Verso le sette del pomeriggio di quel giorno 26, mentre molti cittadini improvvisavano in barche una dimostrazione intorno alla nave sarda il Governolo, e ne seguivano arresti, Garibaldi ordinava si togliesse il campo, e cominciava la discesa dal colle. Non v’era allora la comoda strada carrozzabile che vi é oggi; non v’erano sentieri; bisognava discendere per ripido scoscendimento, fra sassi e sterpi; e in tante migliaia ciò riusciva lento e difficile. Molti incespicavano, scivolavano sopra i compagni che si trovavan dinanzi, e rotolavano insieme sopra altri, e si formavan viluppi di corpi che movevan compassione e risa in un tempo. A mano a mano che raggiungevano le falde del colle, le squadre e i volontari si aggruppavano intorno ai loro capi. La discesa durò circa cinque ore. Cominciò con qualche lentezza da parte delle squadre, che si mossero per le prime; onde Garibaldi se ne dolse col La Masa, che a sollecitare i guerriglieri mandò Pasquale Mastricchi; il quale postosi innanzi, con la squadra di Bagheria, spronò gli altri. A mezzanotte si ordinarono le squadre e le compagnie, su pei sentieri campestri, fra i giardini e i poderi che rallegrano quelle contrade.
La Masa aveva, per parte delle squadriglie, domandato l’onore d’esser posti i primi ad assalire il nemico; e Garibaldi divise allora il suo esercito in due corpi; il primo formato delle squadriglie, sotto gli ordini del La Masa; il secondo dei volontari, sotto il suo comando.
Ordine rigoroso non fumare, non cantare, non dir neppure una parola, non far alcun rumore, per giungere di sorpresa agli avamposti dei regi, e sgominarli prima che avessero il tempo di dar l’allarme.
Marciavano così, taciti; e nella notte odorosa di tutti i profumi della campagna ferace, rimbombavano quei passi, e destavano i latrati dei cani. Qualche lume si vedeva fra le piante; qualche finestra si apriva nelle case sparse; intorno sull’alto dei monti circostanti, ardevano i fuochi accesi dalle squadre, occhi veglianti della rivoluzione. Al tocco erano giunti a Rappallo, dove Garibaldi, raggiunta la squadra di Bagheria, visto l’orologio, domandò al Mastricchi, da lui piacevolmente chiamato il Vecchio di Gibilrossa, quale era la strada per giungere più presto a Palermo. Il Mastricchi indicò la strada dei Ciaculli, per la quale si avviavano: ma dopo percorso mezzo miglio, Garibaldi ordinò si piegasse a destra per la Favara, e presso il podere Guccia fece un primo alt.
La Masa aveva, per parte delle squadriglie, domandato l’onore d’esser posti i primi ad assalire il nemico; e Garibaldi divise allora il suo esercito in due corpi; il primo formato delle squadriglie, sotto gli ordini del La Masa; il secondo dei volontari, sotto il suo comando.
Ordine rigoroso non fumare, non cantare, non dir neppure una parola, non far alcun rumore, per giungere di sorpresa agli avamposti dei regi, e sgominarli prima che avessero il tempo di dar l’allarme.
Marciavano così, taciti; e nella notte odorosa di tutti i profumi della campagna ferace, rimbombavano quei passi, e destavano i latrati dei cani. Qualche lume si vedeva fra le piante; qualche finestra si apriva nelle case sparse; intorno sull’alto dei monti circostanti, ardevano i fuochi accesi dalle squadre, occhi veglianti della rivoluzione. Al tocco erano giunti a Rappallo, dove Garibaldi, raggiunta la squadra di Bagheria, visto l’orologio, domandò al Mastricchi, da lui piacevolmente chiamato il Vecchio di Gibilrossa, quale era la strada per giungere più presto a Palermo. Il Mastricchi indicò la strada dei Ciaculli, per la quale si avviavano: ma dopo percorso mezzo miglio, Garibaldi ordinò si piegasse a destra per la Favara, e presso il podere Guccia fece un primo alt.
