Il ceto medio delle
città più colte, nutrito di nuove idee, cominciava a sentire che poteva essere
una forza, capace non più d’essere rimorchiata dalla nobiltà, ma di trascinarla
con sé e di mettersi di fronte alla monarchia.
In queste condizioni di
spirito si propagò in Sicilia la Carboneria.
Venuta probabilmente dalla Francia nel regno di Napoli, fin dal 1799, diffusasi
in Italia, essa aveva per scopo di “purgare la terra dai lupi”, di combattere,
cioè la tirannia col quale nome s’intendeva l’assolutismo. In Sicilia entrò
prima del 1817; anzi un’inchiesta, ordinata in quei tempi, assicura che nel
1815 esistevano Vendite a Caltagirone e a Pietraperzia, e qualche anno dopo
anche a Messina. Venuto nel 1818 il poeta toscano Sestini, la propagò ovunque;
si diffuse rapidamente nel ceto medio, nelle maestranze, nel clero numerosissima,
(in quattro diocesi v’erano circa quattrocento religiosi iscritti). Essendosi
la Spagna ribellata ed avendo ottenuta una Costituzione, la notte del 2 luglio
1820, cominciata con un “pronunciamento” militare a Nola, la rivoluzione
carbonara si propagò vittoriosa in Napoli, capitanata dal generale Guglielmo
Pepe, chiedendo la Costituzione spagnola; il 5 era compiuta; il 6 il re la
prometteva solennemente; il 13 la giurava sui Vangeli. La notizia giunse
privatamente a Messina il 9, e suscitò entusiasmi: il governatore militare,
principe di Scaletta, cedendo alle richieste del popolo, promulgò allora la
Costituzione spagnola; ma né da Napoli, né da Messina, Palermo ebbe sentore di
tanta novità prima della sera del 14 luglio.
Era luogotenente
generale dell’isola il vecchio generale Diego Naselli, siciliano, malvisto dai
suoi concittadini, di condotta ambigua, inetto e vile. La sera del 14, quarto
giorno delle grandiose feste di Santa Rosalia, il Naselli ricevette messaggi
del principe Vicario, che gli inviava il proclama del re Ferdinando del 6, e
lettere del principe di Villafranca, che aveva avuto una missione dal Re e che
parlavano della costituzione siciliana del 1812.
La mattina del 15 i
costituzionali del ’12, nobili e borghesi, s’adunarono per domandare il
ripristino di quella Costituzione, e l’adozione di un nastro giallo con
l’aquila alla coccarda dei tricolori carbonici, emblema dell’indipendenza; nel
tempo stesso gli Anticronici in un convegno deliberavano che si domandasse al
luogotenente la costituzione spagnola e l’indipendenza. E questi si decise a
promulgare il proclama regio: ma dava intanto ordini ambigui di repressione.
Per evitare disordini fu eletta una Giunta Provvisoria di Governo: ma i
disordini scoppiarono per l’imprudenza del generale Church, che avendo ordinato
e strappato a un cittadino il nastro giallo, provocò la folla. Il popolo corse
a devastargli la casa e a bruciargli le masserizie, e il giorno dopo
imbaldanzito, abbattè le insegne regie, devastò gli uffici finanziari, e domando
minaccioso la costituzione e l’indipendenza, l’occupazione dei baluardi e le
armi.
Il Naselli, che aveva
scatenata la tempesta, non cercò di reprimerla; pubblicò un proclama, e intanto
lasciò armare le truppe, che cacciarono i popolani dal Castello, disarmarono
quelli dei bastioni, e marciarono ad assalire il popolo. Per evitare il conflitto,
alcuni signori, ecclesiastici e consoli delle maestranze, corsero dal
luogotenente; ma furono accolti a fucilate dai soldati, che ne uccisero due e
costrinsero gli altri a fuggire. Allora i popolani aprirono il fuoco. Il
conflitto fu aspro e ostinato: il popolo senza capi, respinse le truppe e
s’impadronì di qualche cannone: un frate, Gioacchino Vaglica, gridando Viva S. Rosalia! si slanciò: il popolo
lo seguì con ardore, scacciò le truppe dalle posizioni, le mise in fuga e le
incalzò fuori dalla città.
Il Naselli fuggì per
Napoli, lasciando nell’imbarazzo una Giunta senza capo, senza autorità, in
balia di una plebaglia resa ubriaca dalla vittoria. Il popolo si dette ai
saccheggi, uccise il vecchio generale Caldarera, arrestò l’astronomo Cacciatore
e cercò a morte i principi di Cattolica e di Aci, come traditori: il primo,
riconosciuto e trovato a Bagheria, fu ucciso; il giorno dopo fu ucciso l’Aci, e
i capi sanguinanti portati in trionfo.
La Giunta, eletta dalle
maestranze e dai cittadini, incaricò il colonnello Emanuele Requisens di
provvedere alla sicurezza; e questi organizzò le maestranze in reggimenti che
dovevano vigilare e rendere sicuro ogni quartiere.
Il domani giunse il
Villafranca, accolto con speranze e applausi come il Salvatore. Recatosi alla
Giunta, il Cardinale arcivescovo riconsegnò a lui la presidenza di essa.
Intanto che si discuteva, un naviglio da guerra napoletano s’avvicinò a Palermo
e siccome il popolo minacciava, una deputazione consigliò il comandante Bausan
di non approdare, ed egli navigò per Messina. La Giunta attese a dare assetto
al governo, preoccupandosi delle finanze e della sicurezza, ma non aveva la forza
di procedere contro gli autori delle stragi, né di riprendere i galeotti evasi
nei trambusti. Elesse una deputazione, che si doveva recare a Napoli per far
nota la volontà dei Siciliani di riavere l’indipendenza tolta loro da quattro
anni. Ma a Napoli nessuno era disposto ad accogliere né la deputazione né la
protesta: governo e cittadini, indignati contro Palermo ne volevano la
punizione. La deputazione, arrestata in mare, fu confinata e guardata in una
casa a Posillipo, e le fu vietata qualunque comunicazione.
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15%
Nella foto: le coccarde indossate dai palermitani la notte del 14 luglio 1820 esposte al Museo di Storia Patria di Palermo.
Nessun commento:
Posta un commento