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mercoledì 31 maggio 2017

Luigi Natoli: Le squadre dei picciotti siciliani. Tratto da Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Nel 1820 i Palermitani erano soli, e senza capi, e cacciarono le truppe napoletane, che eran cinquemila uomini con cannoni e cavalleria; e nel 1848 erano solissimi, quando costrinsero le truppe regie a lasciare Palermo. Le statistiche dànno che i siciliani combattenti non superarono le due migliaia, e i borbo­nici erano in Palermo, coi rinforzi sopraggiunti dodicimila! E la lotta fra i regi fortificati nelle caserme e nel Castello, e il popolo della città e delle campagne, durò semplicemente ventisei giorni. Per ventisei giorni un popolo, bombardato, combattè; e non posò le armi se non quando l'ultimo dei regi, fuggendogli innanzi, lungo la marina di Solunto, non s'imbarcò. Non so quale altra città d'Italia abbia, fra le sue mura, combattuto ven­tisei giorni! Ma allora, forse, o le squadre e il popolo non si erano sufficientemente addestrati a fuggire, o erano d'accordo coi regi!

E sedici mesi dopo, quando le truppe borboniche, comandate dal Satriano, marciano su Palermo? Ma guar­date un po’ che cosa viene in testa alle squadre citta­dine! Invece di addestrarsi a fuggire, tengono in scacco per tre giorni i Napoletani; e non posan l'armi che per onorevole capitolazione.

E dopo il 4 aprile 1860? Piana, Mezzoiuso, Misil­meri, Alcamo, Partinico, Carini insorgono e mandano squadre sopra Palermo. Queste squadre incominciano una guerra tormentosa, e perfino compiono qualche eroico gesto. Duecento uomini o poco più, nel villaggio di S. Lorenzo, attaccati il 5 aprile da una forte colonna di regi, non soltanto non fuggono, ma fanno indietreg­giare i regi stessi: i quali tornano con cavalleria, e due altre compagnie fresche; perdono trenta uomini, e son costretti a ritirarsi un'altra volta. E di questi episodi ne avvengono a Bagheria, a Lenzitti, dovunque.

Il 21 maggio 1860, alla Neviera, queste squadre, che da oltre un mese vivevano sui monti, dormendo allo sco­perto, bagnati dalla pioggia, soffrendo la fame, sosten­gono l’urto di tre colonne borboniche. Vi perdono la vita, fra gli altri, Rosalino Pilo e Pietro Piediscalzi, ma salvano Garibaldi dall'essere assalito a Renda; ciò che nella migliore ipotesi lo avrebbe costretto a ritirarsi sopra Castrogiovanni; e addio rivoluzione. Questa è storia documentata; ma nondimeno si continuerà a ripe­tere che le squadre nel 1860, per compiacere il signor Guerzoni, il signor Luzio, e compagnia, fuggivano! 

Rendere omaggio a quelli dei Mille che mori­rono o ebbero ferita, è dovere: ma tacere i nomi dei Siciliani caduti, negare anzi che si siano battuti, peg­gio ancora calunniarli, non è soltanto ingiustizia, è viltà.

Ma il torto è però nostro. Dal 4 aprile a tutto il 1860, noi in Sicilia demmo alla causa della libertà e dell'unità centinaia di morti; dei quali non raccogliemmo i nomi, nè si seppe mai chi fossero. I morti dei volon­tari potevano essere identificati agevolmente, con l'aiuto dei registri dell'Intendenza; ma quelli delle squadre, no. Neppure i capi-guerriglia conoscevano i nomi dei loro uomini; quei contadini lasciavano le loro terre, le loro case, le loro famiglie; andavano a ingrossare una squa­dra, combattevano, taciti, senza chiedere altro che il loro pane e le munizioni; morivano avvolti nello stesso silenzio; nessuno domandava chi erano, donde venivano; e i più, la gran maggioranza, restò ignota, anonima, senza postuma gloria, senza compianto, senza onori. Martiri oscuri diedero la vita alla Patria e non conte­sero la gloria a nessuno.




Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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Luigi Natoli: I fratelli De Benedetto. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Erano tutti stati attivissimi nel cospirare e appre­star armi alla rivoluzione, rischiando la vita e contri­buendo largamente del loro patrimonio; Salvatore era stato arrestato poco tempo innanzi; Raffaele e Pasquale eran fuggiti alle ricerche della polizia, e s'erano uniti con Rosalino Pilo; poi avevano raggiunto Garibaldi, e il 27 maggio li trovò nelle prime file. Il 28, Salvatore, uscito con gli altri dal carcere, corse a trovarli, ma Raffaele giaceva per la grave ferita toccata il 27 al ponte dell'Ammiraglio, e soltanto Salvatore e Pasquale poteron prender parte ai combattimenti che si svolge­vano nella città. Ora difendevano con le squadre e coi volontari la barricata del palazzo Carini; Pasquale audace, ferito già da una scheggia, pugnando a petto scoverto, cadeva colpito nuovamente da una palla al fianco; Salvatore, che gli stava di presso, accorso per sostenerlo, aveva da un'altra palla passato il cuore: caddero abbracciati sulla barricata, all'ombra della loro bandiera.