Accaddero alcuni incidenti. Un cavallo fugge; corre un grido: – La cavalleria! – Il grido mette il disordine non soltanto nelle ultime squadriglie, ma nelle stesse compagnie dei volontari. Fu un lampo; si riconobbe l’errore: qualcuno ne rise. Alla Favara dove le acque scorrono fresche e limpide, molti giovani delle squadre, che stavano alla testa, non usati alla disciplina militare, si fermarono per bere; ma il Bixio, che vedeva il danno dell’indugio, piombò sopra di loro, gridando, ingiuriandoli con la solita irruenza, e percotendoli: accorse La Masa, in tempo per contenere il risentimento di quei giovani: delle parole vivaci corsero fra La Masa e Bixio, che non ebbero seguito per l’intervento di Sirtori. Riordinate le colonne ripresero la marcia; alla testa erano stati posti trenta volontari scelti, armati di baionetta, comandati dal Tuköry, oltrecchè per poter fare un primo impeto nell’assalto più che probabile, anche per guidare e servire d’esempio alle squadre, che formavano la prima colonna.
La strada che essi percorrevano, detta dei Ciaculli, metteva capo a un bivio, detto della Scaffa, a pochi passi dal ponte dell’Ammiraglio, antico e bel monumento normanno, che attraversava il fiume Oreto. Dal ponte dell’Ammiraglio uno stradale, detto allora dei Corpi Decollati – ora dei Mille – lungo circa mezzo miglio, conduce in linea diritta alla strada urbana, detta di Porta di Termini, per la porta duratavi fino al 1849: le due strade son tagliate in croce dallo “stradone di S. Antonino” ora via Lincoln, che termina al mare.
Il comando delle truppe regie, sicuro della sconfitta di Garibaldi e della sua fuga verso Corleone, ignaro e della mossa strategica del Dittatore e del campo adunatosi in Gibilrossa, non aveva provveduto a difendere questo punto importante con forze considerevoli; aveva mandato alcune compagnie con due cannoni al convento di S. Antonino, per dominare la vicina porta dello stesso nome, lo stradone e l’entrata alla porta di Termini; aveva dinanzi a questa sul crocicchio fatto costruire una barricata, difesa da qualche altra compagnia, e spinto dei distaccamenti avanzati al ponte dell’Ammiraglio, al vicino ponte delle Teste, scaglionando anche un mezzo squadrone di cavalleria in una strada che obliquamente dal ponte andava a S. Antonino, detta allora del “Secco” ora sparita. Dalla parte del mare aveva fatto piazzare una fregata, di fronte allo stradone. Queste truppe erano sotto gli ordini del brigadiere Bartolo Mazza.
I volontari e le squadre dovevano dunque conquistare prima d’ogni altro il ponte, poi percorrere quel mezzo miglio di strada, gittarsi sulla barricata di Porta di Termini e, affrontando il fuoco incrociato dal mare e dal convento di S. Antonino, correre nel cuore di Palermo; non essendo la piazza della Fieravecchia, antico quartiere di rivoluzioni, lontana dalla porta che un quarto di miglio.
Tutto questo Garibaldi sapeva, disponendo la sua marcia; ma per quanto sapesse già che non avrebbe incontrato una forte difesa, era necessario sorprendere gli avamposti e piombare in Palermo, prima che il comando generale, destato, avesse il tempo di chiamare e spingere i battaglioni attendati nel piano del palazzo reale e alle finanze.
Ma la sorpresa mancò.
Giunti alle case del bivio della Scaffa, i “picciotti” che seguivano i trenta volontari del Tuköry, avvistate le sentinelle borboniche, e credendo forse di essere arrivati a Palermo, levarono alte grida, e tirarono qualche fucilata: al che, destatisi gli avamposti napoletani, che occupavano la testa del ponte dell’Ammiraglio, gridarono all’armi e fecero una scarica.
