I volumi sono disponibili dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it. (consegna a mezzo corriere in tutta Italia) Invia un messaggio Whatsapp al 3894697296, contattaci al cell. 3457416697 o alla mail: ibuonicugini@libero.it
In vendita su tutti gli store online. In libreria a Palermo presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), La nuova bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Nuova Ipsa Editori (Piazza Leoni 60), Libreria Zacco (Corso Vittorio Emanuele 423) Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56) Libreria Macaione Spazio Cultura (Via Marchese di Villabianca 102)

lunedì 20 aprile 2020

Luigi Natoli: La presa di Carini (18 aprile 1860) Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860


Il comando militare, quindi, concertata un’azione si­multanea delle varie colonne mobili, diede ordini di as­salire gli insorti, che, indietreggiando dinanzi al sover­chiare dei regi, si concentravano a Carini. La colonna Cataldo movendo da Partinico, quella del Bosco per Torretta e Montelepre, quella del Torrebruna, rinforzata da altre milizie per la via di Capaci dovevano prendere in un cerchio le squadre. Il 18 infatti gli insorti sono assaliti; si combatte accanitamente per parecchie ore tra forze ineguali: Carini vien presa dai regi del Cataldo, che si abbandonano al saccheggio e alla carneficina. Ma il movimento aggirante, per imperizia del Torrebruna, e per non essere arrivata in tempo un’altra colonna col tenente colonnello Perrone, non riesce: gl’insorti giun­gono ad aprirsi un varco e a ritirarsi sulle montagne, sebbene fulminati dai borbonici. Gl’incendi, le stragi di Carini indegnarono anche il re, che censurò vivamente la indisciplinatezza e la barbarie delle truppe; segnarono un altro debito verso la vendetta popolare.

Dopo la presa di Carini, i comuni dei dintorni di Palermo ritornarono all’obbedienza; e la più parte de­gli uomini delle squadre, disanimati da una guerra senza speranza di vittoria, non vedendo giungere gli aiuti che erano stati promessi, non sorretti dalla fede nell'idea dell'unità che essi non capivano, adescati dal­l'indulto, gittavan le armi e ritornavano sottomessi nelle loro case. La causa della rivoluzione pareva perduta; quando il 20, Rosolino Pilo e Giovanni Corrao giunge­vano a Piana dei Greci, e con le rinate speranze riac­cendevano il fuoco, non ancor domo. Pietro Piediscalzi, infaticabile, ardente, si unì tosto con loro e ricostituì la squadra, che poi tenne, fino alla morte, ai suoi ordini, pagandola del suo.



Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. Raccolta di scritti storici e storiografici sul Risorgimento siciliano.
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 24,00. Copertina di Niccolò Pizzorno
Il volume raccoglie nelle versioni originali: Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935, La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910), Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI), I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931), Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su Amazon e in tutti i siti vendita online.
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Libreria di La Vardera V. (Via N. Turrisi) e presso il rivenditore Centro libri (Brescia)

