La mattina del 12 gennaio 1848, mentre scoppiavano le
prime fucilate, e un pugno di giovani audaci, sfidava le truppe borboniche, fu
vista una giovane donna percorrere le strade di Palermo, chiamando alle armi i
neghittosi, spronando i timidi, e distribuendo coccarde tricolori.
Sola, armata della sua
bellezza, non paventando le armi, come sicura del destino, a quella rivoluzione
scoppiata con cavalleresca puntualità aggiungeva un sapore di romanzo e di
poesia.
Quella
donna era Santa Diliberto, che rimasta vedova a venti anni, di un Astorina, e
passata dopo non molto, in seconde nozze con Pasquale Miloro, uno dei
cospiratori, era stata messa a parte dei segreti convegni; uscito il Miloro lo
aveva seguito, con quelle coccarde.
Poche
donne erano note come “donna Santuzza”. Ella doveva la sua notorietà a tre
cose: la sua bellezza, la sua eleganza semplice ma originale, la sua bottega di
guanti.
Non
v'erano in Palermo guanti migliori di quelli di “donna Santa”, nè v'era chi
sapesse increspare o stendere con maggior gusto la spoglia di quei graziosi
ombrellini che usavano allora, simili a ninnoli. La sua fabbrica aveva venti
tagliatori di guanti; le cucitrici erano un centinaio. Aveva la bottega in Via
Cintorinai, in sul principio, a destra di chi vi entra dalla via detta
oggi di Vittorio Emanuele; e questa bottega era sempre affollata. Tutta la
nobiltà di Palermo, ed anche quella dell'isola si serviva di guanti,
ombrellini, e ventagli, da “donna Santa”.
Ella
era alta e slanciata. I capelli bruni, copiosi, spartiti sulla fronte, raccolti
intorno alle tempie e sugli orecchi, le incorniciavano il volto ovale e bianco.
Il
naso piccolo, appena appena arcuato, gli occhi grandi, neri, sereni, la bocca
un po' sottile, piccola, fiorita d'un tenue sorriso.
Nel
portamento un'aria giunonica, consapevole, quale apparisce ancora da una
fotografia di quando era nella piena maturità della vita e della bellezza imperiosa
e magnifica.
L'avevano
sposata fanciulla poco men che sedicenne ad un Astorina; era rimasta vedova a
venti anni, con una industria fiorente; qual folla di cospiratori, e quali
tentazioni, non dovevano circondarla? quali insidie non avvilupparla? Ma donna
Santa era saggia ed avveduta.
“Io,
mi diceva, non avrei sposato mai un uomo che avesse potuto parere un coperchio;
volevo un uomo serio, un uomo che avesse imposto rispetto; ed ecco perchè
accettai la mano di Pasquale Miloro, e diventai la signora Miloro!...”.
Ho scritto “mi diceva”.
Ebbene, sì: donna Santa, il rudere di questa bellezza, la dispensatrice delle
coccarde all'alba del 12 gennaio, questa
unica e sola superstite del manipolo che iniziò la rivoluzione famosa, questa
figura eroica e poetica, della giornata memoranda, che con le belle mani
statuarie diffondeva il simbolo della libertà, e affrontava le fucilate; era
ancor viva quando nel 1910, io la scopersi nella casetta dove viveva ritirata e
silenziosa. Aveva allora novantasei anni ed era svelta; sebbene un po' curva: e
malgrado le rughe e solcassero la fronte, gli occhi avevano ancora l'antico lampo;
la mente era lucida, e i ricordi vivaci. Nella solitudine in cui viveva dimenticata,
sopravissuta alla sua storia, serbava gli entusiasmi giovanili nell'animo rimasto
ancora rivoluzionario del '48.
Io
andai a trovarla nella sua casetta, al numero 33 della via Volturno. Era seduta
in un’ampia poltrona; e appena mi vide entrare, si alzò e mi porse le mani
affabilmente. Io volevo udire dalla sua bocca l’episodio del 12 gennaio: ma
prima di parlare, ella andò a prendere da un cassetto un libro, lo aprì e me lo
porse.
-
Legga, legga! – mi disse.
Il
libro era la raccolta di scritture, proclami, memorie della rivoluzione,
stampati nel 1848; e la pagina mostratami conteneva un cenno encomiativo di
Santa Miloro, additata alla pubblica ammirazione, e riconosciuta benemerita
della patria.
-
Vede chi son io? – aggiunse poco dopo, con un certo tono di orgoglio nel quale
c’era anche un po’ di vanità. – Io sono stata una di coloro che liberarono la
patria dalla tirannia!...
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