Avvenne un istante di disordine. I “picciotti” non abituati alla tattica delle colonne serrate, seguendo il loro costume, si sbandarono a destra e a sinistra, gittandosi nei giardini per appostarsi dietro gli alberi e i muri; e far fuoco, protetti; questo sbandamento produsse un rigurgito delle altre squadre nella seconda colonna, che poteva riuscire fatale, se Tuköry, in un baleno, non si fosse lanciato coi trenta volontari alla bajonetta, e se Garibaldi, avvertito da Bixio, non avesse spinto Carini con la 7^ compagnia a sorreggere Tuköry. L’esempio dei volontari, le acerbe rampogne dei capi-squadriglie, la voce potente di fra Pantaleo che, levato alto il Cristo corse innanzi tra le fucilate, trascinarono le turbe dei “picciotti”.
La strada che essi percorrevano, detta dei Ciaculli, metteva capo a un bivio, detto della Scaffa, a pochi passi dal ponte dell’Ammiraglio, antico e bel monumento normanno, che attraversava il fiume Oreto. Dal ponte dell’Ammiraglio uno stradale, detto allora dei Corpi Decollati – ora dei Mille – lungo circa mezzo miglio, conduce in linea diritta alla strada urbana, detta di Porta di Termini, per la porta duratavi fino al 1849: le due strade son tagliate in croce dallo “stradone di S. Antonino” ora via Lincoln, che termina al mare.
Il comando delle truppe regie, sicuro della sconfitta di Garibaldi e della sua fuga verso Corleone, ignaro e della mossa strategica del Dittatore e del campo adunatosi in Gibilrossa, non aveva provveduto a difendere questo punto importante con forze considerevoli; aveva mandato alcune compagnie con due cannoni al convento di S. Antonino, per dominare la vicina porta dello stesso nome, lo stradone e l’entrata alla porta di Termini; aveva dinanzi a questa sul crocicchio fatto costruire una barricata, difesa da qualche altra compagnia, e spinto dei distaccamenti avanzati al ponte dell’Ammiraglio, al vicino ponte delle Teste, scaglionando anche un mezzo squadrone di cavalleria in una strada che obliquamente dal ponte andava a S. Antonino, detta allora del “Secco” ora sparita. Dalla parte del mare aveva fatto piazzare una fregata, di fronte allo stradone. Queste truppe erano sotto gli ordini del brigadiere Bartolo Mazza.
I volontari e le squadre dovevano dunque conquistare prima d’ogni altro il ponte, poi percorrere quel mezzo miglio di strada, gittarsi sulla barricata di Porta di Termini e, affrontando il fuoco incrociato dal mare e dal convento di S. Antonino, correre nel cuore di Palermo; non essendo la piazza della Fieravecchia, antico quartiere di rivoluzioni, lontana dalla porta che un quarto di miglio.
Tutto questo Garibaldi sapeva, disponendo la sua marcia; ma per quanto sapesse già che non avrebbe incontrato una forte difesa, era necessario sorprendere gli avamposti e piombare in Palermo, prima che il comando generale, destato, avesse il tempo di chiamare e spingere i battaglioni attendati nel piano del palazzo reale e alle finanze.
Ma la sorpresa mancò.
Giunti alle case del bivio della Scaffa, i “picciotti” che seguivano i trenta volontari del Tuköry, avvistate le sentinelle borboniche, e credendo forse di essere arrivati a Palermo, levarono alte grida, e tirarono qualche fucilata: al che, destatisi gli avamposti napoletani, che occupavano la testa del ponte dell’Ammiraglio, gridarono all’armi e fecero una scarica.
Avvenne un istante di disordine. I “picciotti” non abituati alla tattica delle colonne serrate, seguendo il loro costume, si sbandarono a destra e a sinistra, gittandosi nei giardini per appostarsi dietro gli alberi e i muri; e far fuoco, protetti; questo sbandamento produsse un rigurgito delle altre squadre nella seconda colonna, che poteva riuscire fatale, se Tuköry, in un baleno, non si fosse lanciato coi trenta volontari alla bajonetta, e se Garibaldi, avvertito da Bixio, non avesse spinto Carini con la 7^ compagnia a sorreggere Tuköry. L’esempio dei volontari, le acerbe rampogne dei capi-squadriglie, la voce potente di fra Pantaleo che, levato alto il Cristo corse innanzi tra le fucilate, trascinarono le turbe dei “picciotti”.
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.
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