ebbene, il romanzo di Giuseppe Ernesto Nuccio si inseriva in modo organico all’interno di un preciso programma di formazione del carattere nazionale, orientato verso un pubblico di giovanissimi lettori, figli della buona borghesia italiana e destinati a costituire la futura classe dirigente del Paese: progetto che, nella ricorrenza del cinquantenario dell’impresa garibaldina, intendeva anche veicolare tra i giovani della Penisola la conoscenza, per via narrativa, di snodi significativi del Risorgimento e dell’Unità d’Italia.
Va detto che, al tempo in cui scriveva Nuccio, il romanzo storico attraversava una stagione di flebile vitalità: erano ormai lontani per il genere i fasti di primo Ottocento, indissolubilmente legati alla spinta rivoluzionaria ed anzi – come ha sostenuto Vittorio Spinazzola – in età postunitaria s’era andato affermando il romanzo antistorico, particolare evoluzione del genere che si fondava sulla negazione della storia come progresso: basti pensare alle opere di ambientazione contemporanea o ultra-contemporanea di Verga, De Roberto, Pirandello, che registrano il fallimento delle speranze rivoluzionarie, denunciando l’incompiutezza del nostro Risorgimento.
Godeva invece, come già evidenziato, di ottima salute la letteratura per ragazzi, che faceva registrare un consenso crescente di pubblico, rappresentando uno degli indotti più importanti per l’industria editoriale.
Subito dopo il successo del Pinocchio di Collodi (opera che seppe guadagnarsi anche il favore della critica), fu la volta del libro Cuore di Edmondo De Amicis, ineludibile modello di riferimento per tutti quegli autori che – come Nuccio – intendessero contribuire a forgiare la futura classe dirigente dello stato unitario.
Chi scriveva per un pubblico giovanile doveva mostrarsi abile nel coniugare l’intento didascalico-paideutico con quello ludico. La sfida era quella di concepire delle storie che appagassero la legittima attesa di un piacevole svago da parte dei ragazzi, senza dispiacere ai più grandi, anzi – se possibile – attraendoli nella schiera dei fruitori. Per questa ragione, la narrativa per ragazzi si configurava, precipuamente, come narrativa sui ragazzi, portando in scena protagonisti e personaggi della stessa età dei lettori, così da permettere il processo di immedesimazione e favorire il loro coinvolgimento nel testo.
In quest’ottica è da inquadrare la presenza di una nutrita schiera di giovanissimi tra i personaggi dell’opera di Nuccio: da Fedele (il pecoraio di Boccadifalco, nel segno del quale s’apre il romanzo) a Rocco (che narra a Fedele, suo fratello di latte, le gesta di Crispi, Mazzini, Garibaldi, con un trasporto tale da accendere e far divampare anche in lui il fuoco rivoluzionario); da Turi a Pispisedda (il monello che aiuta don Ciccio Riso a preparare le armi per la rivoluzione e, pian piano, assurge a protagonista del racconto), ai picciotti tutti (Sautampizzu, Cacciatore, Ferraù, Centolingue, don Gaetanino): figli di Sicilia che si mischiano ai garibaldini, facendo fronte comune contro i Borboni e sacrificando, in tanti casi, la vita sull’altare di un sogno condiviso: la patria.


Rosario Atria 
Dott. di ricerca dell'Università di Palermo, italianista, autore di studi sulla poesia del Due-Trecento, sulla narrativa storico-popolare dell'Ottocento, sulla lirica leopardiana, sulla narrativa del secondo Novecento. Si interessa anche di storia e letteratura archeologica di Sicilia.

Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. 
Pagine 511 - Prezzo di copertina € 22,00
Con le illustrazioni di Alberto della Valle (1917) e copertina di Niccolò Pizzorno. 
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 




mercoledì 27 giugno 2018

Giuseppe Ernesto Nuccio: La vittoria di Solferino (Surfareddu) e l'intervento di Maniscalco - Tratto da: Picciotti e Garibaldini