Questa dei De Benedetto fu una famiglia di eroi per nulla inferiore a quella dei Cairoli. Raffaele combattè al ‘48, cospirò nel decennio di preparazione, fu coi fratelli massima parte della rivoluzione del 4 aprile, fu ferito a Palermo, seguì Garibaldi ad Aspromonte, combattè nel Trentino, morì eroicamente a Monte San Giovanni nel 1367, dinanzi a Roma. Salvatore e Pasquale morirono sulle barricate. Anche i due minori fratelli Luigi e Carmelo aiutarono le rivoluzioni, sebbene ancor giovinetti.


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Nella foto: Raffaele De Benedetto (ritratto esposto al Museo di Storia Patria - Palermo)


sabato 27 maggio 2017

Luigi Natoli: le errate interpretazioni degli storici sull'impresa dei Mille a Palermo. Tratto da Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Nella ricorrenza cinquantenaria della rivoluzione siciliana del 1860, il signor Alessandro Luzio, rievocò sul Corriere della Sera di Milano i fasti dell'epopea garibaldina, interrogando vecchie collezioni di giornali, e memorie di coloro che presero parte alla campagna di Sicilia dalla spedizione dei Mille a quella del maggior Corte, che, se non erro, fu l’ultima venuta.

Le sue rievocazioni, non c’è bisogno di dirlo, erano fatte col garbo che il Luzio mette in tutte le cose sue; ma non posso dire con la stessa sicurezza che storica­mente fossero esatte; nè egli crederà certo di aver messo nella giusta luce gli avvenimenti di cui si occupò, pel solo fatto che spigolò dai Mille del Bandi, dalle Memorie di Garibaldi, dagli scritti di Ippolito Nievo, dalle corrispondenze del Times e dell'Allgemeine Zeituna, e infine, dagli storici più o meno orecchianti o impressionisti. Il Luzio, e non s'abbia a male l'egre­gio uomo che io rilevi questa sua manchevolezza, e con lui gli altri scrittori della spedizione garibaldina in Sicilia, hanno il grandissimo torto di non supporre che vi siano in Sicilia archivi pubblici e privati, che contengono documenti, stampe, opuscoli preziosissimi; e che vi siano opere da consultare, le quali potrebbero non soltanto modificare il racconto dei fatti, ma anche molti giudizi; e sfatare leggende nate, non si sa come e perché, o forse si sa pur troppo.


Questi storici hanno anche un altro torto: quello di credere che la spedizione dei Mille sia tutta la rivoluzione siciliana; o che, forse, questa sia scoppiata per virtù di quella. Per cui essi, appena appena si degnano di dare uno sguardo all’episodio del 4 aprile, allo stato insurrezionale durato fino al 27 maggio, alla spedizione di Rosalino Pilo e di Giovanni Corrao; e pare non sospettino neppure che senza questa e quello, né Garibaldi né i Mille sarebbero salpati da Quarto.

Ora a tanti anni di distanza, quando i fatti storici si possono guardare con maggior serenità, e altri documenti son venuti in luce, è bene ristabilire la verità storica, senza esagerazioni, cadute ormai nel dominio dei luoghi comuni, e senza reticenze inutili. E appunto per questo non bisogna fondarsi unicamente sulle testimonianze raccolte da una parte sola: per quanto meritevoli di credito esse vanno riscontrate con altre testimonianze, e saggiate sulla pietra di paragone dei documenti. I Mille che seguirono Garibaldi sono veramente mille eroi, e l’impresa alla quale si accinsero, fu meravigliosa e miracolosa; ma per esser tali non è necessario tacere, travisare e qualche volta calunniare il potentissimo aiuto che direttamente e indirettamente ebbero in Sicilia dai Siciliani; non è necessario tacere l’efficacia risolutiva dello ambiente; giacchè è bene affermarlo ancora una volta e chiaramente, se la spedizione dei Mille non avesse trovato, neppure il solo concorso morale di tutto un popolo in rivoluzione (dico rivoluzione, non ribellione) Garibaldi e i Mille avrebbero incontrato la sorte dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane. Anzi, per rimanere in tema garibaldino, la campagna di Sicilia del 1860, non avrebbe avuto esito diverso della campagna dell’Agro Romano del 1867, che pure si compiè in condizioni numeriche e d’armamento superiori. Vincitori, anche, a Calatafimi, i Mille avreb­bero avuta a Palermo una Mentana assai più disastrosa.



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Luigi Natoli: 21 maggio 1860. La morte di Rosolino Pilo. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Il 21 di maggio, mentre Garibaldi studiava la sua marcia strategica, le squadre di Pilo erano attaccate da tre forti colonne borboniche. I nostri non eran più di trecento cinquanta; i borbonici oltre un migliaio; ed eran padroni di alture. Corrao sosteneva il fuoco; ma il pericolo d'essere soverchiato era imminente; Pilo ac­corso con Calvino, salito, contro il consiglio di Corrao, in alto per vedere le posizioni, riconosciuto il pericolo pensò di rivolgersi a Garibaldi, per aver aiuti: Calvino e Corrao, stavano in basso; e voltavan le spalle al Pilo, che aveva con sè Andrea Soldano, di Lipari.

