Simili idee cominciavano a propagarsi fra i giovani di
Sicilia, sia pel fervore con cui si leggevano Dante, Alfieri, il Foscolo e le
storie del Botta, e si evocavano le grandi figure dell’antica storia patria;
sia per le relazioni che tra i liberali nostri si stringevano – come testimonia
Rosolino Pilo in una lettera al La Masa, – “coi liberali della penisola che...
abbracciavano i principi della Giovine Italia” (17).
Si erano formati in Palermo, in Messina, in Catania, in
Siracusa, come in Napoli, come altrove, dei gruppi di giovani liberali, che
segretamente cospiravano, e che non si estraniavano dall’Italia; attratti in
quel fervido lavorio che da Parigi, da Londra, da Malta convergeva i suoi
sforzi sull’Italia: e la Sicilia fin da quei tempi era designata come la terra
donde doveva partirsi la rivoluzione, non siciliana, ma italiana.
Giungeva anche qui la voce di Giuseppe Mazzini con le
copie della Giovane Italia; e si
trascriveva la sua lettera ai siciliani,
sprone, ammonimento e invito; ma non creava un partito rigidamente unitario:
fomentava sì il sentimento nazionale; ma i nostri lo armonizzavano con la loro
storia: e la loro storia si compendiava in una parola: indipendenza. E però la
formola politica che si maturava negli animi era quella suggerita da Michele
Palmieri fin dal 1830 (18) una confederazione di liberi stati italiani della
quale la Sicilia avrebbe fatto parte come stato, non come provincia. Su questo
principio nel 1838 Michele Amari scriveva, e Francesco Brisolese stampava alla
macchia, onde ebbe a patirne prigionia, il Catechismo
Siciliano; nel quale si può leggere questo periodo: “Grande e bello è il
pensiero della unione di tutta l’Italia in uno Stato che sarebbe possentissimo
quanto altro al mondo. Felici si vedrebbero ora gli Italiani, se, sin da 8
secoli, in qua delle Alpi non vi fosse stato che un impero. Ma come l’Italia da
secoli è divisa in tanti piccoli stati...: impossibile la unione di tutte le
provincie italiane...”. E perciò i rapporti che convenivano erano quelli della
Federazione, nella quale “lietissima” la Sicilia sarebbe rientrata (19).
Le quali idee ribadiva nel 1846, pubblicando l’allora
inedito Saggio storico sulla Costituzione
del Regno di Sicilia di Niccolò Palmieri: nella prefazione al quale egli
segnava quale, praticamente, doveva allora essere la soluzione del problema
italiano, cui era connesso quello siciliano.
Comunque, si cospirava in Sicilia non più isolatamente; e
tracce di questo lavoro di cospirazione e delle pratiche segrete che correvano
fra la Sicilia e il continente si possono trovare spigolando gli epistolari, e
attraverso le carte degli Archivi di Stato. Quelle dell’Archivio di Palermo
rivelano la costante paura del governo, che sapeva, e ne metteva sull’avviso le
autorità dell’isola, quel che Nicola Fabrizi, esule da Modena, faceva a Corfù –
dove era allora; – segnalava i suoi sospetti su cantanti e viaggiatori che
venivano dal continente, e che si supponevano agenti rivoluzionari; avvertiva
la venuta di emissari della Giovine
Italia; e delle intese e scambi fra i rivoluzionari di Francia con quelli
di Spagna, e le relazioni fra questi e i Siciliani e gli esuli di Malta; e di
una Rivista Straniera, della quale Palermo
doveva essere uno dei centri di distribuzione. In una lettera dell’8 febbraio
1838 diretta da Valenza a Nicola Fabrizi in Corfù, e formata da Enrico
Cialdini, Manfredo Fanti e Nicola Arduino, essi speravano prossima una
sollevazione dell’isola, dove il “foco” era “coperto di cenere ma non spento”.
E qui, col pretesto di farlo curare d’una ferita, si proponevano di far venire
il Castelli, per “l’utilità che se ne poteva avere” (20). Anzi si pensava ad
una spedizione armata, adoperandovi i valorosi Italiani che avevano combattuto
in Spagna, a ciò dando agevolezza la corrispondenza fra Siciliani e Spagnoli.
Di questi propositi che agitavano gli esuli, e della corrispondenza il governo
napoletano era avvertito, forse, come si disse, da leggerezze del Pacchiarotti
(21).
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