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lunedì 7 gennaio 2019

G.E. Nuccio: L'Addiminavinturi racconta la morte di Francesco Bentivegna. Tratto da: Picciotti e Garibaldini

L’Addiminavinturi ricominciò: – Un’altra volta – sei volte era passato l’inverno da quando aveano fucilato Nicolò Garzilli e stava per cominciare l’altro inverno, e poco ci mancava alla festa dei nostri morti – un uomo di campagna (era di Corleone e si chiamava Ciccio Bentivegna) anche lui volle mettersi contro il gigante Borbone. Aiutato da molti paesani s’avanzavano armati.... Ma re Borbone e Maniscalco, il padrone di Palermo, mandarono soldati quanti ne vollero con cannoni e fucili e mezzo mondo, e li sterminarono. Ma Ciccio Bentivegna fu salvo. Zitto zitto, passa questo paese passa quell’altro, mangia e dorme in questa casa mangia e dorme in quell’altra, chè nessuno aveva paura di ospitare un fratello cercato dai birri. Camminava verso Sciacca, che è paese di marina e di dove poteva salpare per Malta o per il Piemonte, dove ci sono ancora tanti fratelli nostri colà rifugiati.
Cammina cammina cammina, era giunto a buon punto quando incontra un suo amico; ma amico di quando era piccolo. A vederlo gli si allargò il cuore; si gettò fra le sue braccia; e dicendogli: “Fratuzzu, sono nelle tue mani” gli contò tutto, ossia che i soldati del Borbone lo cercavano per ammazzarlo come Cristo in persona.
L’amico – si chiamava Milone – gli disse: “La mia casa è tua!” Ma quando l’infame lo ebbe chiuso dentro ben bene, corse a chiamare i birri e glielo consegnò tale quale fece Giuda. E i birri subito l’ammazzarono. E Milone se ne andò da re Borbone a Napoli e gli disse: “Maestà, ho fatto questo e questo”. E il Re disse: “Bravo!” e lo fece cavaliere e gli diede denari e mezzo mondo. 
Il vecchio tacque e chiuse gli occhi.... ma tosto li riaperse e soggiunse:
- Ma re Ferdinando campò poco. Se non lo potè ammazzare Agesilao Milano con la baionettata che gli dette mentre si godeva tutti i soldati messi in parata, lo fece morire il Signore. E suo figlio Francesco (sta scritto nel libro del destino) non morirà Re come suo padre, perché Santa Rosalia, la vergine palermitana che salvò Palermo dal colera, la salverà dalla schiavitù dei Borboni e manderà un guerriero fatato. E tutti quelli che lavorano la terra e quelli che vanno pei monti come siete voi, scenderanno alla pianura, e Palermo sarà libera per secula et seculorum. 
Poiché la bocca del vecchio si richiuse nuovamente, i giovani della montagna ricercarono la città nella quale il sole, per uno squarcio delle nubi, mandava un fascio di raggi vibranti come volesse svegliarla dal sonno. E i pastori si sentirono le anime investite da una ventata d’eroismo e si sentirono capaci di fare quello che il vecchio prediceva.
A un tratto, il vecchio si buttò carponi e poggiò l’orecchio destro sulla terra nuda, poi, rialzandosi, disse: – I compagni d’arme – e s’allontanò sollecito dal gruppo, levando la mano con sì lento gesto, che parve non un saluto, ma una benedizione.



G.E. Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico originale ambientato nella Palermo del 1820. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919 con le illustrazioni dell'epoca di Alberto della Valle. 
Prezzo di copertina €22,00 - Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile online e presso le Librerie Feltrinelli. 

G.E. Nuccio: L'Addiminavinturi racconta la morte di Niccolò Garzilli. Tratto da: Picciotti e Garibaldini

