Non ostante i decreti e
la bolla pontificia, la Carboneria riprese più segretamente i suoi lavori.
Nell’agosto del 1821 si costituirono in Palermo trenta Vendite, che annodate
relazioni con quelle delle altre città principali, formarono due dicasteri a capo
dei quali elessero presidente Salvatore
Meccio, causidico. Un prete, Bonaventura Calabrò, compose il piano di
insurrezione. Per mezzo di un certo Giglio, barbiere, la polizia seppe dei
Carbonari e il piano della rivolta. Il Direttore generale di polizia, il
Cardinale e il principe di Cutò fecero allora, la notte del 20, arrestare i
carbonari denunziati; il Meccio e pochi altri si salvarono con la fuga.
Istituita la Corte Marziale, e fatto il processo, il 9 gennaio fu pronunziata
la sentenza: i sacerdoti Giuseppe La Villa
e Bonaventura Calabrò, il dottore Pietro Minnelli, il furiere Giuseppe Candia, Natale Seidita, Antonio Pilaggio, Giuseppe Lo Verde, Salvatore Martinez
e Michele Teresi furono condannati a
morte, e fucilati il 31. La fucilazione fu orrenda e atroce; perché ne furono
incaricati i Veterani, maldestri, che dovettero sparare più volte su quegli
infelici, straziandone l’agonia. Il Lo Verde prima di morire scrisse in carcere
cinque sonetti. Aveva vent’anni e il cuore pieno di sogni.
Fu posta una taglia sul
Meccio, che s’era nascosto nelle campagne di Palermo, dove stette fino al 16
settembre, quando per desiderio di rivedere la famiglia venne in città, e cadde
nelle mani della polizia. La stessa notte fu giudicato e condannato, e perché
non si ripetessero gli orrori della passata fucilazione, fu mandato sotto la mannaia.
Il processo contro gli altri arrestati continuò fino all’aprile del 1823 e si
chiuse con la condanna ai ferri dei cospiratori.
Continuarono le denunzie
a Messina e altrove, e gli arresti e le condanne a morte per denunzia; fra gli
altri morirono il dottor Girolamo
Torregrossa e Giuseppe Sessa,
nel 1824.
Il 4 gennaio del 1825
morì improvvisamente Ferdinando I, di sessantaquattro anni, dopo circa sessanta
di regno fortunoso, e non lasciò rimpianti. Gli successe Francesco che regnava
di fatto: malaticcio, ipocrita, astuto, reazionario più del padre.
Il suo breve regno fu
agitato dai tentativi dei Carbonari in Napoli e in Sicilia, di uno dei quali
rimase vittima Gaetano Abela,
vecchio carbonaro, vecchio cospiratore, entusiasta e sincero, ma più sognatore
che altro: il quale, fu fucilato dentro il Castello di Palermo il 30 dicembre
1826. In Favignana fu scoperta tra i deportati una Vendita che voleva “uccidere
i nemici della patria e gli oppressori d’Italia”.
Il 21 settembre 1830 il
Re moriva, funestato da deliri. Aveva un certo ingegno e si dilettava di studi
fisici e d’agricoltura. In Palermo, quando era ancora principe, aveva fondato
un podere modello con allevamenti nella contrada di Boccadifalco. Aveva
accarezzato i liberali, ma poi li aveva abbandonati.
Lo stesso anno, nel
febbraio, era morto stoicamente di fame il principe
di Castelnuovo, vissuto solitario e sdegnoso dopo la soppressione del
Parlamento. Non avendo figli, lasciò il patrimonio per la fondazione di un
istituto agrario, e un forte legato a chi avrebbe ridato la costituzione alla
Sicilia; ma questo legato, come contrario alle leggi del regno, fu soppresso
dal Re.
A Francesco I successe
il figlio Ferdinando, ventenne, il quale lo stesso giorno 8 novembre pubblicò
un proclama ai sudditi, che suscitò speranze. Il primo anno del suo regno
avvenne l’ultimo tentativo carbonaro, senza preparazione e senza successo.
Domenico Di Marco, impiegato, di famiglia popolana, aveva col
fratello Giovanni designato di
insorgere; trovati animosi seguaci, stabilì la sollevazione per la notte del 1
settembre, al suono delle campane che commemoravano il terremoto del 1693. Ma, ingannati dallo scampanio d’una
cerimonia religiosa in altra chiesa vicina, anticiparono l’ora; e dal luogo ove
si erano raccolti, i sollevati entrarono in Palermo gridando: Viva la Costituzione! Respinta una pattuglia, ucciso un dottore e
un birro, non seguiti dalla popolazione, assaliti dalle forze maggiori, si
dispersero per la campagna. Messa a prezzo la testa del Di Marco, e data la
caccia ai fuggiaschi, in meno d’un mese furono presi; ventuno vennero
condannati ai ferri, undici alla fucilazione. Il 24 ottobre caddero sotto il
piombo: Domenico Di Marco, Salvatore
Sarzana, Giuseppe Maniscalco, Paolo Baluccheri, Giambattista Vitale, Vincenzo
Ballotta, Ignazio Rizzo, Francesco Scarpinato, Filippo Quattrocchi, Gaetano
Remondini e Girolamo Cardella.
Questo moto generoso
quanto sconsigliato non ebbe alcun legame con quelli della Romagna dello stesso
anno. Il Di Marco fu un illuso, ma l’aver immolato la vita per la libertà fa
sacro il suo nome e quello dei suoi compagni di sacrificio.
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
Premessa storica alla raccolta di scritti tratta da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo di Luigi Natoli. Ed. Ciuni anno 1935.
Nella foto: Coccarda carbonara, esposta al Museo di Storia Patria di Palermo.
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