Ambientato nel contesto della rivoluzione del 14 luglio 1820, Luigi Natoli scrive: Braccio di Ferro, avventure di un carbonaro.
Attraverso il protagonista, Tullio Spada, miniaturista che per caso diviene un affiliato della Carboneria e in seguito fervente patriota:
“Io Tullio Spada, giuro
e prometto sotto gli stabilimenti dell’ordine in generale e su questo ferro
punitore degli spergiuri, di custodire scrupolosamente il segreto della
rispettabile Carboneria; di non scrivere, incidere o dipingere cosa alcuna appartenente
alla Carboneria, senza averne ottenuto il permesso in iscritto. Giuro di
soccorrere i Buoni Cugini Carbonari in caso di bisogno, e di non tentare l’onore
delle loro famiglie. E se divento spergiuro, consento che il mio corpo sia
fatto a pezzi, bruciato, e le mie ceneri sparse al vento, affinchè il mio nome
serva di esempio a tutti i Buoni Cugini sparsi sulla terra. Così Dio mi aiuti”.
il lettore rivive la storia delle Vendite Carbonare da Palermo a Napoli: Io ho preso parte agli avvenimenti del 1799. Ero Guardia Nazionale della
Repubblica partenopea ed ho conosciuto Mario Pagano, Domenico Cirillo, Gabriele
Manthonè; tutti quegli uomini maravigliosi. Li ho conosciuti e seguiti… li ho
veduti morire sulle forche, vittime del loro amore per la libertà! Ho militato
sotto Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat; sono rimasto vivo per puro
miracolo al passaggio della Beresina… Da tre anni cospiro; son fra i più
antichi carbonari del regno; posso dunque parlarvi con esperienza.
a Genova, a Torino dove il lettore potrà ascoltare il conte Santorre Santarosa: Tutto è pronto; le nostre Vendite sono già in piena relazione e concordia di lavoro: i Federali, i Liberi Muratori sono con noi; ad Alessandria quasi tutto il presidio è nostro, Genova è pronta; a Torino possiamo contare su parecchi reggimenti; ma al primo segno il principe di Carignano che è gran maestro dell’artiglieria, si terrà in nostro aiuto; la Cittadella sarà, in nostro potere; la rivoluzione si compirà, nel Piemonte, senza spargimento di sangue. Il re, dal voto unanime dell’esercito e delle popolazioni sarà costretto a promulgare la costituzione; e allora il principe di Carignano passerà il Ticino alla testa delle nostre forze, per la libertà e per la gloria d’Italia. Affrettiamoci dunque, e Iddio aiuterà i nostri sforzi.
... combatte a Vercelli:
Non era ancor l’alba
dell’8 aprile, e una colonna di soldati, in due ali, marciava lungo i margini
della strada di Vercelli, dove si erano concentrate le milizie. Erano quasi
tutti giovani: avevano attraversato Chivasso, Crescentino, Trino; entravano ora
a Lavezzate, piccolo borgo quasi alle porte di Vercelli.
L’aria era fredda; il
vento aveva spazzato le nubi, le stelle scintillavano nell’umidore del cielo, e
accendevano piccole fiammelle nell’acqua dei canali. Marciavano avvolti in
pastrani, mantelli, cappotti, d’ogni forma, da borghesi e da militari; da fanti
e da cavalleggeri. Di uguale avevan soltanto gli alti kepy dal fondo largo e
piatto. Con le mani coperte di grossi guanti tenevan su le spalle il fucile con
la baionetta inastata, che mandavano a quando, nella notte, rapidi e tenui
balenìi.
Innanzi, i piccoli
tamburini, col tamburo dietro le spalle: dopo di loro il comandante a cavallo,
tutto nero lui ed il cavallo.
A intervalli, lungo la
colonna, lampioncini accesi penduli dalle baionette ondeggiavano al passo e
facevan balzar la luce di qua e di là su le teste dei soldati. Andavano un po’
in disordine, come gente non ancora usata alla disciplina; i più ciarlavano; molti
fumavano; qualcuno canticchiava. V’era invece chi taceva, a capo basso,
pensieroso. Gli ufficiali camminavano fra le due ali della colonna, con la
sciabola sotto il braccio. Accanto a uno di loro, l’alfiere portava su la
spalla la bandiera chiusa in una busta di tela. Dai lontani casolari, al
confuso rombo dei passi, levavansi dei latrati di cani, altri cani rispondevano
più lontani ancora, come per darsi la voce.
La colonna marciava.
Oltre la Sesia distendevasi la linea del nemico; era giunta notizia che gli
Austriaci, quella stessa notte, unitisi con le truppe piemontesi rimaste fedeli
al re, invadevano il regno. Le milizie costituzionali tentavano uno sforzo supremo,
non già per la speranza di vincere, ma per salvare almeno l’onore.
Vincere, no, non si
poteva; perché la causa della rivoluzione era perduta. Quella non era stata una
rivoluzione di popolo, ma di signori e di borghesi. Il popolo non aveva ancora
capito quello che volevano, e li aveva lasciati soli.
Quella colonna, che si
avviava a combattere, senza speranza, sapeva di andare a un doveroso
sacrificio.
Era formata di giovani
volontari, un battaglione era tutto di studenti torinesi e pavesi, nuovi alle
armi, salvo gli ufficiali. E Tullio si trovava nella prima compagnia di questo
battaglione, da semplice milite; sebbene non fosse studente, l’aver preso parte
alla difesa dell’Università il 12 di gennaio, e l’essere amico di molti
studenti, l’aveva fatto accogliere volentieri in quelle file; e poi vi erano
tre suoi amici Cecconi, Poggiolini, Iosto, che egli non aveva voluto lasciare
soli nel cimento.
...e torna nuovamente a Palermo, quando i movimenti rivoluzionali vengono soffocati nel sangue:
Ma ben altro colpì la
vista di Tullio e gli gelò il sangue nelle vene. Fra l’una e l’altra schiera di
soldati in capo alla piazza, poco innanzi al bianco muro del convento erano
alcune panchette in fila; allo svolto del fabbricato due carrettoni coperti da
una grossa tela. Quelle e questi aspettavano le vittime.
Quando il corteo giunse,
a un cenno dell’ufficiale, i granatieri che lo accompagnavano si schierarono
fra le due ali, colla fronte al Convento, così da formare con queste, i tre
lati di un quadrato spazioso.
I condannati furono dai
gendarmi spinti dai innanzi, sino alle panche. La confratria si schierò in capo
alla piazza, presso le panchette; Tullio si pose dinanzi. Di là egli era più
vicino ai condannati che non avesse supposto; forse la sua voce sarebbe giunta
all’orecchio di Giuseppe.
Lo cercò; lo riconobbe:
in quel momento i sacerdoti abbracciavano le vittime, e rivolgevan loro
l’ultima parola di conforto; e un drappello di ventisette veterani, su tre
file, staccandosi dal grosso della truppa, si schierava a venti passi dai
condannati.
Fino a Roma, dove Tullio ha la percezione precisa del suo destino e di quello dei movimenti per la libertà e la gloria dell'Italia: Bisogna che ciò avvenga,
– disse un uomo maturo, vestito di nero, che era stato fino allora in silenzio
nell’ombra di un angolo, – Non le armi e le violenze, ma i martirii sopportati
con eroica fede fecero trionfare la religione del Cristo.
E queste parole
suonarono come un ammonimento, illuminarono come un raggio di luce: aprirono le
menti alla speranza.
Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro.
Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
Con illustrazioni di Niccolò Pizzorno
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