Il 12 gennaio 1848, dopo l'audace sfida che rompeva gli
indugi, Palermo insorse. Combattè per ventiquattro giorni, espugnando a una a
una tutte le posizioni delle truppe regie, e respingendo i rinforzi venuti da
Napoli col conte d'Aquila e il generale de Sauget. Ma Napoli non si mosse, non
incoraggiò nè soccorse il fiacco moto di Salerno; non seppe o non potè; o non
volle compromettersi. Onde a ragione, più tardi, scoppiato il dissidio, la Indipendenza
e la Lega di Palermo, il più autorevole dei giornali dell'isola, e uno dei
migliori d'Italia, difendendo l’italianità della rivoluzione, rimproverava
amaramente i patrioti napoletani: “....Chi si oppose ai primi moti della
Sicilia? un'armata napoletana. Chi si stette a guardar la lotta che noi
sostenevamo? Una popolazione napoletana. Chi ci abbandonava sull’orlo
dell’abisso? Chi ascoltava freddamente i ragguagli della carneficina che qui si
faceva? I liberali, i cospiratori di Napoli. Chi lasciò partire da Napoli un
rinforzo che, se non era il nostro disperato coraggio, avrebbe ruinato in
eterno, non diremo la nostra sorte, ma la causa comune d’Italia, la causa
dell’umanità? Sempre i liberali, i cospiratori di Napoli...” (39).
V’era certo dell’esagerazione in queste querele, perché
non si teneva conto della diversa condizione in cui si trovava Napoli: ma è
certo che se le dimostrazioni napoletane fossero state promosse più presto, e
se la sommossa di Salerno, dove era stato spedito Costabile Carducci, avesse
preceduto la spedizione del Conte d’Aquila, la avrebbe impedita o ritardata. E
non è meno certo che se Palermo fosse stata domata all’arrivo dei rinforzi
regi, l’assolutismo borbonico si sarebbe consolidato e avrebbe avuto un effetto
deleterio, come l’ebbe più tardi, sulle sorti d’Italia. E a questo gli storici
non han posto mente; non hanno, per cecità, veduto di quale enorme peso e di
quale responsabilità si caricava Palermo. Dalla sua vittoria dipendeva o il
trionfo della libertà o il ribadimento della servitù.
Ma torniamo a noi. Le dimostrazioni cominciarono a Napoli
il 27 di gennaio, quando già si sapeva vittoriosa Palermo. Il conte d’Aquila,
battuto dagli insorti, era ritornato a Napoli il 18, a portar notizia delle
tristi condizioni dei regi; i generali Vial e De Maio, con le truppe eran
fuggiti il 25. È inutile tener d’occhio le date.
Ferdinando cedette subito alle dimostrazioni: udito un
consiglio di generali, dimesso il ministero Pietracatella, chiamò al potere il
duca di Serracapriola; il 30 nominò ministro dell’interno il Bozzelli, la
nomina del quale, agli occhi di coloro che non conoscevano ancora l’uomo, parve a tutti i liberali di qua e di là dal Faro
arra sicura di componimento pacifico della quistione siciliana. Ma il re lo
conobbe subito. L'orgoglio smisurato, l’autoritarismo, l’ambizione smodata di
dominare, lo scetticismo dell'uomo glielo fecero giudicare lo strumento adatto
per distruggere la rivoluzione stessa.
