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lunedì 19 dicembre 2016

Luigi Natoli: l'epidemia di colera del 1836/1837. Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.


La rivoluzione del 1820 e i fatti successivi, avevano aperto gli occhi ai Siciliani, che s’accorgevano quanto fossero state perniciose le rivalità municipali nell’interesse della libertà e dell’indipendenza; e quanto invece fosse necessaria l’unione. Aveva anche mostrato ai liberali napoletani che non c’era da fidare dei Borboni; che bisognava riprendere con la forza la libertà soppressa, e che quindi era necessario il concorso della Sicilia. Si riprendeva il lavorìo segreto a Napoli come in Sicilia, ma con nuovi intendimenti e con nuove aspirazioni. Entrava in esse un nome, che fino allora era stato semplicemente una designazione geografica: Italia.
La gioventù colta si era venuta educando sui grandi scrittori italiani: Dante, Alfieri, Foscolo, prendevano il posto del Tasso e del Monti (quello della Bassvilliana) preferiti dai Gesuiti.
Fin dal 1830 un esule, M. Palmieri, auspicava che non si parlasse più di Siciliani, Napoletani, Toscani, Piemontesi, e via dicendo, ma d’Italiani; e pure, vagheggiando l’unità nazionale, proponeva una federazione di repubbliche italiane con a capo Roma. Una visione dell’Italia libera e indipendente dallo straniero balenava in un carme di F.P. Perez, scritto in morte di Ugo Foscolo nel 1833; si allacciavano relazioni con gli esuli italiani riparati in Spagna, a Malta, a Corfù dopo il  1831; si disegnavano sbarchi nell’Isola, nella quale si riteneva “coperto di cenere, ma non spento il fuoco”. Non mancavano fra i giovani di Sicilia, gli aderenti alla Giovane Italia. In uno dei primi numeri del giornale, che aveva lo stesso nome, il Mazzini rivolgeva infatti ai Siciliani una memoranda lettera, entrata di contrabbando, e diffusa fra essi. Ma più attive erano le relazioni fra Siciliani e Napoletani.
Si erano formati alcuni comitati a Palermo, a Messina, a Siracusa e tra loro si scrivevano, e corrispondevano coi liberali napoletani.
La grande epidemia colerica che, dopo aver serpeggiato per l’Europa, colpiva Napoli nel 1836 e l’anno appresso Palermo, interruppe il lavoro di cospirazione. In Sicilia essa produsse turbolenze, nate dalla novità e dall’atrocità del male, dalla insufficienza dei rimedi e dal pregiudizio delle popolazioni ignoranti. Il popolo e anche gli uomini colti non lo credettero naturale, ma opera scellerata del Governo.
Si temettero avvelenatori assoldati, e di alcuni supposti se ne fece crudele strazio. Il morbo, propagatosi con un crescendo spaventevole fino a raggiungere in Palermo i milleottocento morti in un giorno, sopra una popolazione di meno che duecentomila anime, gettò la città nello squallore. Pure preti e frati, specialmente gesuiti, cappuccini e domenicani davano esempio di carità, soccorrendo gli infermi; gran numero di medici con grande abnegazione e pericolo accorrendo dovunque: e il Pretore di Palermo, principe di Scordia, giovane ed energico, non solo provvedeva alla città e soccorreva i suoi miseri, ma affrontava i tumulti, e con la parola e il sereno coraggio evitava i lutti maggiori. Mentre altri nobili gareggiavano in soccorsi di denaro per provvedere medicine e pane, il Governo di Napoli non mandò né una parola di conforto né un obolo; ma ordini crudeli di repressione.
A Palermo vittime illustri del morbo furono Filippo Foderà, insigne fisiologo, Pietro Pisani, fondatore del nuovo Ospizio dei Pazzi, Giuseppe Tranchina, dotto imbalsamatore e medico, Giuseppe Alessi, erudito, Nicolò Palmeri e Domenico Scinà, storici di fama universale, e tanti altri, onore degli studi, che sarebbe lungo ricordare.
Nella provincia i disordini furono maggiori: le popolazioni insorgevano, assalendo municipi, le giudicature e gli uffici demaniali, bruciavano carte, uccidevano birri, ispettori, farmacisti, possidenti. La Luogotenenza era costretta quindi a spedire colonne mobili, ma esagerando e giudicando quei moti come delitti contro lo Stato, istituiva corti marziali subitanee, che procedevano a fucilazioni, dove era necessario ben altro che piombo.
Di altra gravità furono i moti di Siracusa e di Catania, che presero veramente colore politico.
A Siracusa v’era una grande agitazione nel popolo, contro le autorità governative per cagione del colera. Il popolo cominciò a tumultuare, per cui l’intendente della provincia e altri impiegati invisi, fuggirono. Allora la plebe, abbandonata a se stessa ruppe ogni freno. Il 18 luglio, ucciso il commissario Vico, corse ad assalire un cosmorama tenuto da un certo Schwentzen e dalla moglie Lepik, e trovato vasetti con misture, li credette veleni. Lo Schwentzen, credendo salvarsi, dichiarò che avrebbe confessato tutto; fu portato in prigione con la moglie, e tutti i vasetti e le polveri furono sequestrati. I liberali allora costituirono una specie di governo, e istruirono un mostruoso processo, ottenendo dallo sciagurato Schwentzen la confessione di aver avuto incarico di avvelenare la popolazione. L’avvocato Mario Adrono allora spedì a tutte le città dell’Isola un enfatico proclama con la firma del barone di Pancali, nel quale diceva che “il veleno aveva fatto stragi a Napoli e a Palermo aveva trovata la tomba nella patria di Archimede”; e che era stata scoperta una setta infame, nemica dei governi. Intanto la folla, eccitata dalle stolte parole di un accattone, corse ad assalire le carceri, ne trasse lo Schwentzen con la moglie, un capitano, cinque rondieri, e trascinabili nella piazza del Duomo, ne fece strage....
 

Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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