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lunedì 7 gennaio 2019

Giuseppe Ernesto Nuccio: La fucilazione di Niccolò Garzilli. Tratto da: Picciotti e Garibaldini


In piazza della Fieravecchia, Fedele scontrò Pispisedda e i picciotti. Si scambiarono così, velatamente, le nuove che andavano ormai di bocca in bocca. Pareva che corressero dei fremiti d’attesa febbrile per le vie della città. I picciotti sedettero presso l’icona che è incastrata sul muro del palazzo Trigona. C’erano, sulle scranne, alcuni vecchi scaricatori attorno ad un uomo che parlava con tono dolente della passione e morte di Gesù Cristo.
Fedele che si sentiva fremere l’animo da una tristezza vaga, come al sopravvenire d’una sciagura imminente, si appressò per ascoltare.
Ma, appena se lo vide vicino, l’uomo ammutolì, e anche gli ascoltanti si misero a guatarlo minacciosi.
Pispisedda, che si era accorto della diffidenza suscitata, intervenne:
- Che lo credete taschettaro? È uscito ora ora dalla Vicarìa. Fu arrestato per la luminara; è picciotto di montagna. 
Nessuno degli uomini parlò; ma le rughe si spianarono, e gli sguardi si fecero sereni. E quello ricominciò a narrare:
- Verso la mattina venne nella via Divisi il Commissario ed entrò in tutte le botteghe a ordinare che nessuno chiudesse le porte.
Io mi trovavo nella calzoleria di Beninati, in piazza Spedaletto. “E perchè non si doveva chiudere? Che ragione c’era? Era forse il giovedì santo?” domandavano tutti, affacciandosi ansiosamente alle porte. Ma d’un tratto la terribile nuova passò di bocca in bocca. Nicolò Garzilli e i compagni dovevano essere fucilati! Allora le donne, che erano in mezzo alla via, corsero dentro chiamando e tirandosi dietro i figliuoli. Dopo pochi minuti la via Divisi era deserta; nei balconi la gente s’era affacciata per un poco, poi, dentro, pur essa, chiudendo.
Ma non passò molto tempo e s’udì il tonfo dei passi e il vocìo sommesso d’una folla che si avvicinava.
Io mi sporsi fuori della porta; sulle soglie delle case donne e uomini pallidi, perplessi si affacciavano per guardare. Calavano dalla via Maqueda. In mezzo ai sacerdoti, tra i birri e le truppe, si scòrse un gruppo di uomini col viso coperto da un velo nero. Era Nicolò Garzilli; erano i suoi compagni. Ci si gelò il sangue nelle vene. I cuori si fermarono. Li portavano alla morte, alla fucilazione. Di balcone in balcone, di porta in porta corse un grido di pianto represso e, subito, i balconi, le porte si chiusero tutti, ma gli stessi muri delle case, i balconi, le porte, le strade piangevano. Anche noi chiudemmo. Dentro, al buio, col cuore agghiacciato, udimmo il tonfo dei passi lenti, e pareva che tutta la gente ci pestasse il cuore. Ma il rumore si allontanava, si attutiva, si spengeva. Allora il silenzio fu terribile: l’angoscia ci prese il cuore e lo serrò in una morsa tremenda. Io ch’ero addossato al muro mi piegai a poco a poco, caddi ginocchioni, mi tenni forte le braccia con le mani adunche ficcando le unghie nelle carni; mi feci piccolo piccolo, i gomiti sui ginocchi, il mento sul petto, gli occhi serrati. Aspettavo con uno spasimo atroce i colpi di fucile, che dovevano ammazzar Nicolò Garzilli e i suoi compagni sulle pietre della Fieravecchia. Ma il silenzio continuava più terribile della morte stessa. Niente s’udiva, niente. Come se la vita della terra fosse finita per sempre da cento e cento anni. Nella bottega non si udivano nemmeno i cuori. Io non sentivo più le braccia sotto le unghie, nè i ginocchi sotto i gomiti, nè il petto sotto il mento; non sentivo più il mio cuore stesso. Là mi pareva di essere, là, nella piazza stessa a guardare. Ecco: mettono in fila i condannati, vicino al muro. I sacerdoti si allontanano. Li sorregge soltanto tutto il muro delle case, silenziose come le tombe. Il cannello s’è fatto muto; l’acqua della fontana s’è agghiacciata. Ecco che i soldati s’allontanano, si fermano, imbracciano il fucile, prendono la mira: l’ufficiale leva la spada. Io mi raggriccio, aspetto, aspetto, aspetto, tremando tutto con la casa, con la via, con la terra.
A un tratto fu come se la casa sprofondasse e parve un colpo solo. Ma terribile, che durò infinitamente; come se correndo per tutte le vie della città battesse alle porte ad una ad una, alle finestre ed ai balconi, e, poi, elevandosi, roteasse sul cielo lontano, perchè tutti gli uomini della terra udissero. Io non so per quanto tempo rimasi in quel luogo. Più tardi venni fuori, venni fin qui, e in questa piazza, proprio in quell’angolo, c’era il sangue ancora, ed io mi avvicinai. Attorno alla macchia di sangue c’erano pochi ragazzi e pochi uomini, pochi e cupi. Un ragazzo raccattò un poco di pelle insanguinata, e l’accostò al muro e scavò una fossa e la seppellì senza dir nulla. E noi, intorno a lui, muti, senza piangere. Un altro ragazzo fece una croce piccola con due cannucce e la piantò sulla fossa; e noi intorno a lui muti, con gli occhi asciutti.... senza piangere. Piangevano i muri delle case e piangeva il cielo, invece”.
L’uomo tacque. Tutte le teste erano abbassate, come se ognuno guardasse il Cristo morto in chiesa.
S’udì un singhiozzo represso; allora i volti si levarono irosi e uno disse:
- Non si piange, non si deve piangere più. Ora tocca ad essi.
E un altro disse:
- Forse cominceranno stasera stessa a piangere, se questa immagine sacra che ci sta sopra ci aiuta. 
E il gruppo si sciolse silenzioso.


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1860. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919 con le illustrazioni dell'epoca di Alberto della Valle (1917) Copertina di Niccolò Pizzorno
Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile online e presso le Librerie Feltrinelli.

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