“Che era? Una luminara?”. La gente adunata dinanzi la porta del Circolo si passava, con voce sommessa, la spiegazione del fatto straordinario: “La luminara è per la vittoria di Surfareddu”. Fedele credette che quella fosse una festa nuova; ma non si poteva spiegare perchè mai la luminara avesse accentuato negli animi quello stato di agitazione. Dopo un poco egli seguì un altro gruppo che saliva rapidamente; ma si fermò ai Quattro Cantoni e scòrse che anche a piazza Bologni il Circolo dei Nobili era illuminato. Veniva sempre nuova gente, che si rimandava con un ammiccar tra furbo e gioioso le notizie: “Surfareddu, la festa di Surfareddu. Anche alla Pagliarola  c’è la luminara. Anche al Circolo delle Dame e dei Cavalieri. Ecco, anche laggiù, verso Porta Felice un balcone illuminato”.
Molti scesero per la via Toledo, e Fedele li seguì, tratto, quasi incoscientemente, da quella febbre d’ansia, che ormai prendeva tutti.
Ma, giunta presso il Circolo dei Buoni amici, la gente si fermò muta e attese. Alcuni, paurosi, imboccarono le vie Cintorinai e Pannieri e sgusciarono come ombre. “Che sarà mai?” si chiese Fedele al quale non era sfuggito quel moto istantaneo di paura. Ma tosto udì ripetere sommessamente un nome: “Maniscalco!”. Fedele ebbe un brivido.
Maniscalco era (come aveva detto l’Addiminavinturi) il padrone di Palermo. Già la soglia del casino era tutta sgombra e quelli di dentro erano usciti per confondersi con la gente della via. A un tratto, Fedele vide che il gruppo rimasto presso il casino arretrò, avvicinandosi verso il crocivio, e una frase breve, concitata, passò da una bocca ad un’altra: “Iddu è, Maniscalcu!” .
S’udì nel silenzio il passo cadenzato dei soldati. Fedele, che stava nell’angolo di via Pannieri, si rizzò e vide disegnarsi l’alta figura di Maniscalco sul vano luminoso della porta centrale, tra un nugolo di soldati.
Vociava, agitando un suo frustino e guatava torvo intorno; ma, vedendo che nel Circolo s’era fatto il vuoto, gridava un ordine ai soldati; i quali, a colpi di baionetta, spezzavan gli specchi, abbattevan le candele e facevan serrar le porte del Circolo. Fedele era rimasto impietrito; gli pareva che da un momento all’altro Maniscalco dovesse dire ai soldati: “Sparate” e quelli, sparando, uccidessero tutti i cittadini, lui compreso. Ma trasse un largo sospiro, quando vide che Maniscalco, seguito dai soldati, risaliva per via Toledo. Dal piccolo gruppo di cittadini, che erano rimasti imperterriti, partì un sordo mugolìo nel quale Fedele sentì una minaccia oscura; difatti, avvicinandosi al gruppo che parlava concitato, udì queste frasi: “Ora va a far chiudere la Pagliarola. La vittoria dei Piemontesi e dei Francesi sugli Austriaci non gli garba. Ma deve striderci, la vittoria se la devono ingollare lui e il suo re Francesco. Se Vittorio Emanuele ci aiutasse, altri guai sarebbero per tutti e due”.
Fedele capì che la luminara, fatta per la vittoria di Solferino, non era garbata a Maniscalco; il quale davvero doveva essere il padrone di Palermo (come re Francesco era il padrone di Napoli) se faceva romper gli specchi e serrar le porte delle case che non eran sue.
A un tratto, s’udì un rumore sordo di passi cadenzati che venivano dal basso di via Toledo. Tosto il gruppo si sparpagliò dicendo: “Gli Svizzeri!”. Ma costoro, sopraggiunti a passo forzato, si scagliarono sui cittadini investendoli violentemente.
Fu un rapido urlare e spingere; un ripararsi e colpire incomposto. Fedele, più spinto dagli altri che dalla sua stessa volontà, si trovò all’angolo opposto della via, e, precisamente, presso lo sbocco di via Cintorinai; ma tosto uno svizzero balzò su lui e gli assestò una piattonata sulla spalla. Allora il ragazzo, rivoltandosi istintivamente, spinse addietro il soldato con sì fatta violenza da mandarlo a gambe levate, quindi, quasi sbalordito pel suo atto stesso rimase lì fermo a guardare il caduto, che s’arrovellava per rialzarsi avendo i piedi impigliati nella guaina. Ma alcuni popolani, che avevano assistito alla breve lotta, urlavano a Fedele: “Scappa, scappa!” e poi che il ragazzo, ancora stordito, non si moveva, un monello, d’un balzo, gli fu da presso e, afferratolo pel braccio, se lo trasse dietro, lungo la via Cintorinai, gridandogli: “Scappa, carduni” . Allora Fedele, rimessosi dallo stupore, si diede a correre dietro a quello che balzava come un leprotto...


