In un fascicolo della Critica, prima,
nel volume sulla Storia del Regno di Napoli, dopo, parlando della rivoluzione
siciliana del 1848, Benedetto Croce scrive questo periodo:
“La Sicilia, invece di unirsi ai
liberali del Continente, ripetè il suo moto separatistico, che aveva tanto
danneggiato la rivoluzione del 1820, e fu di nuovo a rischio di andar perduta
per l’Italia, e mise in grande perplessità e angoscia i patrioti napoletani
contrari ai Borboni, ma insieme contrari al separatismo, e perciò, in questa
parte d’accordo coi Borboni, senza che potessero dirlo apertamente”.
L'accusa non è nuova; prima del Croce l’avevano
già formulata altri, ed era passata come una verità nelle storie del
risorgimento italiano, senza discussione. L’avevano nel 1848 lanciata gli
stessi liberali napoletani, per mezzo dei loro giornali, principalmente il Lucifero e il Tempo venduti al governo, e dei loro rappresentanti negli stati
italiani, specialmente nel Piemonte e nella Lombardia; e negli stati stranieri.
Essa serviva a scagionare la
politica ambigua, inetta, dinastica prima che italiana, del governo napoletano,
riguardo alla causa italiana; presentando la Sicilia come chiusa in un gretto
municipalismo, avversa al movimento nazionale, e cagion prima del mancato
intervento di Napoli sui campi lombardi; perchè la necessità di riconquistare
l'isola, per non rompere l’unità del Regno, obbligava il governo napoletano a
impiegare a questo scopo quelle agli storici venuti di poi ripeterla,
svalutando nella milizie, che, altrimenti usate in soccorso dell' esercito
piemontese, avrebbero deciso delle sorti dell' Italia. La giustificazione parve
legittima; gli uomini di governo, che avevano salutato con entusiasmo la
rivoluzione siciliana del 12 gennaio, ingannati dalla propaganda attiva degli
emissari napoletani, credettero che la Sicilia tradisse la causa dell’Italia,
gridarono contro quel separatismo, assunsero un atteggiamento ostile alla
Sicilia, accolsero l’accusa e pronunziarono la condanna. Nessuno volle
intendere quel che gli emissari siciliani cercavano di chiarire, e che i
giornali dell’isola, e la maggior parte di quelli di Roma, di Toscana, del
Piemonte stesso scrivevano: nessuno si domandò che l’italianità fosse quella
dei liberali napoletani, che anteponevano una quistione interna di ingiusto
dominio, la quale si sarebbe potuta risolvere da una costituzione o da un
congresso, alla più vasta e più vitale quistione della indipendenza nazionale
dallo straniero, senza la quale era vano parlare d’Italia: nessuno si accorse,
specialmente dopo il 15 maggio, quando la maschera del liberalismo cadeva dal
volto di Ferdinando II, che quello del separatismo della Sicilia era un
diversivo, o meglio un pretesto per non partecipare alla guerra d’indipendenza
contro l’Austria, della quale Ferdinando era in Italia il maggior puntello.
Parve più spiccio gittare la responsabilità dell’insuccesso sull’atteggiamento
della Sicilia, sacrificandola come capro espiatorio di tutte le balordaggini e
di tutte le colpe di ministri, di diplomatici, di generali e di re.
Così propagata, confermata, l’accusa
parve comoda agli storici venuti di poi ripeterla, svalutando nella storia del
risorgimento il nostro contributo, e scartando dai manuali scolastici come una
cosa inutile quella rivoluzione che fu da Napoli a Torino salutata con
entusiasmo, e suscitava l’ammirazione delle tribune parlamentari all’esterno, e
perfino di un re. Che più? Abbiamo veduto testi di storia pei licei far
cominciare il movimento nazionale del 1848 dalle Cinque Giornate, relegando la
rivoluzione siciliana a uno o due periodetti in coda a un capitolo sulle
riforme del 1847!
Forse la colpa è dei Siciliani stessi, a
partire da coloro che, o scrivendone in quei tempi, come il La Farina, il
Calvi, il La Masa, o più tardi, come il Gemelli, o scrivendo in
vecchiezza le memorie di quegli anni giovanili, come il Raffaele e il
Torrearsa, miravano più a vantare o difendere sé e ad accusare altri; non
pensarono mai a fissare con caratteri indelebili il significato nazionale, lo
spirito ideale, il sentimento, che oltrepassavano i motivi storici della
rivoluzione siciliana.
Perché, se nel Piemonte al sentimento
nazionale si univa l’ambizione di allargare i propri confini e formare una più
grande monarchia; se in Lombardia e nel Veneto al moto dava una spinta la
necessità di sottrarsi al dominio straniero; in Sicilia la rivoluzione non mirò
soltanto alla riconquista di un diritto violato fraudolentemente; ma questa
reputò connessa e necessaria alla soluzione della quistione nazionale. E se una
politica gretta e d’interessi particolaristici ci fu, vedremo che bisogna
cercarla proprio là, donde movevano le volutamente equivoche accuse di
separatismo.
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 24,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online.
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Nessun commento:
Posta un commento