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mercoledì 20 dicembre 2023

Giovanni Raffaele: Francesco Bentivegna e l'insurrezione in Sicilia del 1856. Tratto da: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni. Un periodo di cronaca contemporanea

Francesco Bentivegna nacque l’anno 1819 in Corleone da onesti e ricchi genitori. Sulle prime, nel collegio de’ padri Gesuiti in Palermo, si ebbe una educazione qual si conveniva alla sua condizione sociale: poi le matematiche, gli studi di agricoltura e di poesia, furono le sue occupazioni predilette. 
Liberale di principii, onesto e caritatevole, fu sempre amato e rispettato dai suoi concittadini. 
Esercitando su di essi grande influenza, ebbe egli una gran parte negli avvenimenti politici del 1848: e quando si apriva il 25 marzo il Parlamento Siciliano in Palermo, egli fu spedito deputato per rappresentare la sua patria. 
Verso la metà del 1849, ristaurato il governo di Ferdinando II, il Bentivegna ritornava in patria ai suoi studii ed alla pratica agraria in apparenza, ma in realtà non pensava e non agiva, che per riacquistare la libertà. Cospirò giorno e notte; travestito percorse più volte la maggior parte dei paesi di Sicilia, ed il fece con tanto senno e circospezione che la polizia o non mai ne ebbe sentore, o se qualche volta credette averlo sorpreso, ed arbitrariamente lo avesse arrestato, mai potè riunire tali elementi di prova da farlo condannare; talchè, dopo averlo fatto languire per qualche anno in carcere durissimo, finalmente era costretta a rimetterlo in libertà, e lo mandava a domicilio forzoso in Corleone. 
Ma queste persecuzioni e sevizie non solo non rallentarono in Bentivegna l’amore della libertà, che anzi maggior fuoco accendevano nell’animo suo, rendendolo all’istesso tempo più ardente e più cauto. 
Il governo di Napoli, cui il principe di Satriano, (che gli avea riconquistato la Sicilia) malgrado il sangue che egli fece spargere il 27 gennaro 1850, sembrava troppo umanitario e liberale e lo pose al ritiro, il governo di Napoli, io dico, colle sue iniquità e col sistema inflessibile di espoliazione aiutò più che ogni altro il Bentivegna nella sua impresa. Difatti dopo sette anni appena, la Sicilia potea dirsi matura e pronta ad un’altra rivoluzione, la quale se non si compì, fu per ostacoli naturali non per abilità del governo.
Eludendo ogni vigilanza della polizia, in novembre il Bentivegna percorse per l’ultima volta tutte le Comuni di Sicilia che doveano rispondere allo appello, e coi capi dei Comitati stabiliva d’inalberare la bandiera tricolore, contemporaneamente il 12 gennaro 1857 come anniversario della rivoluzione del 1848; menochè circostanze imprevedute non obbligassero di ritardare, o accelerare il movimento. Egli il 16 novembre fu in Palermo, domicilio inibitogli dalla polizia, la quale ne ebbe sospetto e lo cercò; ma non giunse ad arrestarlo, e fu giocoforza contentarsi di accrescere la sorveglianza, e di sospendere l’Ispettore di Corleone sig. Petini cui sin allora era stata affidata.
A vista dell’imminente pericolo di essere scoperto ed arrestato, il Bentivegna giudicò non potere più oltre differire il cominciamento dell’opera sua, per cui sabato 22 novembre alle ore 8 della sera, aiutato dal cavaliere Dimarco, da’ fratelli Figlia, e Romano zio e nipote, ricchi proprietari, inalberò la bandiera tricolore ed alla testa di 300 persone armate entrò in Mezzojuso. L’indomani domenica 23 tutte le Comuni ove Bentivegna potè far giungere la notizia della inaugurata rivoluzione risposero allo appello, e così il vessillo tricolore si vide sventolare a Villafrate, a Bocina, a Ventimiglia, a Mezzojuso, e poi a Cefalù, a Roccella e Collesano.
Ma da un canto, la prontezza con cui, mercè i mezzi de’ quali il governo disponea, potè far giungere le sue truppe su i luoghi dell’insurrezione; dall’altro lato, le piogge dirotte e prolungate che ingrossando i fiumi li rendeano impraticabili e impedivano che le notizie si comunicassero ai paesi più lontani e che la rivoluzione rapidamente si diffondesse, furon causa che la rivolta si arrestasse sul suo nascere. Nei paesi lontani e pronti ad insorgere, la notizia che la rivoluzione era stata compressa, arrivò prima che si sapesse di essere stata inaugurata.
La banda Bentivegna così si sciolse spontaneamente, e lo stesso avvenne delle altre di Cefalù, e di Roccella. Le truppe entravano in Mezzojuso il dì 24 novembre, e qualche giorno appresso a Cefalù, e con essi birri, ispettori e commissari di polizia. 
Alcuni individui delle disciolte bande si presentarono spontaneamente, o per dir meglio per le sevizie della polizia che esercitava sui padri e sulle madri, sui figli, sulle figlie e sulle sorelle dei profughi. Sono di questo numero Guarnieri, Dimarco, Guggino. Di molti altri non si ha notizia, specialmente di Civello da Roccella, di Spinuzza, e di due fratelli Botta da Cefalù. Le sevizie usate dalla polizia alle sorelle di questi tre ultimi sono rimaste senza risultato.
La sorella del primo, da molti anni maritata in Grattieri, e che non avea alcun rapporto col fratello, gravida di sei mesi, messa a cavallo di un mulo fu condotta nel carcere di Cefalù, ove abortì soffrendo grave emorragia che la ridusse all’orlo del sepolcro; eppure restò sempre, ed è tutt’ora nel carcere di Cefalù. Le due sorelle de’ signori Botta, e con esse altre 64 persone, sono state condotte da Cefalù nella Vicaria di Palermo che ribocca di arrestati per questa occasione. 
In fine altri profughi sono stati arrestati dalla forza armata, ma tutti senza armi, lontani dal luogo dell’insurrezione.


Giovanni Raffaele: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni. Un periodo di cronaca contemporanea. 
Pagine 106 - Prezzo di copertina € 11,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
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