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico sulla rivoluzione del 1859-60.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919 e impreziosito dalle illustrazioni di Alberto Della Valle (1917) e dalla copertina di Niccolò Pizzorno. 
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico sulla rivoluzione del 1859-60

Il romanzo Picciotti e Garibaldini di Giuseppe Ernesto Nuccio apparve in volume nel 1919, per i tipi della casa editrice fiorentina Bemporad & Figlio; a distanza di quasi un secolo, quella versione, riccamente illustrata da Alberto della Valle, torna a rivivere grazie a I Buoni Cugini editori. Inizialmente diffuso a puntate sul Giornalino della Domenica nella ricorrenza del cinquantenario della spedizione dei Mille, il lavoro di Nuccio intendeva veicolare la conoscenza, per via narrativa, di snodi significativi del nostro Risorgimento, magnificandone l'anima democratica e inserendosi all'interno di un preciso programma di formazione del carattere nazionale orientato verso un pubblico di giovanissimi lettori, figli della buona borghesia italiana, destinati a costituire la futura classe dirigente del Paese. 

Protagonisti del romanzo sono Pispisedda e altri picciotti di Sicilia, le cui vicende narrative si intrecciano con quelle di eroi e martiri come Francesco Riso, Rosolino Pilo, i fratelli Campo, i De Benedetto e numerosi altri che vollero l'Isola libera dal Borbone e Italiana. C'è poi la Palermo ottocentesca, con il suo tessuto urbano nitidamente restituito: per le sue strade, le piazze, i giardini si dipana un'azione romanzesca avvincente e ricca di pathos. Il popolo palermitano, che già nel Quarantotto s'era levato contro il tiranno, torna a combattere per conquistare la libertà e, sull'esempio delle camicie rosse guidate da Garibaldi, l'eroe che la leggenda popolare vuole discendente (e perfino fratello) di Santa Rosalia, abbraccia e fa propria la causa unitaria. 

Rosario Atria

(Dottore di ricerca dell'Università di Palermo)

Pagine 511 - Prezzo di copertina € 22,00

Impreziosito dalle illustrazioni dell'epoca di Alberto della Valle e dalla copertina di Niccolò Pizzorno. 

giovedì 7 giugno 2018

Luigi Natoli: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Rivedere la storia del nostro risorgimento sulla scorta dei documenti, degli epistolari, delle memorie e delle testimonianze dei sopravissuti; narrare le vicende fortunose attraverso le quali si unificò l’Italia, senza altra preoccupazione che di cercare la verità, senza inopportune adulazioni, e senza la retorica frasaiola che serve ordinariamente a celare o a falsare quella verità; divulgare la storia verace fra’ giovani, che di solito la imparano – se l’imparano – su compilazioni o igno­ranti o in malafede; e fra il popolo, che non l'impara punto, mi sembra lavoro utile, che occorrerebbe fare per ogni regione o provincia: chè oramai è tempo di finirla coi luoghi comuni e coi travestimenti.
Io voglio qui ricordare, e vorrei dir meglio narrare, come procedette nel 1860 l’annessione della Sicilia al Piemonte, perchè si vegga con quali artifizii e con quali menzogne fu creata sul continente una opinione pub­blica ostile al movimento rivoluzionario; e in Sicilia uno stato di animo, che senza il profondo sentimento patriottico di Garibaldi e dei repubblicani che lo circon­davano, avrebbe potuto generare conflitti fratricidi, a detrimento della causa nazionale.

Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 24,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Luigi Natoli: I figli della Libertà nella battaglia di Milazzo. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Sceso sulla strada, il Gene­rale ordinò al Missori di spingere all'assalto parte del battaglione Dunne, i giovanetti figli della Libertà, che fremevano, come puledri che urtano allo stabio, per cor­rere nei campi.
Al batter della carica, quei giovinetti si lanciarono contro la mitraglia. Il fuoco del nemico si concentrò sopra di loro, seminando la morte nelle loro file; ma nulla tratteneva quei lioncelli, l’ardimento dei quali parve mirabile allo stesso Garibaldi. Qualche mese in­nanzi, laceri, sporchi, oziosi, predestinati al carcere o all'ospedale, alunni del vizio, quei giovanetti, di cui i più vecchi non toccavano ancora diciotto anni, erra­vano per le vie e le piazze di Palermo; la rivoluzione li redimeva, li nobilitava, insegnava loro la grande virtù del sacrificio, ne faceva degli eroi. Superando siepi e canneti, arrampicandosi sui muri, lasciando parte di loro per la via, respinsero i vecchi e fieri cacciatori, si impadronirono del cannone.
Qui avvenne l'episodio della cavalleria, variamente raccontato dagli storici, nel quale ogni attore vide e magnificò il proprio gesto. Raccogliendo le varie redazioni, parmi poter qui ristabilire la verità, dando a ciascuno il suo.
Per incoraggiare i giovani volontari siciliani, Gari­baldi era disceso a piedi sulla strada, con Missori, che era ritornato al suo fianco. Non è vero che c'era anche Statella; Statella, ferito poco innanzi, era stato portato nelle ambulanze. I giovanetti e i cacciatori siculi si affrettavano a trainare il cannone, quando le file bor­boniche si aprirono, e diedero il passo allo squadrone della cavalleria, che si lanciò all'assalto per riprendere il pezzo. Nuovi, anzi inesperti alla scherma contro la cavalleria, i volontari presi da momentaneo sgomento, invece di opporre un forte gruppo, si aprirono in due, forse con l'intenzione di sbandarsi ai lati dello stradale: ma lo stradale era fiancheggiato da fitte siepi di fichi d'India, che impedirono la fuga; costretti da questo ostacolo, per difendersi si voltarono; la voce dei capi, li incoraggiò.
I cacciatori a cavallo, per l'angustia della strada non potevano galoppare a squadrone serrato, ma un dietro l'altro.
Giunsero tra le due file, e i primi non potendo per l'impeto del galoppo, frenare in tempo i cavalli, tra­scorsero oltre le linee; ma da una parte e da l’altra le scariche dei giovani volontari, atterrando cavalli e cava­lieri impedirono al resto d'avanzarsi. Circa venticinque cacciatori col capitano Giuliani e il luogotenente Faraone rimasti tagliati fuori, si affrettarono a tornare indietro. Il tenente Rammacca si para innanzi per affrontarli; il capitano Giuliani gli cala un fendente, che vien parato da un cacciatore siculo. Il sergente Santi Tumminello affronta il tenente Faraone, e con un colpo di baionetta alla gola lo rovescia da cavallo, gli toglie la spada, il revolver e il cavallo.
Il Giuliani, si lancia sopra Garabaldi, e alla intima­zione di arrendersi risponde con un fendente, Garibaldi para il colpo, e afferrato il cavallo per la briglia, dà un colpo di punta alla gola del Giuliani e l’uccide. Mis­sori fa fuoco col suo revolver sopra due altri cavalieri, e li atterra, sebbene i documenti borbonici affermino in modo assoluto, che i cacciatori a cavallo uccisi in quell'episodio furono tutti feriti di arma bianca.

La storia raccolse il gesto del Missori, per la noto­rietà del prode e audace comandante delle guide: non raccolse quello degl’ignoti giovanetti di Corrao e di Dunne, di quei “Picciotti” che aspettano ancora lo sto­rico il quale raccolga, illustri e glorifichi gli episodi di valore e d'eroismo da loro offerti in gran copia, e senza vanità. Eppure la lettera del Dumas al Carini non tace quel che essi fecero; ed essa è confermata dalle rela­zioni Corrao e Rammacca, scritte allora allora. Si vegga dunque quanto sia veritiera l’epigrafe dettata dal Pascoli.
Stupirono i figli della Libertà per lo slan­cio all'assalto e per la resistenza al fuoco. Quando due mesi dopo Garibaldi si apparecchiava per muovere sopra Capua, volle con sè due battaglioni dei nostri giovinetti, e li fece trarre dall'istituto eretto in Palermo nel giu­gno e diretto allora da Alberto Mario.
- A Milazzo – disse al Mario – ho veduto come si battono questi demoni....
E fino agli ultimi suoi anni il valoroso sir Dunne ricordava i “Picciotti” del suo battaglione; e venendo in Italia non tralasciava di domandare se ve ne fos­sero ancora vivi. Fino a pochi anni or sono ce n'erano ancora, e nell'ombra dell'oblio e della povertà si gloria­vano d'essere stati di quel battaglione; e uno dei super­stiti era un Raimondi, reso popolare da un giornaletto, che ignorava forse come pel valore spiegato a Milazzo, il piccolo Raimondi era stato promosso caporale sul campo.
Ma nessuno fuor del Dumas ha consacrato una parola agli eroici giovinetti di Dunne mietuti dalla mitraglia, nè ai cacciatori di Corrao, tre volte ostina­tamente andati all'assalto, e alle cui baionette si deve se Garibaldi non cadde sotto l’impeto della cavalleria borbonica.
Non un marmo dedicato alla virtù di questi oscuri eroi, che la nostra irriconoscenza, la nostra inferiorità civile, ha lasciato sepolti nell'ignoranza! E soltanto per questo, narrando della giornata di Milazzo, io mi son trattenuto a rievocare la parte presavi dai Siciliani, non lieve, nè secondaria. E non per gretto campanilismo, ma per sentimento di giustizia, tanto più doveroso, in quanto anche oggi, con tanto lume di documenti, si ripetono e si consacrano errori, e si perpetuano omissioni e silenzi imperdonabili.





Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 24,00
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sabato 2 giugno 2018

Luigi Natoli: storia del tricolore esposto a Roma dai Siciliani - Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


La bandiera poi “dai cittadini venne posta in mano della statua equestre in bronzo, rappresentante Marco Aurelio nella piazza del Campidoglio” ove sventolò il successivo giorno “fino alle 4 pomeridiane” quando “formalmente” e alla presenza del popolo numeroso venne “rimossa da quelli stessi che ve l’avevan situata”.
La bandiera fu allora presa in consegna da alcun cittadini, che vollero serbarla in memoria dell'avvenimento; e furono i signori Vittorio Merighi, veronese, che abitava in via dei Pontefici n. 50; Antonio Panuzzi, romano, abitante in via dell’Unità 78; Carlo Pastori, parmigiano, che stava in via della Pace n. 13; e Girolamo Sellino, romano, legale, che abitava ai Coronari 13. Non potendo certamente fare a pezzi la bandiera convennero di farla custodire nel Caffè delle Belle Arti, che era allora nel Corso, al n. 404. 
Ma pochi giorni dopo Luigi Orlando ne domandò la restituzione, proponendosi di inviare il prezioso e storico vessillo alla municipalità di Palermo già liberata dal giogo borbonico. E così quei sei cittadini da una parte e Luigi Orlando dall’altra convennero l’11 di marzo del 1848 nel Convento dei padri Teatini di Roma e precisamente nell’ “appartamento del padre Francesco Ventura”, con l’intervento del notaro Orazio Milanesi, romano, milite del 2° battaglione civico e notaio di collegio, “presenti l’Ill.mo e Rev.mo don Gioacchino Ventura figlio del signor D. Paolo barone di Raulica e Generale dei RR. PP. Teatini... e il molto reverendo padre don Gaetano Alberto nativo di Trapani” e fu redatto e pubblicato l’atto di consegna, firmato da tutti gli intervenuti. Del quale si rilasciava copia autentica all’Orlando, che prometteva formalmente di depositare presso il notaro Milanesi copia autentica della deliberazione del Municipio di Palermo “onde in ogni tempo consti la testimonianza della simpatia e dell’interesse che la Sicilia ha preso per il bene dell’Eterna Città, e l’onore che si faceva al loro vessillo dai Romani”. 
L’atto era debitamente registrato il 14 marzo 1848 nel vol. 239 Atti civili, al foglio 14 casella 1. “gratis”.
Luigi Orlando fedele alla promessa, venne in Palermo, consegnò la bandiera al Municipio. Il Senato, anzi l’ “Eccellentissimo Senato della Città di Palermo, Grande di Spagna di prima classe” – come è detto nella deliberazione – era composto dei signori Marchese di Spedaloto pretore Presidente, cav. don Alberto Vassallo Paleologo, barone don Girolamo Valdaura, D. Stefano Emanuele Fraccia barone di Favarotta, D. Giulio Benso duchino della Verdura, cav. Don Giuseppe Rao di Cancemi e di Capopassero senatori, e D. Eduardo Alliata duca di Salaparuta, ed assistito dall’archiviario don Domenico Naselli. 
Accettando con deliberazione del 15 maggio l’offerta della bandiera portata da Luigi Orlando “guardia nazionale di Roma” il Senato tiene a rilevare che il processo verbale del Notaro Milanesi – dice la deliberazione “un eloquentissimo indirizzo dei nostri fra­telli teverini” e “ribagnò nuova volta il nostro ciglio” di affetto e di simpatia per la terra dei Cesari “....e i nostri eroi palpitarono del palpito più generoso che mai fosse concesso a umana gente”.
E fedele interprete del pubblico suffragio, il Se­nato vuole che nella pagina della nostra redenzione siano scritte queste parole:
“Fratelli Quiriti, fratelli Merighi, Ranuzzi, Costa, Pastori, Sellini, nostri fratelli di Sicilia che stanziate in Roma, ascendete il Campidoglio, onde abbracciare in un sol punto le solenni ruine della Roma Pagana e la maestosa grandezza della Roma cristiana; ivi spiegate nuova volta il vessillo della immensa opera della Roma attuale, e scrivete in un marmo sotto alla statua di Marco Aurelio: Pio IX il 3 febbraio 1848 qui raccolse il voto di tutte le generazioni italiane, qui la sua mano alzò l’altare della Sicilia, ed ora qui i Siciliani depon­gono le loro lagrime di riconoscenza per l’immortale padre della loro patria”.
Copia della deliberazione si consegnò ad Orlando per portarla “al Municipio dell' eccelsa città” (107).
Leggendo questa prosa oggi si sorriderebbe, e si direbbe: troppa enfasi. Ma l’enfasi era del tempo. Del resto in ogni occasione se ne fa, nè sempre è sincera. Al '48 sì. Era un'esaltazione commovente che aveva bisogno di sfogarsi con grandi parole; perchè veramente allora si sognò. Ma benedetti quei sogni dai quali doveva balzare viva la realtà dell'unità nazionale.