Veramente, per accorrere in aiuto delle squadre, non era forse necessario domandarlo. Gli avamposti garibaldini si spingevano presso la Boarra, e, oltre la loro estrema punta, a Lenzitti era la squadra di Pietro Piediscalzi, attaccata anch'essa dai regi. Il combatti­mento dunque si svolgeva poco lontano. Nondimeno il Piediscalzi a Lenzitti, Pilo e Corrao alla Niviera furon lasciati soli, senza soccorso, a sostenere il fuoco dei regi, che movevano da Monreale e da Palermo. Era una necessità dolorosa, non un abbandono, badiamo; e la rilevo qui, perchè questo fatto d'arme, nel quale, con altri, lasciarono la vita Pietro Piediscalzi e Rosalino Pilo appaia veramente quello che fu: un olocausto, una immolazione per impedire che il campo garibaldino fosse assalito, e rendere possibile a Garibaldi la sua stra­tegica diversione. Rosalino Pilo fu colpito alla testa, mentre scriveva, in piedi, fra due rocce, appoggiando la carta sulle spalle del Soldano. Alle grida del quale accorsero il Corrao, il Calvino e altri, sollevarono il Pilo boccheggiante, e lo portarono nella casa della Neviera, d'onde poi l'abate Castelli, avvertito, lo fece di sera trasportare nel monastero di S. Martino.

La morte dell'eroe fu avvolta di tristi voci: la ver­sione più ovvia, più naturale, che egli sia stato ucciso da palla borbonica, (non essendo i regi, che eran ben armati, più lontani di 700 metri; ed avendo egli il capo scoperto); questa versione, che consacrava il suo mar­tirio, si è voluta scartare, e si cominciò col l'accusare di averlo ucciso a tradimento Giovanni Corrao, che invece – e risulta da testimonianze, – stava in basso col Calvino e volgendogli le spalle: e l’invereconda e infame accusa contro chi era stato il compagno, il fra­tello di Rosalino, e che pel coraggio leonino, per la fran­chezza, per tutta la sua vita, non avrebbe mai com­messa una viltà, aveva forse il fine partigiano e astioso di offuscare l'eroica figura del fiero popolano repubbli­cano, alla cui lealtà Garibaldi rese omaggio e allora e poi.

Scartata, perchè bugiarda e ignominiosa, l’accusa contro il Corrao, si volle ucciso Rosalino Pilo ora da un Morrealese, or da uno di Capaci, e ora da uno di Carini: per quale insania, io non so; forse, per quelle stesse ragioni che dissero Carlo Mosto, une dei Mille caduto alla fazione di Parco, ucciso da uno di quei terrazzani; quando il Rivalta, che gli era vicino, lo vide morire per mano dei regi! Questa nostra rivoluzione era così incol­pevole, gli entusiasmi le davano tanta purezza, che occorreva forse gittare un'ombra oscura su quelle squa­dre e su quelle popolazioni, che pur davano il loro sangue, agevolavano e salvavano la marcia di Garibaldi.

Con la morte di Pilo finisce l’azione autonoma delle squadre durata dal 5 aprile al 21 maggio: da questo momento esse seguono la fortuna dei Mille, e di loro gli storici non terranno parola, o forse per dileggiarle: dimenticando che senza di esse e senza la rivoluzione i Mille non avrebbero potuto fare un passo, e sarebbero rimasti vittime della loro audacia.

Ma che non dissero gli storici? Uno, più grave perché uso a non affermar nulla senza documentazione, non accolse come verità le fanfaronate di uno dei Mille, che fra le altre cose affermava che Palermo pareva una città di morti, e che i Garibaldini, il 27 maggio erano costretti a snidare i Palermitani “per far fare loro la rivoluzione?”

E di fatto noi abbiamo visto, attraverso i documenti e le testimonianze, che città di morti fosse questa, che avrebbe fatto invidia ai vivi!



Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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mercoledì 24 maggio 2017

Luigi Natoli: Garibaldi incontra le squadre dei "picciotti" siciliani. Tratto da: La rivoluzione siciliana del 1860.


La mattina del 12, ordinate le compagnie, i Mille presero la strada di Salemi. Dopo tredici miglia di marcia in salita, sotto il sole cocente, per strade aperte, bivaccarono a Rampagallo, dove un nipote di Alberto Mistretta, ricco signore di Salemi, venne loro incontro offerendo ristoro alle truppe e ospitalità nella prossima fattoria.
Ivi apparve a Garibaldi la prima squadriglia siciliana, di circa cinquanta uomini armati, condotti dai fratelli Sant’Anna di Alcamo. Altri armati poco dopo si aggregarono ai volontari, onde, riordinando il corpo, Garibaldi formò una nuova compagnia sdoppiando l’ot­tava, e ponendo la nona sotto il comando di Grizziotti.
Istituì inoltre un picciol corpo di artiglieri, che affidò all’Orsini, e una squadra di marinai cannonieri agli or­dini di Salvatore Castiglia. Passata la notte a Rampagallo, all’alba del 13 Garibaldi mosse per Salemi, dove già La Masa e altri liberali siciliani l’avevano preceduto per preparare il paese.
Entrò fra le acclamazioni entu­siastiche della popolazione, lo squillare delle campane, lo sventolio delle bandiere: i Mille v’ebbero calorose ac­coglienze. Impartiti ordini a Turr, provveduto ai volon­tari, Garibaldi passò la giornata a studiare il suo piano e a meglio ordinare il corpo della spedizione.
Nuove squadre giungevano; più forte e migliore delle altre quella di Giuseppe Coppola di Monte San Giuliano, ch’ebbe compagni, giovani di provato patriottismo, i fra­telli La Russa, Vito Spada, Giuseppe Hernandez. Giun­geva ancora, prezioso ausilio, frate Giovanni Pantaleo di Castelvetrano, giovane, non privo di cultura, ardente, enfatico, coraggioso; che non fu soltanto l'Ugo Bassi dei Mille, come lo chiamò Garibaldi, ma anche il Pietro eremita della rivoluzione. Garibaldi intuì tutto il van­taggio che poteva trarre dal frate, e lo spedì a Castel­vetrano per sollevarvi il popolo, mentre La Masa faceva altrettanto a Santa Ninfa e a Partanna. Intanto si co­struivano a Salemi, sotto la direzione dell’Orsini e di Achille Campo gli affusti dei cannoni; si procuravano cavalcature, bestie da soma, carri: si costruivano lance per armare coloro – e non eran pochi – che non avevan fucili.
 