Giunse che già i giovani pastori sedevano attorno all’Addiminavinturi sotto l’ombra del Castellaccio, l’antica, diruta fortezza saracena.
Era un vecchio così strano e dall’aspetto così antico da parere fosse vissuto centinaia d’anni. Sedeva su una roccia, e, siccome poggiava le spalle al muro del castello, sembrava una cariatide incavata a sostenere chi sa quale colonna portata via dalla furia del tempo. Avea una fronte enorme, bozzacchiuta, d’un giallo vecchio scuro che sopravanzava come a far più profonde le buche delle occhiaie, dove si perdevano, in un’ombra cupa, gli occhi piccoli e neri, ma d’un nero opaco, smorto; gli zigomi sporgenti facevano più piccoli il naso e il mento acuti, sì che, vista da lontano, la testa, nell’insieme, prendea l’aspetto d’un cuneo di pietra gialla coperto al sommo da uno strato di calcina, cui somigliava la massa di capelli bianchi.
Il tono della voce era ugualmente pacato, e, sia che il vecchio narrasse le infamie dei birri borbonici, sia che narrasse le audaci e nobili imprese dei siciliani, che volevano esser liberi nelle loro terre, sempre pareva ch’egli raccontasse le storie bibliche o le gesta dei paladini di Francia.
I giovani pastori lo avevano già ascoltato altre volte a narrare le infamie commesse dai birri, quand’erano tornati dopo la Rivoluzione del 1848; e la fucilazione di Nicolò Garzilli e di Francesco Bentivegna, e giù giù, fino alla morte di Ferdinando II, morto pochi giorni addietro.
- Una volta – cominciò il vecchio con quella sua voce pacata che pareva venisse di lontano – una volta, un giovinetto, si chiamava Nicolò Garzilli; c’era il gelo e compiono ora nove anni, disse: “Gli uomini non li deve comandare nessuno! meglio morti che schiavi!”. E (come David che, piccolo quale era, se la prese col gigante Golia) il giovinetto se la prese col gigante Borbone, che è guardato da centomila e più bocche di fuoco, che comanda tanti soldati quanti granelli ha la rena del fiume Oreto, e ha cento e più navi che, se lui lo comanda, gettano fuoco quanto ne può gettare il Mongibello. Ma Garzilli non aveva paura, perchè ci aveva il fuoco nel cuore e anche ci aveva una perla nella mente, tanto che aveva scritto un libro che nemmeno un vecchio vecchio, sapiente sapiente, è buono a scriverlo. Dunque una sera; – ve lo dissi, c’era il gelo e compiono ora nove anni – un pugno di giovanetti, nella piazza della Fieravecchia – come due anni prima avevano fatto gli altri – cominciarono a gridare: “Viva la libertà!”.
Avvenne tale e quale come se voialtri pastori, di notte, lasciaste le pecore fuori: da ogni parte sbucarono i lupi del Borbone e si gettarono sui giovanetti e li legarono come cristi. E di poi, passò poco tempo, Nicolò Garzilli ed altri cinque giovani li portarono alla morte, per le vie di Palermo. Ma Palermo pareva tutta morta; come se ci fosse stato quel castigo di Dio che chiamano colera. E tutte le case con le porte e le finestre chiuse parevano tombe; e non veniva fuori nè canto di mamma, nè pianto di bambini.
Garzilli aveva una sorella che – come seppe che il fratello l’avevano fucilato – diventò pazza e poi non passarono due giorni che morì. Garzilli aveva anche il padre; ma quello era birro del Borbone, e quando seppe la morte del figlio fu tale e quale come l’ammazzato non fosse suo figlio, e continuò a passeggiare per le vie come se niente fosse stato!
L’Addiminavinturi tacque, la sua bocca si chiuse con uno scatto, come un ordigno meccanico. Le palpebre calarono sugli occhi; e tutto il suo corpo restò immoto. I giovani pastori, soggiogati dalla impassibilità del vecchio, ricacciarono dentro l’animo le imprecazioni, che stavano per prorompere contro quei birri assassini, contro il padre inumano di Nicolò Garzilli.


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1860.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919, con le illustrazioni dell'epoca di Alberto della Valle. 
Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Nella foto: l'Addiminavinturi illustrato da Scarpelli

Giuseppe Ernesto Nuccio: La fucilazione di Niccolò Garzilli. Tratto da: Picciotti e Garibaldini


