La rivoluzione del 1820 e i fatti successivi, avevano
aperto gli occhi ai Siciliani, che s’accorgevano quanto fossero state
perniciose le rivalità municipali nell’interesse della libertà e
dell’indipendenza; e quanto invece fosse necessaria l’unione. Aveva anche
mostrato ai liberali napoletani che non c’era da fidare dei Borboni; che
bisognava riprendere con la forza la libertà soppressa, e che quindi era
necessario il concorso della Sicilia. Si riprendeva il lavorìo segreto a Napoli
come in Sicilia, ma con nuovi intendimenti e con nuove aspirazioni. Entrava in
esse un nome, che fino allora era stato semplicemente una designazione
geografica: Italia.
La gioventù colta si era venuta educando sui grandi
scrittori italiani: Dante, Alfieri, Foscolo, prendevano il posto del Tasso e
del Monti (quello della Bassvilliana) preferiti dai Gesuiti.
Fin dal 1830 un esule, M. Palmieri, auspicava che non si
parlasse più di Siciliani, Napoletani, Toscani, Piemontesi, e via dicendo, ma
d’Italiani; e pure, vagheggiando l’unità nazionale, proponeva una federazione
di repubbliche italiane con a capo Roma. Una visione dell’Italia libera e
indipendente dallo straniero balenava in un carme di F.P. Perez, scritto in
morte di Ugo Foscolo nel 1833; si allacciavano relazioni con gli esuli italiani
riparati in Spagna, a Malta, a Corfù dopo il
1831; si disegnavano sbarchi nell’Isola, nella quale si riteneva
“coperto di cenere, ma non spento il fuoco”. Non mancavano fra i giovani di
Sicilia, gli aderenti alla Giovane Italia.
In uno dei primi numeri del giornale, che aveva lo stesso nome, il Mazzini
rivolgeva infatti ai Siciliani una memoranda lettera, entrata di contrabbando,
e diffusa fra essi. Ma più attive erano le relazioni fra Siciliani e
Napoletani.
Si erano formati alcuni comitati a Palermo, a Messina, a
Siracusa e tra loro si scrivevano, e corrispondevano coi liberali napoletani.
La grande epidemia colerica che, dopo aver serpeggiato
per l’Europa, colpiva Napoli nel 1836 e l’anno appresso Palermo, interruppe il
lavoro di cospirazione. In Sicilia essa produsse turbolenze, nate dalla novità
e dall’atrocità del male, dalla insufficienza dei rimedi e dal pregiudizio
delle popolazioni ignoranti. Il popolo e anche gli uomini colti non lo
credettero naturale, ma opera scellerata del Governo.
Si temettero avvelenatori assoldati, e di alcuni supposti
se ne fece crudele strazio. Il morbo, propagatosi con un crescendo spaventevole
fino a raggiungere in Palermo i milleottocento morti in un giorno, sopra una
popolazione di meno che duecentomila anime, gettò la città nello squallore. Pure
preti e frati, specialmente gesuiti, cappuccini e domenicani davano esempio di
carità, soccorrendo gli infermi; gran numero di medici con grande abnegazione e
pericolo accorrendo dovunque: e il Pretore di Palermo, principe di Scordia, giovane ed energico, non solo provvedeva alla
città e soccorreva i suoi miseri, ma affrontava i tumulti, e con la parola e il
sereno coraggio evitava i lutti maggiori. Mentre altri nobili gareggiavano in
soccorsi di denaro per provvedere medicine e pane, il Governo di Napoli non
mandò né una parola di conforto né un obolo; ma ordini crudeli di repressione.
A Palermo vittime illustri del morbo furono Filippo Foderà, insigne fisiologo, Pietro Pisani, fondatore del nuovo
Ospizio dei Pazzi, Giuseppe Tranchina,
dotto imbalsamatore e medico, Giuseppe
Alessi, erudito, Nicolò Palmeri
e Domenico Scinà, storici di fama
universale, e tanti altri, onore degli studi, che sarebbe lungo ricordare.
Nella provincia i disordini furono maggiori: le
popolazioni insorgevano, assalendo municipi, le giudicature e gli uffici
demaniali, bruciavano carte, uccidevano birri, ispettori, farmacisti,
possidenti. La Luogotenenza era costretta quindi a spedire colonne mobili, ma
esagerando e giudicando quei moti come delitti contro lo Stato, istituiva corti
marziali subitanee, che procedevano a fucilazioni, dove era necessario ben
altro che piombo.
Di altra gravità furono
i moti di Siracusa e di Catania, che presero veramente colore politico.
A Siracusa v’era una
grande agitazione nel popolo, contro le autorità governative per cagione del
colera. Il popolo cominciò a tumultuare, per cui l’intendente della provincia e
altri impiegati invisi, fuggirono. Allora la plebe, abbandonata a se stessa
ruppe ogni freno. Il 18 luglio, ucciso il commissario Vico, corse ad assalire
un cosmorama tenuto da un certo Schwentzen e dalla moglie Lepik, e trovato
vasetti con misture, li credette veleni. Lo Schwentzen, credendo salvarsi,
dichiarò che avrebbe confessato tutto; fu portato in prigione con la moglie, e
tutti i vasetti e le polveri furono sequestrati. I liberali allora costituirono
una specie di governo, e istruirono un mostruoso processo, ottenendo dallo
sciagurato Schwentzen la confessione di aver avuto incarico di avvelenare la
popolazione. L’avvocato Mario Adrono allora spedì a tutte le città dell’Isola
un enfatico proclama con la firma del barone di Pancali, nel quale diceva che
“il veleno aveva fatto stragi a Napoli e a Palermo aveva trovata la tomba nella
patria di Archimede”; e che era stata scoperta una setta infame, nemica dei
governi. Intanto la folla, eccitata dalle stolte parole di un accattone, corse
ad assalire le carceri, ne trasse lo Schwentzen con la moglie, un capitano,
cinque rondieri, e trascinabili nella piazza del Duomo, ne fece strage....
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