 
 
Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana del 1860 è pubblicata in: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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Luigi Natoli: L'entrata dei Mille a Marsala. Tratto da: La rivoluzione siciliana del 1860



Avviatisi verso la città, sotto la mitraglia innocua dei cannoni borbonici, i Mille entrarono in Marsala verso le quattro del pomeriggio e ne occuparono le porte. Il Pentasuglia ed altri corsero a impadronirsi del telegrafo, che aveva già trasmessa al governo di Palermo notizia dello sbarco avvenuto: e domandandosi da questo più precisi particolari, il Pentasuglia rispose, per l’impiegato, aver preso abbaglio, trattarsi invece di navi cariche di zolfo. Poi ruppe il filo telegrafico. Ma a Palermo inte­sero che la mano del telegrafista non era la stessa, e capirono. Scrisse qualcuno e ripeteron poi gli altri, che a Marsala i Mille non ebbero accoglienze, o quasi ostili: e non è vero. Certo, non furono entusiastiche; perché lo sbarco era inaspettato, perché il cannoneggiamento dei borbonici atterrì e disperse la popolazione, e perché improvvidamente il Sirtori, appena sbarcato, sottopose la città a rigoroso stato d’assedio, riprovato dallo stesso Garibaldi; nondimeno, rassicurato dagli esuli siciliani, il popolo fece liete accoglienze e gentili offerte; e ciò Gari­baldi afferma nelle sue lettere e nelle sue Memorie; consacrò il Turr in un documento ufficiale; Guglielmo Ca­puzzi, dei Mille, in un suo libretto stampato nei primi di giugno del 1860; non senza sdegno, Giacinto Bruzzesi piu volte in suoi scritti, e, testimonianza non sospetta, il capitano inglese Marryatt nella sua relazione all’Am­miraglio Foushawe.
Accantonate le truppe, provveduto alla difesa da possi­bili aggressioni, Garibaldi pubblicò due proclami. Uno, al popolo, e diceva:
 
Siciliani!
Io vi ho guidato una schiera di prodi, accorsi all’eroico grido della Sicilia: resto delle battaglie lombarde. Noi siamo con voi; e non vi chiediamo altro che la liberazione della vostra terra. Tutti uniti, l’opera sarà facile e breve. All’armi dunque; chi non impugnerà un’arma è un codardo, un traditore della patria. Non vale il pretesto della mancanza di armi. Noi avremo fucili, ma per ora un'arma qualunque ci basta impugnata dalla destra di un valoroso. I municipi provvederanno ai bimbi, ai vecchi e alle donne derelitte. All’armi tutti; la Sicilia insegnerà ancora una volta come si libera un paese dagli oppressori con la potente volontà di un popolo unito.
 
GARIBALDI.




Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana del 1860, pubblicata nella raccolta: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. 
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Luigi Natoli: gli esuli siciliani rivedono le coste della Sicilia... - Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860


