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venerdì 5 gennaio 2018

Luigi Natoli: La Sicilia e le accuse di "preteso separatismo" del 1848. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860.


In un fascicolo della Critica, prima, nel volume sulla Storia del Regno di Napoli, dopo, parlando della rivo­luzione siciliana del 1848, Benedetto Croce scrive que­sto periodo:
“La Sicilia, invece di unirsi ai liberali del Conti­nente, ripetè il suo moto separatistico, che aveva tanto danneggiato la rivoluzione del 1820, e fu di nuovo a rischio di andar perduta per l’Italia, e mise in grande perplessità e angoscia i patrioti napoletani contrari ai Borboni, ma insieme contrari al separatismo, e perciò, in questa parte d’accordo coi Borboni, senza che potes­sero dirlo apertamente”.
L'accusa non è nuova; prima del Croce l’avevano già formulata altri, ed era passata come una verità nelle storie del risorgimento italiano, senza discussione. L’avevano nel 1848 lanciata gli stessi liberali napoletani, per mezzo dei loro giornali, principalmente il Lucifero e il Tempo venduti al governo, e dei loro rappresentanti negli stati italiani, specialmente nel Piemonte e nella Lombardia; e negli stati stranieri. Essa serviva a scagionare la politica ambigua, inetta, dinastica prima che italiana, del governo napoletano, riguardo alla causa italiana; presentando la Sicilia come chiusa in un gretto municipalismo, avversa al movimento nazio­nale, e cagion prima del mancato intervento di Napoli sui campi lombardi; perchè la necessità di riconquistare l'isola, per non rompere l’unità del Regno, obbligava il governo napoletano a impiegare a questo scopo quelle agli storici venuti di poi ripeterla, svalutando nella milizie, che, altrimenti usate in soccorso dell' esercito piemontese, avrebbero deciso delle sorti dell' Italia. La giustificazione parve legittima; gli uomini di governo, che avevano salutato con entusiasmo la rivoluzione siciliana del 12 gennaio, ingannati dalla propaganda attiva degli emissari napoletani, credettero che la Sicilia tradisse la causa dell’Italia, gridarono contro quel separatismo, assunsero un atteggiamento ostile alla Sicilia, accolsero l’accusa e pronunziarono la condanna. Nessuno volle intendere quel che gli emissari siciliani cercavano di chiarire, e che i giornali dell’isola, e la maggior parte di quelli di Roma, di Toscana, del Piemonte stesso scrivevano: nessuno si domandò che l’italianità fosse quella dei liberali napoletani, che anteponevano una quistione interna di ingiusto dominio, la quale si sarebbe potuta risolvere da una costituzione o da un congresso, alla più vasta e più vitale quistione della indipendenza nazionale dallo straniero, senza la quale era vano parlare d’Italia: nessuno si accorse, specialmente dopo il 15 maggio, quando la maschera del liberalismo cadeva dal volto di Ferdinando II, che quello del separatismo della Sicilia era un diversivo, o meglio un pretesto per non partecipare alla guerra d’indipendenza contro l’Austria, della quale Ferdinando era in Italia il maggior puntello. Parve più spiccio gittare la responsabilità dell’insuccesso sull’atteggiamento della Sicilia, sacrificandola come capro espiatorio di tutte le balordaggini e di tutte le colpe di ministri, di diplomatici, di generali e di re.
Così propagata, confermata, l’accusa parve comoda agli storici venuti di poi ripeterla, svalutando nella storia del risorgimento il nostro contributo, e scartando dai manuali scolastici come una cosa inutile quella rivoluzione che fu da Napoli a Torino salutata con entusiasmo, e suscitava l’ammirazione delle tribune parlamentari all’esterno, e perfino di un re. Che più? Abbiamo veduto testi di storia pei licei far cominciare il movimento nazionale del 1848 dalle Cinque Giornate, relegando la rivoluzione siciliana a uno o due periodetti in coda a un capitolo sulle riforme del 1847!
Forse la colpa è dei Siciliani stessi, a partire da coloro che, o scrivendone in quei tempi, come il La Farina, il Calvi, il La Masa, o più tardi, come il Gemelli, o scrivendo in vecchiezza le memorie di quegli anni giovanili, come il Raffaele e il Torrearsa, miravano più a vantare o difendere sé e ad accusare altri; non pensarono mai a fissare con caratteri indelebili il significato nazionale, lo spirito ideale, il sentimento, che oltrepassavano i motivi storici della rivoluzione siciliana.
Perché, se nel Piemonte al sentimento nazionale si univa l’ambizione di allargare i propri confini e formare una più grande monarchia; se in Lombardia e nel Veneto al moto dava una spinta la necessità di sottrarsi al dominio straniero; in Sicilia la rivoluzione non mirò soltanto alla riconquista di un diritto violato fraudolentemente; ma questa reputò connessa e necessaria alla soluzione della quistione nazionale. E se una politica gretta e d’interessi particolaristici ci fu, vedremo che bisogna cercarla proprio là, donde movevano le volutamente equivoche accuse di separatismo.
 
 
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 24,00
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