G.E. Nuccio: Il poeta Camarrone è salvo? Tratto da: Picciotti e Garibaldini

Pispisedda non seppe chieder più nulla a se stesso.
Ecco davanti a lui la fila nera, cupa, che doveva essere abbattuta d’un colpo; e non ebbe la forza di serrar gli occhi per non vedere, o di tapparsi gli orecchi per non udire: restò sulle punte dei piedi, irrigidito, con gli occhi sbarrati.
Egli vide, vide i soldati a prender la mira coi fucili; vide l’ufficiale a dar il segno con la spada; vide tre nugoli di fumo scattar da le canne; udì uno scroscio simultaneo e vide che, dopo lo sparo, la prima fila di soldati balzò addietro. E vide altri tredici nugoli di fumo scattar da altre canne di fucili e s’udì un altro scroscio e vide la fila, la fila nera abbattersi di schianto, tutta insieme come se il terreno fosse affondato improvvisamente.
S’udirono alti singhiozzi.
- È vivo, è vivo! – gridò qualcuno a un tratto.
- Il poeta Camarrone, è salvo!
- Ora lo graziano, ora lo graziano!
Un infermiere e un crocifero accorsero.
- Sono vivo! – grida Camarrone tentando di levarsi.
Ma subito, il prete e l’infermiere arretrano. È stato dato un ordine. Altri tredici nugoli di fumo scattano, un altro scroscio e anche l’ultimo martire cade riverso, accanto agli altri colpiti che dànno gli ultimi strattoni tra fiamme e fumo.
- Bruciano, bruciano! Hanno usato le palle infocate! – grida qualcuno, esterrefatto.
- Spegnete, spegnete il foco, assassini! – urla qualcuno. Ed ecco che alcune donne accorrono e versano, pietosamente, secchiate d’acqua e terriccio sui morti. Ma i soldati danno la carica, spingono le donne per far largo ai tre carri recanti le casse da morto.
- Li portano al camposanto, ora.
Il cigolìo e lo stridìo dei carri è rotto soltanto da scoppi di singhiozzi mal repressi.
- Allontaniamoci – gemè Pispisedda. Ma Ferraù pareva impietrito e non moveva ciglio; dal labbro inferiore gli gocciolava ininterrottamente un rivolo di sangue vermiglio.
E Pispisedda tornò a guardare. A uno a uno, i cadaveri vennero gettati nelle vaste casse. Si intravedeva nell’aria un corpo con le braccia, le gambe e il capo penzolanti; e s’udiva il tonfo alto, cupo del cadavere buttato nella cassa. Sulle casse poscia fu gettato un incerato largo; ma l’ultima, ch’aveva cinque cadaveri invece di quattro, mostrava anche sotto l’incerato la forma d’un corpo.
E il tristissimo corteo si mosse.
Come i carri passavano, le donne sbottavano in singhiozzi e mormoravano alto: “O figli, figli, figli!”. E gli uomini, i pochi uomini che avevano potuto resistere, facendosi bianchi e cupi in viso, si scoprivano...
Anche Ferraù e Pispisedda con un breve gruppo di popolani, attratti da una forza invincibile, seguirono i tre carri per Santa Lucia. Andavano a capo basso, in punta di piedi, muti, sì che lo strider dei carri echeggiava alto nella via larga. A un tratto, qualcuno profferì una parola e additò in terra. Un senso di raccapriccio corse gli animi. Tosto ognuno balzò ai fianchi della strada e la carraia si vuotò. Allora rosseggiò vivido quel rivolo di sangue vermiglio, che gocciolava incessantemente dai carri sgorgando dalle ferite, dagli squarci che le palle borboniche avean fatti sui corpi palpitanti. E parve a ognuno che ancora i corpi frementi si dibattessero negli ultimi spasimi dell’agonia, l’uno su l’altro, accatastati. E, non reggendo gli animi, a uno a uno, i cittadini si vennero fermando abbattuti da un dolore folle. Anche Pispisedda e Ferraù caddero affranti sulla spiaggia di Santa Lucia. E i carri s’allontanarono lentissimi mentre il sangue segnava la scìa vermiglia su la polvere morta. Niente era più vivo di quel segno, che gli uccisi lasciavan sul loro cammino, niente gridava più forte di quel sangue vivissimo. 



Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1859-60.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad & figlio nel 1919, impreziosito dai disegni dell'epoca di Alberto della Valle.
Pagine 523 - Prezzo di copertina € 22,00 - Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online.
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour - Palermo)

G.E. Nuccio: La fucilazione delle XIII vittime. Tratto da: Picciotti e Garibaldini.