In piazza della Fieravecchia, Fedele scontrò Pispisedda e i picciotti. Si scambiarono così, velatamente, le nuove che andavano ormai di bocca in bocca. Pareva che corressero dei fremiti d’attesa febbrile per le vie della città. I picciotti sedettero presso l’icona che è incastrata sul muro del palazzo Trigona. C’erano, sulle scranne, alcuni vecchi scaricatori attorno ad un uomo che parlava con tono dolente della passione e morte di Gesù Cristo.
Fedele che si sentiva fremere l’animo da una tristezza vaga, come al sopravvenire d’una sciagura imminente, si appressò per ascoltare.
Ma, appena se lo vide vicino, l’uomo ammutolì, e anche gli ascoltanti si misero a guatarlo minacciosi.
Pispisedda, che si era accorto della diffidenza suscitata, intervenne:
- Che lo credete taschettaro? È uscito ora ora dalla Vicarìa. Fu arrestato per la luminara; è picciotto di montagna. 
Nessuno degli uomini parlò; ma le rughe si spianarono, e gli sguardi si fecero sereni. E quello ricominciò a narrare:
- Verso la mattina venne nella via Divisi il Commissario ed entrò in tutte le botteghe a ordinare che nessuno chiudesse le porte.
Io mi trovavo nella calzoleria di Beninati, in piazza Spedaletto. “E perchè non si doveva chiudere? Che ragione c’era? Era forse il giovedì santo?” domandavano tutti, affacciandosi ansiosamente alle porte. Ma d’un tratto la terribile nuova passò di bocca in bocca. Nicolò Garzilli e i compagni dovevano essere fucilati! Allora le donne, che erano in mezzo alla via, corsero dentro chiamando e tirandosi dietro i figliuoli. Dopo pochi minuti la via Divisi era deserta; nei balconi la gente s’era affacciata per un poco, poi, dentro, pur essa, chiudendo.
Ma non passò molto tempo e s’udì il tonfo dei passi e il vocìo sommesso d’una folla che si avvicinava.
Io mi sporsi fuori della porta; sulle soglie delle case donne e uomini pallidi, perplessi si affacciavano per guardare. Calavano dalla via Maqueda. In mezzo ai sacerdoti, tra i birri e le truppe, si scòrse un gruppo di uomini col viso coperto da un velo nero. Era Nicolò Garzilli; erano i suoi compagni. Ci si gelò il sangue nelle vene. I cuori si fermarono. Li portavano alla morte, alla fucilazione. Di balcone in balcone, di porta in porta corse un grido di pianto represso e, subito, i balconi, le porte si chiusero tutti, ma gli stessi muri delle case, i balconi, le porte, le strade piangevano. Anche noi chiudemmo. Dentro, al buio, col cuore agghiacciato, udimmo il tonfo dei passi lenti, e pareva che tutta la gente ci pestasse il cuore. Ma il rumore si allontanava, si attutiva, si spengeva. Allora il silenzio fu terribile: l’angoscia ci prese il cuore e lo serrò in una morsa tremenda. Io ch’ero addossato al muro mi piegai a poco a poco, caddi ginocchioni, mi tenni forte le braccia con le mani adunche ficcando le unghie nelle carni; mi feci piccolo piccolo, i gomiti sui ginocchi, il mento sul petto, gli occhi serrati. Aspettavo con uno spasimo atroce i colpi di fucile, che dovevano ammazzar Nicolò Garzilli e i suoi compagni sulle pietre della Fieravecchia. Ma il silenzio continuava più terribile della morte stessa. Niente s’udiva, niente. Come se la vita della terra fosse finita per sempre da cento e cento anni. Nella bottega non si udivano nemmeno i cuori. Io non sentivo più le braccia sotto le unghie, nè i ginocchi sotto i gomiti, nè il petto sotto il mento; non sentivo più il mio cuore stesso. Là mi pareva di essere, là, nella piazza stessa a guardare. Ecco: mettono in fila i condannati, vicino al muro. I sacerdoti si allontanano. Li sorregge soltanto tutto il muro delle case, silenziose come le tombe. Il cannello s’è fatto muto; l’acqua della fontana s’è agghiacciata. Ecco che i soldati s’allontanano, si fermano, imbracciano il fucile, prendono la mira: l’ufficiale leva la spada. Io mi raggriccio, aspetto, aspetto, aspetto, tremando tutto con la casa, con la via, con la terra.
A un tratto fu come se la casa sprofondasse e parve un colpo solo. Ma terribile, che durò infinitamente; come se correndo per tutte le vie della città battesse alle porte ad una ad una, alle finestre ed ai balconi, e, poi, elevandosi, roteasse sul cielo lontano, perchè tutti gli uomini della terra udissero. Io non so per quanto tempo rimasi in quel luogo. Più tardi venni fuori, venni fin qui, e in questa piazza, proprio in quell’angolo, c’era il sangue ancora, ed io mi avvicinai. Attorno alla macchia di sangue c’erano pochi ragazzi e pochi uomini, pochi e cupi. Un ragazzo raccattò un poco di pelle insanguinata, e l’accostò al muro e scavò una fossa e la seppellì senza dir nulla. E noi, intorno a lui, muti, senza piangere. Un altro ragazzo fece una croce piccola con due cannucce e la piantò sulla fossa; e noi intorno a lui muti, con gli occhi asciutti.... senza piangere. Piangevano i muri delle case e piangeva il cielo, invece”.
L’uomo tacque. Tutte le teste erano abbassate, come se ognuno guardasse il Cristo morto in chiesa.
S’udì un singhiozzo represso; allora i volti si levarono irosi e uno disse:
- Non si piange, non si deve piangere più. Ora tocca ad essi.
E un altro disse:
- Forse cominceranno stasera stessa a piangere, se questa immagine sacra che ci sta sopra ci aiuta. 
E il gruppo si sciolse silenzioso.


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1860. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919 con le illustrazioni dell'epoca di Alberto della Valle (1917) Copertina di Niccolò Pizzorno
Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile online e presso le Librerie Feltrinelli.