Elusa la crociera napoletana nel Tirreno, e mutata rotta, l’11 maggio il Piemonte e il Lombardo, filavano verso la Sicilia; e gli esuli Siciliani videro con le lagrime sugli occhi l’antico Erice avvolto fra le nebbie del mattino, faro gigantesco, che sembrava aspettare il ritorno dei figli lontani. Videro le Egadi tra il rosso vapore dell’aurora, e ritti sulle prore salutavano la madre terra, per la cui redenzione venivano a dare la vita. Garibaldi domandò a Salvatore Calvino, che era di Trapani, se conveniva tentare ivi lo sbarco; ne fu dissuaso, e anche dal Turr, che, come si era stabilito in un consiglio con Crispi, Orsini, Castiglia, propen­deva per Marsala. Oltrepassata Favignana, incontrata una paranza comandata da Antonio Strazzera, fattala avvicinare, Garibaldi gli domandò se vi fossero legni da guerra napoletani in quei paraggi, e truppe in Mar­sala: seppe che i legni avevan preso il largo verso Sciacca, e che le truppe eran partite il giorno innanzi: ed allora ordinò che il Piemonte e il Lombardo a tutto vapore facessero rotta sopra Marsala, dove giunsero verso il tocco. Il Piemonte entrò nel porto, ove stavano all’ancora due navi inglesi l’Argus e l’Intrepid; il Lom­bardo arenò. Cominciò subito lo sbarco sulle scialuppe delle due navi e la paranza dello Strazzera, offertasi spontaneamente; altre barche furono obbligate a pre­starsi.
Il corpo dei volontari non era ancor tutto sbarcato, quando apparvero due navi borboniche, lo Stromboli e il Capri, che venivano velocemente; e in breve si col­locarono in posizione di combattimento dinanzi al porto. Ma la presenza delle due navi straniere, e la vista delle tuniche rosse sul molo, che sembrarono uniformi di truppe inglesi, resero dubitosi i comandanti delle navi borboniche; i quali per timor di complicazioni diploma­tiche, mandarono un ufficiale a bordo delle navi bri­tanniche, a chiedere informazioni prima di aprire il fuoco. L’indugio diede tempo al resto dei volontari di sbarcare, disporsi in colonna e marciare verso la città; e quando le navi borboniche tirarono, non fecero altro danno che uccidere un povero cane: sfogarono allora contro le due navi abbandonate; il Lombardo distrussero: il Pie­monte rimorchiarono a Palermo, inutile trofeo della loro imperizia.
Questa nave, che avrebbe dovuto essere conservata, come testimonio di un prodigio, come cosa sacra, fu dall’ Italia risorta mandata poi a Bari a far ufficio di rimorchiatore del cavafango!
 
 
Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana del 1860 fa parte del volume: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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mercoledì 17 maggio 2017

Luigi Natoli: l'intuizione del re Francesco II di Borbone- Tratto da: Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860.


Il 20 aprile, in un proscritto, il re finalmente dà una prima notizia sulla temuta spedizione per la Sicilia di cinque o seicento “ribaldi” a bordo di un vapore inglese, S. Venefredo, capitanati da un “tal Tinconi”. Non è a fidarsi nell’ortografia e nella stampa del libro; che intende dire con quel Tinconi non sappiamo; nessuno tra gli emigrati e tra i compagni di Garibaldi e tra gli esuli ha quel nome o gli si avvicina. Lasciamolo lì, e piuttosto leggiamo più giù: “Dicesi che Garibaldi con un vapore, forse russo, verrà a Messina, e che altri siano costà”; e che a Genova si arruolerebbero “individui da imbarcarsi per Sicilia, da raggiungere Garibaldi”, e per queste ragioni stima urgente stabilire la crociera: per suo incarico il colonnello Severino, suo segretario particolare prescrive al Castelcicala le navi e i limiti assegnati a ciascuna. Sono quattordici, e circondano l’isola.

Il 30 il re dà l’annunzio che Garibaldi “il quale per incanto era sparito, ricompariva di bel nuovo in Genova il giorno 25 del corrente... La mattina del 28 egli era nelle vicinanze di Genova, dove attendeva a radunare rifuggiti ed armi, e con Medici e Bixio, suoi luogotenenti, sollecitava i preparativi d’imbarco”. E continua con altri particolari, fra cui quella che la spedizione, si diceva, invece che in Sicilia fosse diretta sul continente; ma non era vero. “È forza che si raddoppi di attività e di vigilanza”. Da questo momento cominciano le preoccupazioni per lo sbarco di Garibaldi.
Il Castelcicala si affanna ad assicurare il re che le bande sono disperse, non dice che sono distrutte; e il re se ne compiace, ma intanto si preoccupa delle forze per contrastare lo sbarco; e con preveggenza che diremmo profetica gli scrive:
Uno sbarco in Sicilia non sarà inferiore ad un numero di circa 1000 uomini, ed aggiunti a questi degli individui di paesi e contrade, che potrebbero sommuoversi per lo sbarco, e degli individui che potrebbero venire da essi armati nell’atto dello sbarco medesimo di armi, munizioni, ecc. ecc. Delle sparute colonne in un solo battaglione, non potranno certo farvi fronte; e di quale pessimo effetto sarebbe che una colonna di truppe dovesse cedere allo scontro, e, peggio, venisse fatta prigioniera, e trasportata come spettacolo in altri paesi, lascio a voi considerarlo. Epperò debbono sempre preferirsi le riunioni forti di truppe, per così poter agire di accordo con le colonne, che, come voi benissimo pensate, sbarcherebbero nei siti stessi ove i filibustieri mettessero piede a terra, e così trovarsi costoro in mezzo a due fuochi.
Il Castelcicala però opina che lo sbarco avrà luogo ad Agrigento; il re quasi insiste per Salemi e Canicattì, ma poi conclude: “Del resto, voi saprete regolare le cose nel miglior modo, e non ne dubito”.
Il re dunque ebbe la precisa intuizione di quello che sarebbe avvenuto; ma Castelcicala non pare sia persuaso, e non provvede a concentrarsi a Salemi, ma neppure ad Agrigento. Si limita a domandare un battaglione di svizzeri, e poi... poi informa il re che inviava truppe a Catania, che la colonna del generale Primerano non ha finora contribuito al ritorno dell’ordine nei distretti di Termini e di Cefalù; che il maggiore D’Ambrosio aveva fatto il disarmo di duecento persone, e cento altre cose, trascurando la cosa più importante, per cui il re perde la pazienza e scrive che sono quarantuno giorni che, con un consiglio di direttori il luogotenente avrebbe dovuto essere “alla fine della cosa”.
L’11 maggio avviene lo sbarco di Garibaldi a Marsala....