I due ragazzi si fissarono negli occhi smarritamente: “Perché dentro il Castello avevan bisogno di tredici uomini? Giusto tanti quanti erano gli arrestati popolani?”.
Ma dalle loro bocche non uscì la domanda tormentosa. Si scostarono alquanto e attesero. Dinanzi la porta e sugli spalti scorsero le sentinelle col fucile in ispalla a passeggiar concitate.
A un tratto, venne dall’atrio del Castello un tramestìo e un ronzìo alti, quasi l’avvicinarsi d’una processione salmodiante.
Sulla porta comparve un drappello di soldati a cavallo, seguito da un altro di soldati a piedi, che chiudeva tre file di uomini: a destra, una di preti con una gran croce rossa sul petto; nel mezzo, la fila dei condannati, coperti dal sacco, bendati gli occhi, legate le braccia alla schiena; a sinistra la fila dei tredici uomini chiamati un momento avanti dallo sbirro De Simone tra i quali c’erano lo zoppo e il villanello. Ai fianchi e alle spalle, i soldati a piedi e a cavallo con le baionette inastate.
- Li fucilano! – gemè Pispisedda con un soffio di voce.
Ferraù fece sentire un digrignare sordo.
I soldati avanzavano tutti con le schiene curve, le fronti chine. I condannati, invece, andavano eretti tutti e tredici e con quel loro atteggiamento che urlava ancora la sfida!
Pispisedda e Ferraù si mossero, fiancheggiando il corteo con l’animo straziato, quasi essi stessi fossero portati alla fucilazione.
Il corteo entrò nella via Piedigrotta. Gente s’affacciava spiando dai balconi, dalle finestre e tosto arretrava smarrita. E una dopo l’altra, tutte le imposte, tutte le porte si rinserravano. S’udiva alto ancora il salmodiare tristissimo dei crociferi, e il trepestìo uguale, soffocato s’accompagnava al mormorìo. Poca gente aveva animo di seguire il corteo.
- Don Giovanni Riso – disse qualcuno, con voce strozzata accanto a Pispisedda.
- Il poeta Camarrone – aggiunse un altro.
Così, uno dopo l’altro, a traverso il fitto velo nero, i condannati venivan riconosciuti dalla gente; e i nomi eran mormorati sommessamente come se la voce uscisse dalla gola smorzata dall’ambascia.
- Dove li portano, dove li portano? – gemeva Pispisedda andando cecamente, senza coscienza. Svoltarono a sinistra. Lo spiazzo di Porta San Giorgio era già zeppo di soldati i quali, come il corteo comparve, sospinsero la poca gente addietro, facendo il vuoto dal muro fino alla carraia.
- Qui li fucileranno? – fece Pispisedda, atterrito.
Il drappello dei soldati a cavallo, che precedeva il corteo, si allineò ad arco, dalla proda dell’altro marciapiede al muro delle case, gettando addietro qualche cittadino il quale si lasciava sospingere e quasi schiacciare come se avesse perduto ogni coscienza. Non s’udiva alcuna voce, alcun richiamo, alcuna protesta: parea un gruppo sperso di muti o di mentecatti, con occhi e bocche spalancati e braccia e gambe dinoccolate; ombre addossate le une alle altre, quasi a sostenersi.
Accadeva improvvisamente un fatto talmente straordinario che le menti sconvolte, disfrenate in un arrovellìo di pensieri tumultuanti erano cadute in un assopimento grave.
La realtà del momento era così incomprensibile da perdere i suoi veri aspetti.
- Che fanno? Li fucileranno, qui? – si chiedeva spasmodicamente Pispisedda stringendo il braccio destro di Ferraù. Ma quello, ciondolando, andava avanti e addietro, che pareva un ebbro; un ebbro tutto chiuso in un cupo pensiero.
Passavano ora i condannati fiancheggiati dai tredici cittadini spinti da De Simone e fiancheggiati dai tredici crociferi. Ma i condannati avevan diritta e rigida l’andatura; e levavano alti i piedi quasi tentassero di salir degli scalini: la benda stretta e spessa sui loro occhi doveva far cupo il buio, cupo come la morte imminente. Certo avvertivano quel mormorìo indistinto; forse sentivano su loro gli sguardi rigidi di occhi sbarrati, e camminavano sldi verso la morte.
- Che fanno. Li fucileranno, qui? – si chiedea spasmodicamente Pispisedda. Similmente forse ciascun cittadino si ripetea la medesima domanda, con lo stesso spasimo folle nell’animo.
E quando i condannati quasi toccarono il muro furono disposti in linea orizzontale: una fila nera, cupa come di fantasmi.
S’udì un ordine e la fila nera s’abbassò d’un tratto dimezzata. Pispisedda si rizzava sulle punte dei piedi e sbarrava gli occhi – quasi avesse voluto vincere un sonno pesante – e guardava ostinatamente. I condannati ora stavano in ginocchio. A uno a uno gli accompagnatori e i preti si staccarono, stentatamente e vennero avanti con quella grande croce rossa, sulla tunica nera, che pareva una larga macchia di sangue.
E la fila nera dei condannati parve ingigantirsi, allungarsi infinitamente, come se lo spazio si fosse raddoppiato, come se le case stesse si fossero arretrate improvvisamente.
E si fece un silenzio alto, cupo, come se i cuori stessi si fossero fermati.
E, quasi sbucassero improvvisamente dal suolo, tre file di tredici soldati, uno dietro l’altro, si piantarono nello spazio, di fronte alla fila nera dei condannati.
E il silenzio si fece più alto ancora e su tutti passò rapida, una zaffata di vento ghiaccio che gelò i cuori. 



Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1859-60. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad & figlio nel 1919, impreziosito dai disegni dell'epoca di Alberto della Valle. 
Pagine 523 - Prezzo di copertina € 22,00 - Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online. 
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour - Palermo)

Luigi Natoli: Le XIII vittime. Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860


Ma il 14 aprile 1860 la città era funestata da una tragedia, com­piuta anche contro la volontà del re Francesco. Il quale, informato subito del moto di Palermo, accogliendo il suggerimento del ministro Cassisi, che non convenisse tingere di sangue i gradini del trono alla sua prima ascensione, e che la grazia avrebbe prodotto un eccel­lente effetto in Sicilia, ordinava fosse telegrafato al Salzano, che ove il consiglio di guerra dovesse pronun­ziare sentenze capitali contro gli arrestati del 4 aprile, si fossero sospese, e se ne facesse rapporto per le ri­soluzioni. E il telegramma, perché avesse tutta la pub­blicità, anzi che in cifra, fu subito spedito nell’ordinario linguaggio, così da essere conosciuto in tutta la linea sino a Palermo.

Ma il governo di Sicilia tenne occulto l’ordine del re; e spingendo alacremente gli atti processuali, dava chia­ramente a vedere quali fossero le sue mire selvagge; onde il re nuovamente faceva scrivere delucidando che la sospensiva della sentenza si riferisse a coloro, che avevano preso parte agli avvenimenti del 4 aprile. In­vano. Il Maniscalco, più realista del re, credendo per le agitazioni cresciute più salutare un esempio di cru­deltà, faceva dal consiglio di guerra, il 13 aprile, pronun­ciare sentenza di morte contro tredici fra i prigionieri, “nella supposizione – dice la sentenza che sieno essi i promotori e complici” del delitto di insurrezione. E la sentenza, fra lo scoramento e il lutto della città, fu eseguita il 14, verso il mezzodì a porta S. Giorgio. Dei tredici fucilati dieci erano degli arrestati del 4, tre furono i presi nei conflitti, come narrammo.

La città ne raccolse i nomi, e decretò loro onore di monumento per tramandar la memoria del sacrificio; ora ne ha raccolto gli avanzi e tumulati con civili ono­ranze. Furono Sebastiano Camarrone, Domenico Cuciflotta, Pietro Vassallo, Michele Fanaro, Andrea Coffaro preso in Bagheria, Giovanni Riso, Giuseppe Teresi preso alla Guadagna, Francesco Ventimiglia, Michelan­gelo Barone, Nicolò di Lorenzo, Gaetano Calandra, Cono Cangeri e Liborio Vallone preso a Monreale.

Tanta strage, se strinse i cuori di cordoglio, non disanimò i cittadini.


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. Raccolta di scritti storici e storiografici sul Risorgimento siciliano. 
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 24,00. Copertina di Niccolò Pizzorno 
Il volume raccoglie nelle versioni originali: Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935, La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910), Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI), I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931), Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927) 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice e in tutti i siti vendita online. 
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica e presso il rivenditore Centro libri (Brescia)

giovedì 9 aprile 2020

La risposta del popolo allo stato d'assedio. Poesia popolare. Tratto da: Documenti e memorie della rivoluzione siciliana del 1860


Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860: Documenti e memorie della rivoluzione siciliana. A cura di Giuseppe Pitrè, Luigi Natoli, Pipitone Federico. 
"D'altro canto è sembrato alla Commissione che offrire qui tanta e così svariata materia dispersa fra stampe rarissime o in manoscritti fin qui inediti o in raccolte di non piacevole nè facile lettura, sia un buon servizio alla storia e agli studiosi; i quali troveranno in questo volume abbondanti materiali per la storia di quella rivoluzione, senza la quale nè Garibaldi si sarebbe mosso, nè l'Unità Italiana sarebbe divenuta così presto un fatto compiuto.Quanto all'ordinamento, le ragioni di esso appariranno chiare. La prima parte comprende i documenti della rivoluzione, anteriori e posteriori al 4 aprile 1860 e fino al 27 maggio. La seconda, una scelta degli atti della Dittatura, quelli cioè che propriamente riguardano il periodo rivoluzionario, il rinnovamento politico-amministrativo della Sicilia e uomini e fatti della rivoluzione; la terza, più varia, comprende atti della rappresentanza civica, documenti riferibili alle spedizioni, diari del tempo, memorie, poesie, fra cui le memorie storiche di Filippo e Gaetano Borghese, il diario inedito di Enrico Albanese, le lettere di Giuseppe Bracco al conte Michele Amari, il diario di Antonio Beninati.  
I Compilatori hanno evitato di fare un lavoro di erudizione e di critica; non hanno quindi apposto note, riscontri, chiarimenti, per modificare, correggere o commentare il testo: salvo un diario, che, per ragioni che escono fuori dal compito dei sottoscritti, chi lo offerse diede annotato. La raccolta è dunque obbiettiva e impersonale. Intendimento dei sottoscritti, è stato di ascoltare e fare ascoltare, come da un grammofono che le abbia religiosamente conservate, le voci di altro tempo, così come suonarono cinquant'anni addietro, e come allora il pensiero e il sentimento le atteggiarono e modularono. E credono con ciò di avere interpretato il concetto della Sottocommissione."  
Palermo, 27 maggio 1910 


Pagine 475 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online 


Proclamazione dello stato d'assedio dopo l'insurrezione del 4 aprile - Tratto da: Documenti e memorie della rivoluzione siciliana.



Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860: Documenti e memorie della rivoluzione siciliana. A cura di Giuseppe Pitrè, Luigi Natoli, Pipitone Federico. 



"D'altro canto è sembrato alla Commissione che offrire qui tanta e così svariata materia dispersa fra stampe rarissime o in manoscritti fin qui inediti o in raccolte di non piacevole nè facile lettura, sia un buon servizio alla storia e agli studiosi; i quali troveranno in questo volume abbondanti materiali per la storia di quella rivoluzione, senza la quale nè Garibaldi si sarebbe mosso, nè l'Unità Italiana sarebbe divenuta così presto un fatto compiuto.Quanto all'ordinamento, le ragioni di esso appariranno chiare. La prima parte comprende i documenti della rivoluzione, anteriori e posteriori al 4 aprile 1860 e fino al 27 maggio. La seconda, una scelta degli atti della Dittatura, quelli cioè che propriamente riguardano il periodo rivoluzionario, il rinnovamento politico-amministrativo della Sicilia e uomini e fatti della rivoluzione; la terza, più varia, comprende atti della rappresentanza civica, documenti riferibili alle spedizioni, diari del tempo, memorie, poesie, fra cui le memorie storiche di Filippo e Gaetano Borghese, il diario inedito di Enrico Albanese, le lettere di Giuseppe Bracco al conte Michele Amari, il diario di Antonio Beninati.  
I Compilatori hanno evitato di fare un lavoro di erudizione e di critica; non hanno quindi apposto note, riscontri, chiarimenti, per modificare, correggere o commentare il testo: salvo un diario, che, per ragioni che escono fuori dal compito dei sottoscritti, chi lo offerse diede annotato. La raccolta è dunque obbiettiva e impersonale. Intendimento dei sottoscritti, è stato di ascoltare e fare ascoltare, come da un grammofono che le abbia religiosamente conservate, le voci di altro tempo, così come suonarono cinquant'anni addietro, e come allora il pensiero e il sentimento le atteggiarono e modularono. E credono con ciò di avere interpretato il concetto della Sottocommissione."  
Palermo, 27 maggio 1910 