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Luigi Natoli: era siciliano il primo tricolore del 1847 a Roma... - tratto da Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Il 15 novembre 1847 Roma era in festa: su tutti gli edifici sventolava il bianco vessillo del Papa: alle legazioni e alle ambasciate italiane ed estere ondeggia­vano le bandiere dei rispettivi stati; fra esse quella del re di Napoli, bianca con in mezzo lo scudo borbonico: gigli d'oro su azzurro. Quel giorno prendeva possesso del suo ufficio la Consulta di stato, istituita da Pio IX; una delle riforme, che con l'amnistia e la istituzione della guardia civica parvero agli Italiani esaltati, i primi squilli di tromba della libertà. Roma dunque tri­pudiava: una folla immensa si assiepava sul Corso, e gremiva la piazza del Quirinale.
Di cortei i Romani ne vedevano spesso, e sfolgo­ranti di colori e di pompe, ma questo era affatto nuovo; e se non aveva le pompe esteriori di una processione, aveva un significato spirituale altissimo, che eccitava l’entusiasmo popolare. Era semplice ed austero. Il Papa aveva espresso volontà che non vi figurassero le bandiere degli altri stati italiani ed esteri, “per prudenziali riguardi” – scrive il notaro Orazio Milanesi, cittadino romano e milite del 2° batta­glione civico: ma permise che vi prendessero parte quanti cittadini di altri stati, dimorassero in Roma.
Anche allora abitavano in Roma molti Siciliani, gio­vani artisti o preti o studiosi o altro. V'erano fra i tanti i fratelli Luigi e Giuseppe Orlando, patrioti provati e futuri fondatori del cantiere di Livorno; i giovani pittori Natale Carta, Giaconia e Rindello, il padre Gioacchino Ventura generale dei Teatini, che fu poi il rappresentante del governo siciliano, il suo congiunto padre Francesco Ventura, il padre don Gaetano Alberto Palizzolo, molti altri.
que­sti Siciliani di Roma avevano preso accordi per inter­venire in massa al corteo con una bandiera; e avevano dato incarico ai fratelli Luigi e Giuseppe Orlando di provvederla, e di “riunire sotto quella ad ora determi­nata i Siciliani dimoranti in Roma caldi amatori dell'ita­liano progresso”.
Pare che non sia stato molto facile provvedersi una bandiera: a ogni modo fu pronta pel 15 novembre; se non che la proibizione del Papa impedì che essa figu­rasse nel gran corteo ufficiale. La proibizione però non contemplava le dimostrazioni popolari; e la sera ve ne fu una nella quale “unitamente al vessillo pontificio, sventolarono le bandiere di tutti gli Stati italiani ed esteri”: del regno di Sardegna, cioè del ducato di Mo­dena, del Granducato di Toscana, del regno di Napoli e via dicendo: e sventolò la bandiera dei Siciliani.
La quale non era quella del regno delle due Sicilie; era il tricolore: il tricolore italiano.
“E così – consacra il notaro Milanesi – fu questa la prima insegna tricolore che sventolò senza contrasto in questa Capitale nel corrente secolo”.
Singolare bandiera, fatta per così dire di cenci. Eccola, come la descrive, con minuzie notarili, il buon Milanesi. Dopo aver constatato che era di tre colori, dice: “Quello verso l'asta è di color verde, l'altro suc­cessivo di color bianco e quello all'estremità di color rosso, e le cuciture dei teli e degli orli son fatte con cotone dei tre suddetti diversi colori. La suddetta ban­diera è larga m. 1 e cent. 83, lunga m. 1 e cent. 25 e mm. 3; la larghezza del primo telo è di cent. 62 ed è composta di tre pezzi uniti insieme che si differiscono un poco nel colore; il secondo telo bianco è largo cent. 60, formato in due striscie e l'ultimo telo rosso è largo cm. 61, composto di tre pezzi che si differiscono un poco nel colore; tutti riuniti con sette cuciture ribattute, con orlo ad uso fazzoletto.... più nel quarto superiore che è più vicino all'asta vi è attaccato con cuciture lo stemma della Sicilia in uno scudo rotondo del diametro di cm. 17 in mussola di cotone rappresentante la Tri­nacria, dipinta a chiaroscuro, acqua ragia ed olio”.
Dopo questa dimostrazione la bandiera che aveva eccitato entusiastici applausi, fu conservata; ma non mancò l’occasione, perchè ritornasse a garrire al vento della città eterna...