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Luigi Natoli: Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860.


Gli storici che si sono occupati della rivoluzione siciliana del 1860 e della spedizione dei Mille, hanno finora attinto a una sola fonte, hanno cioè pubblicato memorie, diari, opuscoli inediti o editi, rari o malnoti, documenti ufficiali, lettere, quasi tutti di parte liberale; e per la spedizione garibaldina, salvo uno o due libri borbonici, delle lettere, dei diari, degli opuscoli di coloro che ne fecero parte. Ne vennero fuori pubblicazioni, che avevano tutta la parvenza della verità per essere raccontate da un testimone oculare, tuttavia si differenziano l’una dall’altra; e non soltanto nel precisare le ore in cui avvenne questa o quell’altra cosa, quanto nel narrare i fatti. Basta leggere il libro dell’Agrati, che bellamente raccoglie dai vari diaristi e dai vari scrittori di lettere tutte le diversità e le contraddizioni, dinanzi alle quali il lettore non sa a chi credere.

Per esempio, dopo il 4 aprile è vero che la rivoluzione siciliana finì, come affermò Nicola Fabrizi, che non era in Palermo, non era in Sicilia e non poteva vedere coi propri occhi, ma riferiva quello che gli raccontarono gente rifugiata in Malta; o invece perdurò fin quasi nel maggio con gli scontri, come dicono i documenti borbonici? I Mille furono 1089; quanti ne conta l’elenco ufficiale, o 1135, quanti ne conta l’Agrati? E furono accolti bene a Marsala, come dice il Bruzzesi, o quali ostilmente come vuol dire il Bandi? Il piano di battaglia di Calatafimi fu quello lasciato da Turr o quello che si trova nelle carte del Sirtori? I picciotti che entrarono in Palermo il 27 maggio si squagliarono come passeri alle prime schioppettate, come asserisce il Guerzoni, e ripeterono gli altri, o gareggiarono coi Mille, come afferma l’Eber e come appare dai documenti, e indicano i nomi del La Russa, del Lo Squiglio, dell’Inserillo primi a cadere nella gloriosa giornata, di fronte il ponte dell’Ammiraglio? E i Mille attaccarono alle 5 ed entrarono in Palermo alle 6, quando la generale dei borbonici, consta dai documenti, fu sonata alle 4?

La verità è che non s’interrogarono le fonti borboniche; neppure la Cronaca degli avvenimenti di Sicilia, stampata nel 1863, dove in riassunto sono indicati, col richiamo delle lettere ufficiali, i fatti della rivoluzione dal 4 aprile 1860 al marzo del 1861. Non si intese l’altra campana. E spesso questa rettifica ciò che dai narratori di parte liberale viene affermato, o dice il contrario.

C’è una raccolta di documenti, che è di capitale importanza per la storia di quanto avvenne in Sicilia prima della spedizione dei Mille e dopo, e spiega il perché di quella che fu la vera fortuna dei Mille....


Luigi Natoli: Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 è contenuto in: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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giovedì 11 maggio 2017

Luigi Natoli: 05 maggio 1860, la partenza da Quarto. Tratto da: La rivoluzione siciliana del 1860. Narrazione


Fissata la spedizione, la febbre accese tutte le vene. Garibaldi corse a Genova, e fatto chiamare il Fauchè, gerente della Società Rubattino, col quale già fin dal 9 aprile si era inteso, concertò per la cessione dei due piroscafi, il Lombardo e il Piemonte, incaricando Bixio di ogni cosa. Villa Spanola a Quarto diventò il quartiere generale della spedizione. Il Bertani, Crispi, Bixio, si moltiplicavano. Dalla Lombardia, dal Veneto, dalla Liguria; da ogni regione d’Italia accorrevano volontari: i più non superavano il venticinquesimo anno; v’erano dei giovani quindicenni, uno di undici anni; cinque soltanto oltrepassavano i sessanta: la più parte benestanti o impiegati o professionisti; in minor numero, di popolo. Non avevan vestiti uniformi; pochi indossavano camicie rosse; Sirtori e Crispi vestivan di nero con cappello a cilindro, Bixio portava la divisa dell’esercito piemontese; gli altri giacche, giubbe, camiciotti, colori e forme disparate, armi pochissime: e queste, date dal La Farina per le sollecitazioni di Crispi e degli altri esuli, erano un mille fucili e munizioni, che caricati in barche dovevano aspettare i due piroscafi al largo.
Prima di partire Garibaldi scrisse al Bertani, commettendogli di raccogliere aiuti d’uomini e di danari, scrisse anche al Caranti, protestando sé non aver consigliato il moto di Sicilia, ma non poter restare inerte e impassibile alla lotta per la libertà che vi si combatteva. Al Re Vittorio Emanuele indirizzò altra lettera, nella quale pur ripetendo quelle proteste, aggiungeva: “So che io m’impegno in una impresa pericolosa, ma ripongo la mia confidenza in Dio, come nel coraggio e nell’abnegazione dei miei compagni. Il nostro grido di guerra sarà sempre: “Viva l’Unità d’Italia! Viva Vittorio Emanuele nel suo primo e suo più prode soldato”. Se non riusciamo, io spero che l’Italia e l’Europa liberale non dimenticheranno che questa impresa è stata decisa per motivi puri di ogni egoismo e veramente patriottici. Se riusciamo, andrò superbo di ornare la corona di Vittorio Emanuele di questo nuovo e forse più brillante gioiello”.
Indirizzò ancora un proclama ai soldati italiani, rac­comandando la disciplina, ed esortandoli a non abban­donare le file dell’esercito, e a stringersia quel Vit­torio Emanuele, la di cui bravura può essere rallentata un momento da pusillanimi consiglieri, ma che non tarderà molto a condurci tutti a definitiva vittoria”.
Nella notte del 5, i volontari, adunatisi a Quarto, si imbarcarono; eran mille e ottantacinque, compresa una donna, Rosalia Montmasson, moglie e compagna devota e infaticabile di Francesco Crispi: si divisero fra i due vapori: Bixio prese il comando del Lombardo, Garibaldi quello del Piemonte, e in sott’ordine Salvatore Castiglia, palermitano esperto di cose marine, esule pei fatti del ‘48. Prima ancora che albeggiasse, i due vapori salpa­rono l’ancora, e s’avventurarono nell’ignoto infinito; e il cielo accompagnavali col dolce scintillio delle stelle, che parevan tremar di gioia e di orgoglio; e dalla terra i supremi addii dei parenti e degli amici rimasti, non osavan rompere l’alto ed eloquente silenzio: voto, augurio, speranza, compianto e stupore in un tempo.
 