Pagine 475 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online 

mercoledì 8 aprile 2020

G.E. Nuccio: Portano i prigionieri... Tratto da: Picciotti e Garibaldini

“Vengono!” si ripetè Pispisedda trattenendo a mala pena l’affanno che gli faceva sobbalzare il cuore. “Vengono!”.... E la folla bigia avanzava lentamente dietro la banda che irrideva suonando.
E come passava, i birri, che fiancheggiavano la via, sventolavano alti i berretti, unendo il grido di “Viva lu Re!” a quello dei soldati.
Ed eccoli che sbucano in via Toledo, dove urge la ressa dei soldati. Pispisedda si rizza sulle punte dei piedi e guarda attraverso i compagni d’arme, che lo stringono da tutti i lati. Ecco, davanti a tutti, Giovanni Riso, il povero vecchio; e quindi i monaci, legati a due a due, pesti, sanguinanti sul viso, tratti, sospinti da compagni d’arme, da soldati, da birri, ch’hanno sulla faccia un riso sgranato, un riso feroce di belve satolle. Ecco gli altri arrestati delle squadre di don Ciccio Riso, anch’essi pesti nel viso dov’è dipinta una tristezza infinita, una tristezza senza speranza. A tratti, qualcuno d’essi leva lo sguardo sui balconi serrati e sembra chiedere: “Dove sono i fratelli?”.
Pispisedda si lasciava trarre dall’onda dei soldati che saliva; e don Gaetanino gli veniva a lato tremando tutto, il collo affondato, le spalle aguzze, come ghiacciasse per freddo.
Pispisedda guardava in alto; il cielo era cupo ancora, e i balconi e le finestre serrate conferivano alle case un aspetto cupo e dolente. Pareva a Pispisedda di seguir un esercito predone scagliatosi dentro una città morta.
Allo sbocco di via Argenteria il grido: “Alto, chi va là!” della sentinella suscitò urla di “Viva lu Re!”, che correva per l’aria; ma sembrava respinto duramente dai balconi e dalle case serrate. E, come si placava il clamore della banda e delle grida, s’udiva il tonfo dei passi così alto e cupo, che pareva risonato da una fila di tombe scavate nel sottosuolo.
All’alto della via Pannieri il triste corteo sostò, e Pispisedda potè cacciarsi innanzi e scorgere tra i birri un monaco di Sant’Antonino col fucile e la sacca. “Anche lui un taschettaro”. Ma, a un tratto, si sentì soffocare dall’ansima accresciuta. Aveva scorto, tra i taschettari, quel Basile che egli aveva scontrato nella piazza del Carmine a parlare con i due. Dio! E a colui s’eran confidati quelli?! E non aveva appunto quel birro svelato a Maniscalco il segreto dell’ora e del luogo della sommossa?
E Pispisedda fu preso da un furore pazzo e urtò e spinse per lanciarsi su quello e straziarlo a morsi. Ma, come furono giunti di fronte alla chiesa di San Matteo, la folla si fermò di botto, quindi fu rigettata addietro come se la testa della colonna avesse dato di cozzo in un ostacolo, e come se ciascuno, cozzando, fosse mandato di qua e di là. A un tratto anche Pispisedda si trovò sbalestrato sugli scalini della chiesa.
E di là potè guardare ai Quattro Cantoni dove era più viva la ressa, e donde venìa il gridìo più alto.
Ecco che la colonna degli arrestati restava per un poco sola nel bel mezzo della piazza; essendosi spartita in due la colonna dei soldati che la fiancheggiava. Torno torno, ai prigionieri, pullulavano i birri agitando alte le mani. Che volevano? Che urlavano? Pispisedda scorgeva gli arrestati stringersi compatti e formare come un sol corpo, per difendersi dall’ira dei birri urlanti!
Ma sopravvenne una compagnia di soldati dal basso; e passò rapida spingendo avanti Pispisedda, che, in un attimo, si trovò sbacchiato all’angolo del palazzo Di Rudinì nei Quattro Cantoni. Di là nulla vedeva; ma udiva le voci dei soldati che gridavano: “Avanti, avanti!” e gli urli dei birri indemoniati: “Fucilateli! fucilateli qui e poi bruciateli!... Viva lu Re!”.
Allora Pispisedda si raggricciò e ripensò alla fucilazione di Nicolò Garzilli e dei compagni.
