Sceso sulla strada, il Generale ordinò al Missori di
spingere all'assalto parte del battaglione Dunne, i giovanetti figli della
Libertà, che fremevano, come puledri che urtano allo stabio, per correre
nei campi.
Al batter della carica, quei giovinetti si lanciarono
contro la mitraglia. Il fuoco del nemico si concentrò sopra di loro, seminando
la morte nelle loro file; ma nulla tratteneva quei lioncelli, l’ardimento dei
quali parve mirabile allo stesso Garibaldi. Qualche mese innanzi, laceri,
sporchi, oziosi, predestinati al carcere o all'ospedale, alunni del
vizio, quei giovanetti, di cui i più vecchi non toccavano ancora diciotto anni,
erravano per le vie e le piazze di Palermo; la rivoluzione li redimeva, li nobilitava, insegnava loro la
grande virtù del sacrificio, ne faceva degli eroi. Superando siepi e canneti,
arrampicandosi sui muri, lasciando parte di loro per la via, respinsero i vecchi e fieri cacciatori, si
impadronirono del cannone.
Qui
avvenne l'episodio della cavalleria, variamente raccontato dagli storici, nel
quale ogni attore vide e magnificò il proprio gesto. Raccogliendo le varie redazioni,
parmi poter qui ristabilire la verità, dando a ciascuno il suo.
Per incoraggiare i giovani volontari siciliani, Garibaldi
era disceso a piedi sulla strada, con Missori, che era ritornato al suo fianco.
Non è vero che c'era anche Statella; Statella, ferito poco innanzi, era stato
portato nelle ambulanze. I giovanetti e i cacciatori siculi si affrettavano a
trainare il cannone, quando le file borboniche si aprirono, e diedero il passo
allo squadrone della cavalleria, che si lanciò all'assalto per riprendere il
pezzo. Nuovi, anzi inesperti alla scherma contro la cavalleria, i volontari
presi da momentaneo sgomento, invece di opporre un forte gruppo, si aprirono in
due, forse con l'intenzione di sbandarsi ai lati dello stradale: ma lo stradale
era fiancheggiato da fitte siepi di fichi d'India, che impedirono la fuga;
costretti da questo ostacolo, per difendersi si voltarono; la voce dei capi, li
incoraggiò.
I cacciatori a cavallo, per l'angustia della strada non
potevano galoppare a squadrone serrato, ma un dietro l'altro.
Giunsero tra le due file, e i primi non potendo per
l'impeto del galoppo, frenare in tempo i cavalli, trascorsero oltre le linee;
ma da una parte e da l’altra le scariche dei giovani volontari, atterrando
cavalli e cavalieri impedirono al resto d'avanzarsi. Circa venticinque
cacciatori col capitano Giuliani e il luogotenente Faraone rimasti tagliati
fuori, si affrettarono a tornare indietro. Il tenente Rammacca si para innanzi
per affrontarli; il capitano Giuliani gli cala un fendente, che vien parato da
un cacciatore siculo. Il sergente Santi Tumminello affronta il tenente Faraone,
e con un colpo di baionetta alla gola lo rovescia da cavallo, gli toglie la
spada, il revolver e il cavallo.
Il Giuliani, si lancia sopra Garabaldi, e alla intimazione
di arrendersi risponde con un fendente, Garibaldi para il colpo, e afferrato il
cavallo per la briglia, dà un colpo di punta alla gola del Giuliani e l’uccide.
Missori fa fuoco col suo revolver sopra due altri cavalieri, e li atterra,
sebbene i documenti borbonici affermino in modo assoluto, che i
cacciatori a cavallo uccisi in quell'episodio furono tutti feriti di
arma bianca.
La storia raccolse il gesto del Missori, per la notorietà
del prode e audace comandante delle guide: non raccolse quello degl’ignoti
giovanetti di Corrao e di Dunne, di quei “Picciotti” che aspettano ancora lo
storico il quale raccolga, illustri e glorifichi gli episodi di valore e
d'eroismo da loro offerti in gran copia, e senza vanità. Eppure la lettera del
Dumas al Carini non tace quel che essi fecero; ed essa è confermata dalle relazioni
Corrao e Rammacca, scritte allora allora. Si vegga dunque quanto sia veritiera l’epigrafe
dettata dal Pascoli.
Stupirono i figli della Libertà per lo slancio
all'assalto e per la resistenza al fuoco. Quando due mesi dopo Garibaldi si
apparecchiava per muovere sopra Capua, volle con sè due battaglioni dei nostri
giovinetti, e li fece trarre dall'istituto eretto in Palermo nel giugno e
diretto allora da Alberto Mario.
- A Milazzo – disse al Mario – ho veduto come si battono questi
demoni....
E fino agli ultimi suoi anni il valoroso sir Dunne ricordava i “Picciotti” del suo battaglione; e venendo in
Italia non tralasciava di domandare se ve ne fossero ancora vivi. Fino a pochi
anni or sono ce n'erano ancora, e nell'ombra dell'oblio e della
povertà si gloriavano d'essere stati di quel battaglione; e uno dei superstiti
era un Raimondi, reso popolare da un giornaletto, che ignorava forse come pel
valore spiegato a Milazzo, il piccolo Raimondi era stato promosso caporale sul
campo.
Ma nessuno fuor del Dumas ha consacrato una parola agli eroici
giovinetti di Dunne mietuti dalla mitraglia, nè ai cacciatori di Corrao, tre
volte ostinatamente andati all'assalto, e alle cui baionette si deve se
Garibaldi non cadde sotto l’impeto della cavalleria borbonica.
Non un marmo dedicato alla virtù di questi oscuri eroi,
che la nostra irriconoscenza, la nostra inferiorità civile, ha lasciato sepolti
nell'ignoranza! E soltanto per questo, narrando della giornata di Milazzo, io
mi son trattenuto a rievocare la parte presavi dai Siciliani, non lieve, nè
secondaria. E non per gretto campanilismo, ma per sentimento di giustizia,
tanto più doveroso, in quanto anche oggi, con tanto lume di documenti, si
ripetono e si consacrano errori, e si perpetuano omissioni e silenzi imperdonabili.
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