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venerdì 1 giugno 2018

Luigi Natoli: ingresso di Garibaldi e delle squadre siciliane a Palermo. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


“Palermo – scrive, dunque, il Nievo – pareva una città di morti; non altra rivoluzione che sul tardi qualche scampanio”. Intendente bene; sul tardi; sarà stato verso le otto, verso le dieci, a mezzodì; infatti per un pezzo, secondo il Nievo, i volontari andavano “uno qua, due là in cerca di Napoletani per farli sloggiare, e dei Palermitani per far loro fare la rivoluzione, o almeno qualche barricata”.
Altri scrittori garibaldini dicono che sul primo mo­mento nella strada di Porta di Termini e nella piazza della Fieravecchia non videro nessuno; ma poco dopo incominciarono ad aprirsi finestre e porte, e a venir fuori la gente, e in breve la piazza fu piena stipata.
Così il Capuzzi, così l'Abba, così tutti quasi. L'Eber dopo aver descritto l'assalto del Ponte e della barricata di Porta di Termini, racconta: “Presso la Porta di Ter­mini è la piazza della Fieravecchia. E fu lì che Gari­baldi fece la prima fermata. Bisogna ben conoscere i Siciliani per farsi un'idea della frenetica acclamazione con cui accolsero l'eroe: ciascuno voleva baciargli le mani ed abbracciargli le ginocchia; ad ogni momento arrivavano uomini che volevano fare lo stesso”.

L'Eber, come ho detto, cavalcava accanto a Turr e a Garibaldi, ed entrava con loro: osservatore più che attore. Egli dunque assicura, non avendo nessuna Bice da sbalordire, che quando Garibaldi giunse alla Fieravecchia, il popolo accorreva d'ogni parte. Il Luzio non dirà certamente che Garibaldi entrò in Palermo a mez­zodì. L'Eber, dice che erano le cinque del mattino; ma non è esatto. Alle cinque si combatteva fra il ponte dell'Ammiraglio e la porta: i primi legionari entrarono in città verso le cinque e mezza. Garibaldi alle sei e mezza circa. Garibaldi entrò l’ultimo; egli assistette all'entrata dei legionari e delle squadriglie, che avve­niva in gruppi, per poter superare, senza danno, fra una cannonata e l’altra, il crocicchio di Porta di Ter­mini. Infatti, su quel crocicchio e sulla porta non si ebbe nessun ferito.