 
 
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Luigi Natoli: Premesse della spedizione di Garibaldi in Sicilia. Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione.


Il 20 aprile giunsero le lettere inviate da Pilo il 12 di aprile agli Orlando, a Bertani, a Crispi e allo stesso Garibaldi, per mezzo del pilota Raffaele Motto.
Il Motto, condotto a Villa Spinola presso Quarto, dove Garibaldi alloggiava, data la lettera al Generale, alle sue domande, rispondeva essere Pilo e Corrao par­titi da Messina per Palermo, sollevando le popolazioni; la rivoluzione essere scoppiata in quelle vicinanze, e aggiungeva: – “Generale, ci vuole il vostro nome e il vostro braccio, altrimenti in Sicilia saranno tutti sacrifi­cati”.
Garibaldi rimase un po’ cogitabondo, poi domandò notizie sulle coste dell’isola, e il Motto suggerì che le migliori condizioni per uno sbarco si sarebbero trovate a Trapani, e questo era anche il parere di Corrao.
Il Generale risolvette allora di non più indugiare; e fissato il giorno della spedizione pel 25 di aprile, il Crispi ne informava subito Rosolino Pilo: ma soprag­giunte altre lettere del Pilo a Garibaldi, che si riserba­vano di indicare il punto preciso dello sbarco, la par­tenza fu rimandata ancora una volta.
Ferveva intanto il lavoro. Crispi, La Masa, il conte Amari andavano da Genova a Torino, da Torino a Milano; conferivano con La Farina, col banchiere Finzi: il La Farina venuto a Genova, era per mezzo del conte Amari e del Marano, altro esule nostro, rappacificato col La Farina, col quale era in discordia. Bixio, convertitosi, s’era fatto fervido cooperatore dell’impresa: la casa del Bertani era divenuta il centro delle operazioni; Genova offriva in quei giorni uno spettacolo singolare, che non poteva sfuggire all’occhio vigile degli agenti bor­bonici, i quali avvertivano il governo di Napoli dei preparativi; anzi talvolta, ingannati o travedendo, davano come avvenuta la spedizione.
Ma ecco, lo stesso giorno (27 aprile) che Crispi scri­veva a Rosolino Pilo, sollecitandolo a mandar le chieste notizie, giungere da Malta il telegramma di Nicola Fabrizi, che raccogliendo dalla voce dei profughi, – forse quelli di Marsala – vaghe notizie dei fatti del 4 aprile, diceva:
“Completo insuccesso nelle provincie e nelle città di Palermo. Molti profughi raccolti dalle navi inglesi giunti a Malta”.  
Questo telegramma disanimò Garibaldi, che addolorato dichiarò impossibile la spedizione e deliberò ritornarsene a Caprera. Né il Crispi, né il La Masa, né gli altri esuli siciliani però perdettero ogni speranza: il La Masa, natura esuberante e un po’ millantatrice, giurò che, essendo pronte le armi, pronti gli uomini e il ba­stimento, avrebbe lui capitanata la spedizione. Ma i membri del Comitato Nazionale, e principalmente il La Farina e l’Amari, dichiararono che non avrebbero dato un soldo, se la spedizione non fosse stata capitanata da Garibaldi.
La notte del 29 giunse un altro telegramma del Fa­brizi, che più esattamente diceva repressa l’insurrezione in Palermo, ma viva ancora nelle provincie: e giunge­vano anche altre lettere e dispacci, che, esagerando forse di proposito, affermavano Pilo a capo di un esercito, e l’isola in fiamme. Questi dispacci e quello di Fabrizi, le lettere di Rosolino Pilo e la risolutezza degli esuli siciliani, la fede e la tenacia di Francesco Crispi e di Giuseppe La Masa, vinsero qualunque altro dubbio nel­l’animo di Garibaldi: e la spedizione, due volte sospesa e rimandata, fu definitivamente decisa. “Partiamo” – egli disse; – purché sia domani”.
Si è esagerata da alcuni la partecipazione del governo piemontese alla spedizione di Garibaldi; da altri si è negata: la verità è che Cavour aveva da prima an­che esso parteggiato per una spedizione nell’isola, nel caso vi fosse scoppiata una rivoluzione; ma voleva farla con truppe regie; e in marzo ne aveva fatto parlare al generale Ribotti, che, per essere stato ai servizi della Sicilia nel 1848, pareva l’uomo acconcio. Ma indi, spaventato dalle conseguenze diplomatiche, non ci pensò altro. Una intesa c’era invece tra Garibaldi e Vittorio Emanuele, al quale Garibaldi aveva chiesto se gli avesse conceduto una brigata di truppe scelte per andare in Sicilia, e ne aveva anche parlato al generale Sacchi antico suo commilitone di Montevideo. Il re sarebbe stato favorevole, ma ne fu dissuaso dal Cavour; il quale, temendo la Francia e possibili complicazioni; non entusiasta di Garibaldi, non fiducioso nel leale concorso di Mazzini; avversario per istinto di razza, per educazione, per ufficio delle rivoluzioni di popolo; pavido che la spedizione, sebbene fatta in nome di Vittorio Emanuele, tendesse a repubblica, si ritrasse; non nascose la sua avversione, e pur non impedendo, come avrebbe potuto, i concerti, gli arruolamenti e tutti i preparativi, fece sequestrare le armi della Società nazionale, che dovevano servire alla liberazione e all’unificazione della patria.
 