Per quello adunque avean fatto largo al gruppo degli arrestati? E il tumulto continuava pazzo; e sul tumulto gli urli rochi dei birri: “Fucilateli! Fucilateli qui!”.
E ci fu un momento in cui imperò su la folla un silenzio tragico. Pispisedda avvinghiato dalla paura folle d’udir le schioppettate che squarciavano i petti degli arrestati, si tappò gli orecchi con le mani frementi e gli parve d’udire l’ululare feroce di mille lupi pronti a scagliarsi.
Ma a un tratto, la folla riprese l’andare, e Pispisedda togliendosi le mani di su gli orecchi udì il grido dei soldati: “Avanti, avanti, al comando di Piazza!”.
Ecco, certamente i soldati aveano vinto sui birri che volean fucilar gli arrestati. E questi andavano, stretti, compatti, come volessero morire insieme, d’un sol colpo.
Pispisedda si provò a proseguire oltre i Quattro Cantoni, ma fu ricacciato addietro e tornò verso piazza Marina. Scontrò don Gaetanino che correva verso giù, a zig-zag, fra la folla, come un canuccio spaurito, e se lo trasse dietro lungo la strada. Gli parea ormai d’avere il cuore spezzato e la gola rotta.
Ancora la via Toledo rigurgitava di soldati e di birri; e gli sbocchi dei vicoli eran chiusi da compagnie con le baionette innastate, e ancora durava quel vocìo incomposto di gente lieta che può cantar vittoria. Passavano, a quando a quando, coppie di soldati recanti or fasci di lance, or di fucili, ora ceste di bombe o di cartucce, e si scambiavan con i soldati fermi agli sbocchi, saluti e motti commentati da sghignazzi alti.
Ma, a un tratto, al vocìo alto successe un mugolare sordo, e, dal basso della via, apparve una siepe fitta di baionette e una folla d’armati. Ma il mugolare sordo si veniva placando, e s’udiva ora il tonfo dei passi e il cigolo delle ruote d’un carro....
Pispisedda si rizzò e travide, oltre la siepe delle baionette, un cavallo, un carretto, e sul carretto un uomo, poi altri uomini seduti o accosciati....
“Iddu è” dicevano “Iddu è! Cicciu Riso!”
“È ancora vivo?” si domandò Pispisedda fremendo.
Come il convoglio s’avvicinava, il silenzio si faceva più alto. Pareva che la sorpresa, la meraviglia, la paura serrasse le gole di quel popolaccio di soldati e di birri, che or ora aveva vociato urli di vittoria. “Carognoni” imprecava Pispisedda, scorgendo tutte quelle facce sbiancate, sulle quali il riso ebete di poco fa s’era già spento. E ora risonava alto il tonfo dei passi e lo zoccolo del cavallo e il cigolìo delle ruote. E i soldati e i birri arretravano verso il muro.
Pispisedda fece un lancio, e vide il primo ferito che aveva negli occhi un atteggiamento di sfida.
“Iddu è!” esclamò il ragazzo. E attese trepidando e guardando a una a una le facce sbiancate dei birri e dei soldati che arretravano sempre più a ridosso dei muri.
E il carro fu a mezzo la via assiepato dai soldati: Pispisedda si cacciò risolutamente avanti e scorse don Ciccio Riso sul piano del carro tra la siepe di baionette, con quel suo sguardo, ardente, fiero, che pareva investisse come ventata di sfida la folla dei venduti.
Per quel giovane, per quel giovane e pochi altri uomini, tutto l’esercito del Re era stato preso da folle paura; per quel giovane e pochi altri uomini avea tuonato laggiù il cannone! Ma quei soldati e quei birri del Borbone scorgevano nello sguardo di Francesco Riso, ancora il grido di sfida che era di tutto il popolo: come se da dietro le imposte di tutte quelle finestre, e di tutti quei balconi serrati scattassero tuttavia gridi altissimi di minaccia.
Un’ondata di contento investì l’anima di Pispisedda, come se Francesco Riso fosse portato non alla morte, ma in trionfo da un popolo non già spaurito, ma vittorioso.
“Uno, due, tre, quattro, cinque!” contò Pispisedda quando passaron gli altri feriti, sui quali si sferrava l’ira compressa dei birri.
Come il convoglio passò del tutto, Pispisedda e don Gaetanino si allontanarono.