Ora può darsi, anzi è così, che quando entrarono i primi volontari, e con loro il Mondino, il Bavin-Pugliesi, il Mastricchi, delle squadre, le strade fossero deserte. Racconta l'Abba, che domandato che cosa facessero i Palermitani che non si vedevano, a un popolano sbu­cato “d' una porta armato di daga” (qualcuno dunque si vedeva) n'ebbe questa risposta: “Eh, signorino, già tre o quattro volte, all' alba, la polizia fece rumore e schioppettate, gridando: Viva l'Italia, viva Garibaldi ! Chi era pronto veniva giù e i birri lo pigliavano senza misericordia”. Questo particolare è confermato dal dia­rio di Antonio Beninati, il quale sotto la data 25 mag­gio, nota.... “durante la notte, come al solito, forti sca­riche di fucileria alle porte della città. Dico io perchè sprecare tanta polvere? Nessuno crede che i nostri pos­sono fare salve di gioia. Vedi un po' quanto son min­chioni! dopo le scariche le truppe gridano “viva il Re!”. Non ci colgono no, no, e no!”.
Ma v'è un'altra ragione: nel pomeriggio del 26, il governo faceva affiggere un bollettino dello Stato mag­giore, nel quale si affermava Garibaldi, sconfitto a Parco, in ritirata verso l’interno dell' isola, e inseguito dalle truppe. Il Comitato o perchè non aveva avuto modo di controllare la notizia, o perchè non credette di distruggerla, per non svelare l'inganno in cui le truppe di Von Meckel eran cadute, tacque. La notizia quindi ebbe credito nella maggioranza dei cittadini. Onde quella momentanea solitudine silenziosa, che per altro durò che pochi minuti. 
Ma quando Garibaldi entrò, la piazza era piena di gente. L'Eber non era certo un visionario. Nelle Note di Salvatore Calvino, che apparteneva allo stato mag­giore di Garibaldi, si legge: “Entrati in città ci tro­vammo subito nella piazza della Fieravecchia.... La piazza era gremita di gente da non poter contenere una persona di più. È impossibile poter descrivere le grida e lo entusiasmo di quell'immensa popolazione, in gran parte inerme.... io mi vidi a destra e a sinistra del mio cavallo due patrioti trapanesi, miei amici, Innocenzo Piazza e Raimondo Amato” (131).
E nel diario Beninati, sotto la data 27 maggio domenica ore 6.30, dopo alcune brevi note sulle fuci­late che s'udivano e la fuga di una ventina di soldati, si legge: “Scorgo nella via Divisi un piemontese (132), ed altri dei nostri gridare: “Aprite, siamo i vostri fratelli! aprite!”. Non vi è più dubbio; i nostri sono entrati; in un minuto, e fra due salti siamo alla Fieravecchia; le campane della chiesa di Montesanto salu­tano per le prime l'arrivo dei liberatori. Con me cor­rono l'avv. Giovanni, Angelo e Luigi Muratori; questo ultimo ragazzetto si era armato di un grosso coltellaccio. Alla Fieravecchia trovo un popolo inerme, gridare: “Viva Garibaldi, viva l’Italia!” le squadre entrano in ordine sparso: ogni squadra con la bandiera, nella quale era attaccata l’immagine del santo protettore del paese: Misilmeri S. Giusto; Bagheria, S. Giuseppe; Marineo, S. Ciro; e così di seguito. Era bello vedere le “bonache” (133) dei nostri confuse con le camicie rosse...
“Mi avvicino alla Porta, scorgo una guida a cavallo; da noi si credette che quella fosse Garibaldi, quindi grida assordanti di evviva; ma quella ci fa gesto che Garibaldi è dietro; ci avanziamo e vicino al quadrivio si vede una massa armata e nel mezzo Garibaldi, sorridente, col sigaro in bocca, saluta il popolo: dai balconi del palazzo di Villafiorita, le signore sventolano i fazzoletti; si grida: Viva Garibaldi! viva S. Rosalia! Si fa sosta alla Fieravecchia; vedo il capitano Carini che abbraccia il suo figlio Ettorino; il capitano vestiva con cappello molle, cami­cia rossa, ed un cappotto con maniche larghe ricamate con laccio; il capitano La Masa, vestiva di velluto, con berretto alla spagnola.
“Abbraccio i miei vecchi amici Vincenzo Capra, Giuseppe Càngeri, fratello di Cono fucilato il 14 aprile, Giuseppe Naccari, venuto coi Piemontesi, Titta Mari­nuzzi.... Il generale fa sosta nella piazza; la prima parola che egli disse fu: “Andate a raccogliere i feriti”....
“Corriamo pei feriti. Ma di questi già una buona porzione sono stati raccolti dai facchini della piazza, e da alquanti cittadini, che privi di un'arma, prestano la loro opera in sollievo dei sofferenti.... Garibaldi (ore 7) si muove dalla Fieravecchia, Menotti che ha la mano fasciata tiene la briglia del cavallo.... Il gene­rale veste con piccolo cappello sugli occhi, camicia rossa, fazzoletto di seta, color arancione scuro, laccio d'argento e sicari nella tasca della camicia, calzoni color grigio.... Percorre la via Divisi, via Maqueda, Arco di S. Giuseppe, e si dirige verso il Carminello....” (134).
Per una “città di morti” non c’è male: se non altro eran morti che gridavano, applaudivano, correvano a raccogliere i feriti, sotto la mitraglia, suonavano le campane; morti-vivi, insomma, e così vivi, che Gari­baldi, alle 7 del mattino, poteva far stampare il suo ordine del giorno, col quale annunziava il suo ingresso in Palermo; e poteva costituire il Comitato provvisorio, con le sue varie sezioni.



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