 
 
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martedì 9 maggio 2017

Luigi Natoli: Rosalino Pilo e Giovanni Corrao, argonauti della libertà, precursori di Garibaldi. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860


Rosalino Pilo-Goeni, dei conti di Capace, biondo e bello e di gentile aspetto, cuor di leone in gracile petto, cospiratore innanzi al 1848; combattente nella rivoluzione; esule, amico devoto di Mazzini, cooperatore della spedizione di Carlo Pisacane, anelava alla liberazione della Sicilia. Giovanni Corrao, popolano, nerissimo di capelli e di barba, volto tagliente e fiero, incolto, coraggio senza pari, combattente valoroso nel ’48, esule, non era meno ardente per la liberazione della sua terra. E venuto per tentare un moto, arrestato e confinato a Ustica, poi chiuso nella Cittadella di Messina, vi aveva languito fino al 1855. Liberato, ripresa la via dell’esilio, era tornato alle cospirazioni. Palermitani, della stessa fede, s’erano intesi.
Rosalino, per lettere inviate agli amici e per le assicurazioni ricevute, aveva manifestato a Garibaldi il proposito di andare in Sicilia, per capitanare la insurrezione e aprir la via alla spedizione che Garibaldi avrebbe dovuto guidare. Domandava perciò fucili e mezzi. Garibaldi ne lo dissuase, non giudicando maturi i tempi. Nessuno dei suoi amici credeva alla possibilità di un buon successo: non Medici, non Sirtori, non Bixio ancora; soltanto Crispi, Pilo, La Masa, La Farina, gli esuli siciliani tutti. E Pilo si ostinò. Non ebbe le armi che domandava. Ma non importava. Disse a Garibaldi di prepararsi, che egli andava a preparargli il terreno.
Il 26 di marzo egli e Corrao, soli, senz’altre armi che le loro rivoltelle, delle bombe tascabili e pochi fucili, con poco denaro fornito da Mazzini e dagli Orlando, soli col loro coraggio, con la loro fede, pronti al sacrificio, nella paranza di Silvestro Palmarini, pilota Raffaele Motto, argonauti della libertà, salparono da Genova, sebben sconsigliati da Garibaldi. Affrontarono le tempeste del Tirreno; videro la piccola nave lì lì per sommergersi; rischiarono di cadere su le spiagge napoletane; stettero quindici giorni fra cielo e mare con la morte sospesa sopra di loro. Ma si ostinarono a navigare, contro il parere del pilota e dei marinai. Il 10 di aprile sbarcarono alle Grotte presso Messina, dove Rosa Montmasson, moglie di Crispi li aveva preceduti. Non trovarono in Messina la rivoluzione, perchè già le truppe regie avevano avuto il sopravvento. Spedite lettere a Crispi e a Bertani che affidarono al Mosto, nascoste le armi, raccolte notizie, partirono il 12 aprile in pelle­grinaggio di propaganda, non temendo le compagnie d'armi e le colonne mobili e i birri, che la polizia, avver­tita del loro sbarco, avrebbe sguinzagliato sulle loro tracce. A Barcellona un vecchio liberale, pauroso degli ap­parati del Governo, li consigliò di non proseguire, comunicando che la rivoluzione di Palermo era fallita: rispose fieramente il Corrao non esser venuti in Sicilia per ritornare indietro, e che avrebbe preferito consegnar la testa al carnefice, piuttosto che esular novamente: eran venuti per la rivoluzione e l’avrebbero fatta, tanto più che forse in quell'ora Garibaldi si apprestava a venire. Pilo abbracciò commosso il compagno.
 
 
 
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