Io non mi sarei tanto indugiato a raccogliere prove e
testimonianze, e a ristabilire la verità storica, se si fosse trattato di uno
scrittorello insignificante; ma poichè le antiche e stolide accuse, spiegabili
in tempi di passioni e di gelosie, nei quali pareva non poter affermare i
propri meriti verso la Patria, se non avvilendo gli altri (prova ne sia la
guerra invereconda di cui fu vittima Giuseppe La Masa) poichè, dico, queste
accuse, vengono sempre rimesse in giro, dopo tanto tempo, e tanto lume di
critica, e da uomini che, in fatto di storia, sono tenuti meritatamente
autorevoli, era doveroso ribatterle.
L' ho
fatto con serenità; e, più che servirmi di storici moderni, facendo riudire le
voci di quelli che furon testimoni dei fatti, e che il Luzio stesso cita. Se
avessi voluto, avrei potuto moltiplicare queste voci; e avrei potuto
raccogliere nuove e più dolorose prove di malevoglienze e di ingiurie e di
falsità; avrei anche potuto ribattere
ingiurie con ingiurie. Ma nè io, nè alcuno degli scrittori siciliani pensarono mai di rilevare gli atti di viltà che
fecero giudicare diciannove dei volontari salpati da Quarto, indegni di fregiarsi della medaglia commemorativa.
Nè le colpe di costoro, nè la fuga di qualche capitano a bordo di una nave
francese, generalizzammo a danno e scherno di
tutti; come per la istantanea confusione di pochi picciotti inesperti di
guerra, fecero contro tutte le squadriglie, anzi contro tutto il contributo di
forze dato dalla Sicilia alla campagna del 1860, alcuni scrittori del
continente.
L'opera delle squadre, le condizioni di Palermo, i fattori
del successo, la parte presa dalla città all'alba del 27 maggio, ho già dimostrata. Potrei qui continuare narrando quel che il popolo di Palermo e le squadre fecero
in tre giorni di combattimento; e far sapere, a chi
non lo sa, o ricordarlo a chi l’ha dimenticato, che tutti gli episodi svoltisi
nei vari punti della città, e nei quali i narratori non videro che solamente i
legionari di Garibaldi, ebbero il concorso eroico del braccio e del cuore
siciliano.
I
legionari da soli non avrebbero potuto far nulla. Scrive sul proposito l’Eber:
“La città
era troppo grande e i guerrieri che dalla penisola condusse Garibaldi, sono
troppo pochi per mandarsi in tutti i punti,
e la loro vita è troppo preziosa per esporla, tranne nei momenti di assoluto
bisogno. Per la qual cosa sono gli insorti quelli che formano il grosso dei
combattenti nella più parte dei luoghi”.
E appresso:
“I giovani Siciliani sembra che provino un gran diletto
nello snidare i soldati dalle loro posizioni e lo facevano con una ostinazione di volontà tale da mostrare
un talento per la tattica; giovandosi d'ogni destro per girarli e prendere alle
spalle le loro posizioni”.
Non vi
era un piano prestabilito di attacchi; questi erano suggeriti dal bisogno. Si
sapeva di dover respingere i regi, e tenerli lontani dal quartier generale di
Garibaldi; si sapeva che bisognava espugnare il Palazzo Reale, sede del nemico.
La necessità e l’importanza di questa espugnazione era nella tradizione
rivoluzionaria di Palermo. Dal 1647 in poi, tutte le rivoluzioni ebbero questo
obbiettivo principale: impadronirsi del Palazzo Reale. Così si fece al 1820,
così al 1848; così bisognava fare al 1860; e così tentossi anche nella infausta
sommossa del 1866...
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