“L'avanguardia
(dei nostri) invece di sorprendere il posto militare del ponte fu ricevuta da
un ben nutrito fuoco non solo di fronte, ma ai fianchi, dalle vicine case: la
qual cosa gettò una certa confusione fra i Picciotti, che non avevano mai fatta
la guerra”.
Una
certa confusione; non dice altro l’Eber che stava a fianco di Garibaldi e di Turr,
e osservava: non fughe, non sparizioni, o altra simil cosa, inventata per
sciocca esaltazione del valore altrui: e della confusione egli, che non ne
risparmia nessuna alle squadre, dà anche la spiegazione. Dimenticò dire, però,
e forse nol seppe allora, che ciò non ostante i picciotti sostennero il primo
fuoco dei regi e che i primi caduti furono precisamente alcuni capi
squadriglia, Rocco La Russa, Pietro Lo Squiglio e Pietro Inserillo.
“Mentre
i trenta o quaranta uomini dell' avanguardia” (quelli di Tukory) – continua l’Eber – “sostenevano il fuoco,
giunse in fretta il primo battaglione dei Cacciatori, e poichè neanche questo
potè espugnare celermente la posizione, vi fu spedito anche il secondo. I
Napoletani all'impeto dei nostri retrocedono: i Picciotti “ (senta, senta anche
questa il Luzio) “i Picciotti si rinfrancano alla voce dei capi e in ispecie
del Generale e affrontano il fuoco che partiva dalla Porta di Termini”. E qui poteva
aggiungere quali altri delle squadre furon feriti, e ricordare per lo meno Raffaele
Di Benedetto: ma non monta.
“....
Oramai era necessario che tutte le forze di Garibaldi entrassero nella città,
a fine di evitare d'esser aggrediti alle spalle dai regi che stavano al piano
dei Porrazzi. Per ovviare a tale pericolo fu dato ordine che alcune delle bande
si appostassero dietro i muri dei giardini.... Queste diversioni e forse anche
la ripugnanza a combattere in aperta campagna, furono bastevoli a far fronte al
pericolo....; finchè la maggior parte degli uomini delle squadre furono dentro.
Nel tempo stesso fu innalzata una barricata per guardarsi le spalle; il che
piacque tanto ai Picciotti che ne vollero fare un'altra di rimpetto.... Onde
animare i Picciotti, un carabiniere genovese prese quattro o cinque seggiole,
vi piantò sopra una bandiera tricolore e vi sedette tranquillamente per
qualche tempo. L'esempio fece meraviglioso effetto e i Picciotti furono visti
fermarsi nello stradale, intrepidamente, scaricando i fucili”.
Come
mai il Luzio non lesse questo racconto dell'Eber? O forse perchè mandava
all'aria un altro pezzo della verità pura e semplice del Nievo, si consigliò di
sopprimerlo? Ma poichè nè egli lesse tutto Eber, nè questi, e con lui gli altri
storici, approfondirono le loro ricerche, racconterò io alcuni altri
particolari, che attingo alla narrazione del Mastricchi (130) e a documenti.
La
prima compagnia che passò il ponte fu quella di Carini, della quale facevano
parte Alessandro Ciaccio, Giuseppe Campo e Giuseppe Bracco-Amari, mandata
avanti con fra Pantaleo, perchè essendovi molti siciliani, potevan meglio
riordinare e guidare i Picciotti. I quali vergognandosi di quell'istante
d'incertezza, seguirono e si confusero coi volontari, ed entrarono con loro in
città. E questo dice anche l'Abba.
Uno dei primi ad entrare
fu Leopoldo Mondino, come risulta da documenti del 1860, firmati dal Cenni.
Dopo
Nullo, che a cavallo, d'un balzo, attraversò il crocicchio di Porta di Termini,
passò Luigi Bavin Pugliesi, che piantò la bandiera sulla barricata di Porta di
Termini, dopo di lui, Pasquale Mastricchi.
Chi
fu mandato pei giardini per proteggere alla sinistra i volontari, fu l'abate
Rotolo, con la squadra dei Lercaresi, il quale costrinse la
cavalleria appostata nella strada del Secco, a fuggire: a destra fu mandato Vincenzo
Fuxa, alla testa di altre squadre, che attraversati gli orti, si gittò nella
Villa Giulia, donde superando lo stradone di S. Antonino, ora Via Lincoln,
spazzato dalla mitraglia, entrò in città dalla porta Reale, quasi nel tempo
stesso che Garibaldi entrava da Porta di Termini.
Queste
non sono lettere inviate ad alcuna Bice, sono storia, testimoniata dall'Eber;
suffragata dai documenti, dinanzi alla quale le allegre bravate del Nievo, e
quella “verità pura e semplice”, e quelle squadre “addestrate più a fuggire,
che a combattere” non fanno far certo una bella figura a chi le ha inventate.
Povere squadre, le quali per sessantacinque giorni osteggiarono i borbonici;
combatterono tre dì per le strade di Palermo; lasciarono centinaia di morti
sparsi e sui monti e tra le barricate, ignoti, umili, silenziosi, per non aver
altra ricompensa che la calunnia e il dispregio da coloro stessi che, via! pur
si avvantaggiarono dei loro sangue!
Oh
no, questo non è generoso, non è bello, e sopratutto non è giusto; e
il Luzio ripubblicando e dando valore di storia alla sciagurata lettera
del Nievo, ha, creda pure, diminuito la gentilezza di cui coloravamo la figura
del poeta soldato. Con un po' di prudenza e con maggior serenità egli ci
avrebbe risparmiata la pena di vedere in uno dei gloriosi compagni di
Garibaldi, in uno di coloro al cui petto Palermo con fraterna riconoscenza
apponeva il simbolo tricuspide della Sicilia, qualcosa tra il Lelio goldoniano
e il Miles plautino.
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