Bisogna prima di tutto fissare i termini
del conflitto fra la Sicilia e Napoli. La Sicilia non fu mai, come davano a
intendere i napoletani, una dipendenza da Napoli: quegli storici – e anche i
maggiori – che parlano di un “regno di Napoli, o peggio delle due Sicilie”
innanzi al 1815, dicono uno sproposito madornale. Sino al 1282 vi fu un “regno
di Sicilia con capitale Palermo”, cui erano annessi il ducato delle Puglie e il
principato di Capua con Napoli; dal 1282 in poi vi furono due regni distinti,
quello della Sicilia propriamente detta, e quello che si disse comunemente di
Napoli e che ufficialmente quei re continuavano a chiamare regno di Sicilia.
Quello di Sicilia si governava con una costituzione che temperava il potere del
re e con un Parlamento che toglieva al Sovrano molte prerogative; quello di
Napoli, no. Questo Parlamento, per quanto imperfetto, era il vanto e la
salvaguardia del regno; anche Carlo V lo rispettò; e quando Carlo III, rendendo
indipendenti dallo straniero i due regni, ne cinse le corone, non toccò
l’ordinamento particolare di ognuno di essi: ebbero comune soltanto il sovrano.
La Sicilia aveva propria bandiera, propria monetazione, propria armata, proprie
milizie. Tollerava soltanto guarnigioni non siciliane nei castelli regi. Ebbe
anche propri ambasciatori. Ferdinando III di Sicilia e IV di Napoli rispettò
questo stato di cose; e se ne giovò due volte, quando, cacciato da Napoli, potè
in grazia della Sicilia rimanere re. Durante la seconda dimora, sorti conflitti
fra lui e il parlamento, e ricorrendo egli a violenze, che potevano
compromettere la tranquillità dell’isola, necessaria agli Inglesi come base di
operazioni contro Napoleone, si volle rimodernare la costituzione siciliana,
modellandola, per suggerimento di lord Bentink, su quella inglese. La
costituzione del 1812, che ai vecchi tre bracci sostituiva le due camere, fu il
primo statuto liberale apparso in Italia. Il re giurò di osservarla. Essa
riconsacrava l’indipendenza e le libere istituzioni della Sicilia. Il nuovo
parlamento, sebbene insidiato, esercitò il suo ufficio, fino al 1816, quando fu
prorogato, non sciolto, né abolito. Ma in quell’anno, di sorpresa avveniva un
fatto nuovo: il congresso di Vienna, dove, come sarebbe stato doveroso, non fu
mandato nessun rappresentante della Sicilia, riconfermava semplicemente il
Borbone re delle due Sicilie, senza nulla toccare della loro costituzione; il
che implicitamente riconosceva l’indipendenza e le libere istituzioni
dell’isola; ma il principe di Castelcicala, rappresentante di Ferdinando,
tradusse liberamente la dizione del testo francese in quest’altra: “re del
Regno delle due Sicilie”; e con questa infedeltà, pagata centocinquanta mila
ducati, annunciata dal R. Decreto dell’8 dicembre 1816, seguito da quello
dell’11, si sopprimeva di fatto, non in diritto, la indipendenza della Sicilia;
si istituiva un nuovo regno, unico, e il re prendeva titolo di Ferdinando I. Il
parlamento siciliano ancora vigente non fu interpellato; la Sicilia regno
indipendente, diventava di colpo “dominio di là dal Faro”. Il re dimenticava il
giuramento fatto di rispettare la costituzione; dimenticava il suo discorso con
cui inaugurava la sessione del parlamento, il 25 gennaio 1812, col quale non
soltanto si ergeva a difensore delle istituzioni politiche della Sicilia, ma
incoraggiava i Siciliani a conservare il “prezioso retaggio” e “a costo di
qualunque personale pericolo” conservarlo “ai loro successori”.
I Siciliani non si acquetarono al
tradimento e allo spergiuro. Cospirarono nelle Vendite Carboniche per
riprendere “il prezioso retaggio, a costo di qualunque personale pericolo” come
lo stesso re li aveva facultati...
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
Pagine 525 - Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15%
Nessun commento:
Posta un commento