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato a Palermo durante la rivoluzione del 1860. La rivoluzione vissuta e narrata dai ragazzini palermitani. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919. Impreziosito dalle illustrazioni dell'epoca di Alberto della Valle. 
Prefazione del dott. Rosario Atria.
Pagine 522 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online

G.E. Nuccio: Il massacro nel convento. Tratto da: Picciotti e Garibaldini.

Ma ecco che sul campanile, la voce della campana che chiamava i cittadini s’è spenta, e nella scala è uno scalpore di gente che scende a precipizio. Pispisedda si muove alfine con uno sforzo grande e scorge al sommo della scala a chiocciola alcuni armati. Avanti a tutti ecco Gaspare Bivona e Filippo Patti che scendono guardinghi, curvi, i fucili nella destra. A mezzo la scala si fermano indecisi, quindi, uno dietro l’altro, piegandosi, s’imbucano per una piccola porticina.... L’ultimo, prima di entrare, guata intorno. “Vanno nel soffitto” dice Pispisedda, e torna indietro, scende, attraversa il corridoio; occhieggia oltre gli usci delle celle. I sette monaci sono tuttavia addossati in un angolo, sgomenti, con gli occhi di traverso sull’uscio donde verrà la morte.... Frate Giovannangelo è anche lui nella sua cella e sta ancora a pregare; ma è sereno ora, come aspettando la morte. E Pispisedda corre ancora verso giù. La campana della porta del convento suona alla disperata e quando tace segue il rombo del cannone e il crepitìo delle fucilate.
E Pispisedda scende a precipizio. Perché? Dove va? Non sa nulla, non ha deciso nulla. Non può star più fermo, altrimenti gli scoppia il cuore. Ecco, gli par di scorgere don Ciccio Riso fatto gigante e combatter da solo con un esercito infinito e uccider soldati a montagne....
E Pispisedda corre ancora, impazzato, alla ventura, senza mèta. Eccolo già al piano terreno; attraversa il corridoio; travede il cortile, la porta mezzo sfondata; e, presso la porta, Francesco Riso attorno ad alcuni morti. Pispisedda avanza istintivamente: Francesco Riso carica a stento il fucile; sta per prender la mira; s’ode uno scroscio! una scarica lo coglie, trempella, arranca con le braccia e si piega su se stesso.
Un urlo altissimo segue la sua caduta e fa arretrare Pispisedda. Ecco, ecco i soldati che dànno addosso alla porta, Pispisedda arretra sempre più.... e la porta sobbalza sotto i colpi, si squarcia e l’orda dei soldati irrompe urlando, nel cortile.
Pispisedda balza come un capriolo, rifà il corridoio, s’imbuca per la porticina segreta, e via per Terrasanta, a lanci come un gatto. Presso la panetteria tumultua un nugolo di soldati, ferendo e bastonando i monaci urlanti e gementi; ma Pispisedda non s’arresta, urta, spinge, balza su uno, due soldati, avventando pugni e morsi, infine taglia il gruppo, e, rapidissimamente, come una saetta, balza fuori attraversando altri gruppi di soldati....
Egli si sentiva ora, nell’animo, uno sfinimento grande, come se morta fosse per sempre la bella speranza ch’egli avea curata giorno per giorno con fervore sempre più acceso. E lo prendeva ora il vivo desiderio di morire. Perchè non s’era fatto uccidere là accanto a Francesco Riso ch’era caduto magnificamente come il più bello e il più glorioso paladino? E Pispisedda chiudeva gli occhi; ma il vento portava fino a lui, laggiù, un crepitìo attenuato, come di fucilate esplose dentro il chiuso.
E il ragazzo abbrividiva; intravedendo, con un tremito spasmodico, l’orda dei soldati scagliatisi come un nembo di procella dentro il convento e dilagar per le scale e per i corridoi e le celle, colpendo con le baionette i monaci genuflessi a pregare e gli insorti appostati presso le soglie o negli angoli.
Non potendo resistere all’angoscia, Pispisedda se ne rivenne verso la Gancia.
Salvatore La Placa, nello stesso momento in cui don Ciccio Riso saliva sul campanile, s’era buttato, con la squadra della Magione, in via Vetriera, per riunirsi a quelli ch’erano dentro Terrasanta; ma trovando la via sbarrata dal capitano Chinnici e dai compagni d’arme, anzichè indietreggiare aveva tentato di sfondar la compagnia. Così era cominciato un attacco. Nello stesso tempo Sebastiano Camarrone e Giuseppe Aglio si erano buttati sotto l’arco piccolo di Santa Teresa attaccando e facendo sbandare una compagnia di soldati. Ma Salvatore La Placa, colpito da una fucilata, s’arrovesciava mezzo morto sull’acciottolato. I compagni d’arme sorretti da nugoli di soldati, avanzavano sempre e quelli delle squadre badavano a tener testa sparando.
Salvatore La Placa era caduto fra due fuochi! Se giungevano i soldati lo finivano a baionettate. Ma tosto uscivano da una casetta alcuni palermitani pietosi e lo sollevavano e lo recavano dentro. Aveva uno squarcio nel petto e il sangue abbondava. Bisognava farlo ristagnare; e quelli spaccavano una gallina viva e la premevano sulla ferita.
- Per questo, quando nella fuga avevo cercato riparo dentro la casetta, mi fecero tirar diritto, dicendo che ci avevano un ferito. Era dunque La Placa il ferito – disse Pispisedda.
Sbucaron nella piazzetta del Cavallo marino e don Gaetanino tacque. Porta Felice era chiusa da una folla di soldati e anche il tratto di via Toledo, che correva da Porta Felice a piazza Marina, ne era zeppo.
E venivano altri cittadini a sorbire il caffè e a gettar rapidamente altre notizie: don Ciccio Riso era caduto col ventre squarciato da tre palle e col ginocchio spezzato. Il birro Ferro, vedendolo cadere, gli avea avventato un colpo di baionetta. Dei compagni di Francesco Riso, il primo a cadere ferito era stato Giuseppe Cordone; sporgendosi oltre la porta di Terrasanta per meglio tirar sulla truppa, una palla gli avea trapassato il collo. Il convento e la chiesa erano stati saccheggiati; feriti i monaci fra David, fra Luigi, fra Giovambattista, fra Venanzio; percossi tutti gli altri e i soldati s’eran bevuto nel convento più vino che avevano potuto e avean fatto man bassa di tutto: arraffando ogni oggetto degli altari, delle celle, della sagrestia e delle cantine; usando delle tonache dei frati come di sacchi.
Pispisedda scattava ad ogni racconto di nuova infamia e, infine, non riuscendo a durarla chiamò don Gaetanino per allontanarsi. 


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato a Palermo durante la rivoluzione del 1860. La rivoluzione vissuta e narrata dai ragazzini palermitani. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919. Impreziosito dalle illustrazioni dell'epoca di Alberto della Valle. 
Prefazione del dott. Rosario Atria.
Pagine 522 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online