Il 29 Ferdinando con un atto sovrano prometteva la
Costituzione e ne fissava i capisaldi, esprimendosi però come se in Sicilia non
fosse scoppiata nessuna rivoluzione con un fine determinato. Napoli tutta fu
presa da un delirio di gioia; fra gli evviva al re, a Pio IX, alla
Costituzione, si gridò anche: Viva Palermo! sincera manifestazione di
gratitudine verso la città, al cui ardimento e al cui sangue Napoli doveva,
senza aver nulla arrischiato, la conquista della libertà politica. E non soltanto
a Napoli si gridava Viva Palermo: a Firenze, a Milano, a Genova, a
Torino questa rivoluzione era salutata con entusiasmo come l’inizio del
riscatto nazionale: Mazzini scriveva la lettera famosa, che comincia
“Siciliani, voi siete grandi!” (40), Ludovico di Baviera un'ode (41); Lamartine
e poi Thiers la salutavano dalla tribuna parlamentare. A Firenze, il 3 febbraio
la cittadinanza più eletta dava agli esuli siciliani e napoletani un banchetto
di duecentocinquanta coperti, in quattro sale del Casino; le tavole erano
presiedute da Giuliano Ricci, dal marchese Arconati, da Atto Vannucci,
dall'abate Milanesi, da Pietro Thouar, dall' avv. Federico Pescantini e
qualche altro: dei Siciliani v'erano La Farina, Raffaele Busacca, Paolo
Morello, Paolo Emiliani Giudici, dei napoletani Carlo Poerio, Giuseppe Massari;
taccio dei minori. Se mi fermo su questo banchetto, gli è per quello che vi si
disse. Vi furono infatti dei discorsi e dei brindisi, ai quali risposero il La
Farina, il Busacca e Paolo Morello. Quello del La Farina veemente contro le
crudeltà del governo borbonico, chiudeva con queste parole: “Oramai non
formiamo che unica famiglia, siam tutti fratelli....
fratelli e Italiani col battesimo di sangue e di fuoco! Tutti Italiani, legati
ad unico patto, stretti sotto ad unica bandiera, sotto
questa bandiera santa, desiderio, conforto, speranza di quelli che son caduti
per la causa della libertà e della indipendenza italiana! E noi combatteremo
sotto essa e vinceremo al grido concorde di Viva l'Italia! viva
l'indipendenza e la libertà italiana!”. E col
grido di Viva la nazionalità dell' Italia libera conchiudeva il Busacca
il suo discorso, dopo aver affermato i diritti imprescrittibili della Sicilia... alla fratellanza italiana osannò il Morello. Giuseppe
Massari parlò anche lui con sentimenti liberali e italiani; e dopo aver detto
che “al grido di guerra dell'eroica Sicilia, Napoli fece eco”, disse fra
l'altro: “I nostri fratelli siciliani ci porgono amica la destra, noi la
stringiamo al nostro cuore. L’indipendenza delle loro opinioni è sacra per noi,
ma noi speriamo che essi non si separeranno da noi. Lo stretto di Messina ci
separa geograficamente; ma l'affetto e il desiderio comune di essere Italiani
liberi e indipendenti vincono il mare e lo spazio e ci stringono in nodi di
soavissima fratellanza”.
Chiuse i discorsi l’ “Indirizzo agli esuli delle due
Sicilie”, letto dall' avv. Pescantini, che cominciava col dire “Palermo, che
chiameremo sempre l'Italica” e chiudeva gridando: “Viva Palermo! Vivano i
popoli delle due Sicilie! Viva l'Italia intera!”. In quel banchetto fu
proposto, e se ne aprì la sottoscrizione, di coniare una medaglia con la
leggenda “A Palermo l'Italica” e di proporre ai governi piemontese, romano e
toscano di apporre la stessa leggenda ai primi cannoni da fondere. E la festa
si chiuse la sera alle 9 e mezzo al Teatro Nuovo, dove fra deliranti applausi
fu riletto l'indirizzo del Pescantini, e un altro delle Donne Toscane alle
Donne Siciliane dalla signora Isabella Rossi Gabardi, altre poesie, canti
ecc. (42).
Ho, più che non dovessi, narrato questo episodio per tre
ragioni; perchè è quasi, se non del tutto, ignoto; perchè mostra in qual conto era tenuta la rivoluzione
siciliana; e infine per dimostrare con quali sentimenti d'italianità insorse la
Sicilia, ai quali non venne meno neppure quando fu abbandonata e calunniata.
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