Le
squadre di Carini, di Cinisi, dei Colli, dopo
i combattimenti di San Lorenzo si
erano ritirate sull’Inserra; quella di Partinico unitasi con quella d’Alcamo,
errava sui monti sopra Monreale; quella di Piana, dopo gli scontri sostenuti,
si era ritirata a Piana per rinforzarsi, ed ivi infatti era stata raggiunta
dalla squadra di Corleone e da molti animosi dei comuni vicini; coi quali,
ripresa l’offensiva, sollevati Misilmeri e Belmonte aveva rioccupato il convento
di Gibilrossa.
Contro queste squadriglie, che formavano un semicerchio
intorno alla città, molestando continuamente gli avamposti e le pattuglie e i piccoli distaccamenti, il governo dell’isola,
sollecitato da quello di Napoli e più propriamente dal re, spedì alcune forti
colonne mobili. Al generale Cataldo fu assegnato il compito di sloggiare gl’insorti
da Gibilrossa, occupare Villabate, Misilmeri, Marineo, spingersi sopra Piana
dei Greci, S. Giuseppe delle Mortelle e fermarsi a Partinico. Al maggiore
Bosco e al maggiore Morgante, era dato incarico di osteggiare le squadriglie
tra Monreale e Boccadifalco; mentre altra colonna sotto gli ordini del tenente
colonnello Torrebruna doveva spazzare le campagne dei Colli, fino a Carini. La
colonna Cataldo si mosse l’11 di aprile; ma senza mai venire a una vera e
propria fazione. Si capì che la tattica delle squadre, era “di non farsi raggiungere
mai dalle regie truppe, a solo fine di stancarle, protrarre l’agitazione, e
ritardare... il ristabilimento dell’ordine”. Per il che, a troncar una guerra
faticosa e senza risultati, il re di Napoli mandava segrete istruzioni per la
distruzione delle bande, con la forza da una parte, con gli indulti e spargendo
la diffidenza e il tradimento, dall’altra.
Il comando militare, quindi, concertata un’azione simultanea
delle varie colonne mobili, diede ordini di assalire gli insorti, che,
indietreggiando dinanzi al soverchiare dei regi, si concentravano a Carini. La colonna Cataldo
movendo da Partinico, quella del Bosco per Torretta e Montelepre, quella del
Torrebruna, rinforzata da altre milizie per la via di Capaci dovevano prendere
in un cerchio le squadre. Il 18 infatti gli insorti sono assaliti; si combatte
accanitamente per parecchie ore tra forze ineguali: Carini vien presa dai regi
del Cataldo, che si abbandonano al saccheggio e alla carneficina. Ma il
movimento aggirante, per imperizia del Torrebruna, e per non essere arrivata in
tempo un’altra colonna col tenente colonnello Perrone, non riesce: gl’insorti giungono
ad aprirsi un varco e a ritirarsi sulle montagne, sebbene fulminati dai
borbonici. Gl’incendi, le stragi di Carini indegnarono anche il re, che censurò
vivamente la indisciplinatezza e la barbarie delle truppe; segnarono un altro
debito verso la vendetta popolare.
Dopo la presa di Carini, i comuni dei dintorni di Palermo ritornarono all’obbedienza;
e la più parte degli uomini delle squadre, disanimati da una guerra senza
speranza di vittoria, non vedendo giungere gli aiuti che erano stati promessi, non
sorretti dalla fede nell’idea dell’unità che essi non capivano, adescati dall’indulto,
gittavan le armi e ritornavano sottomessi nelle loro case. La causa della
rivoluzione pareva perduta; quando il 20, Rosolino Pilo e Giovanni Corrao
giungevano a Piana dei Greci, e con le rinate speranze riaccendevano il
fuoco, non ancor domo. Pietro Piediscalzi, infaticabile, ardente, si unì tosto
con loro e ricostituì la squadra, che poi tenne, fino alla morte, ai suoi
ordini, pagandola del suo.
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