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martedì 2 aprile 2024

Luigi Natoli: Il governo sentiva quell'agitarsi oscuro e misterioso di preparativi... Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.


Nel gennaio del 1860 corse per l’isola un proclama ai Siciliani, eco dei rimproveri già lanciati da Giuseppe Mazzini. Riferendone al governo di Napoli, il luogotenente generale non nascondeva la sua inquietudine, pel crescere della “schiera di coloro che anelavano fortemente le mutazioni di Stato”; costatando “che la rivoluzione morale era fatta e che non mancava che un incidente per aversi quella materiale”; pel cui buon successo si sperava “su Garibaldi e su quella funesta plejade di nomi che personificavano da più anni la sovversiva idea unitaria”.
Il lavoro del comitato, anzi dei comitati, si faceva più attivo e più fervido; tutte le forze si fondevano; un nuovo elemento vi entrava: la nobiltà.
Il principe Pignatelli, il barone Riso, il principino di Niscemi, il marchese di Rudinì, il padre Ottavio Lanza di maggiore autorità fra tutti, molti altri, perfino dame, come la contessa di S. Marco e la marchesa Spedalotto, senza comporre un comitato vero e proprio, cospiravano anch’essi, tenendosi in rapporto con la parte moderata e aristocratica dell’emigrazione. Ma strette relazioni col comitato borghese, per mezzo del Pisani e del Brancaccio, non gli furono avari di aiuti e di incoraggiamenti. E il comitato si pose alacremente all’opera, spronato dalle lettere del Crispi, di Rosolino Pilo, degli Orlando e degli altri esuli più ardenti; riordinava le fila della cospirazione coi comitati di Messina e Catania e del continente; Carmelo Agnese corriere postale e il Davì capitano marittimo portavano la corrispondenza; altra ne giungeva per mezzo del consolato inglese e del consolato francese, il cui cancelliere, Luigi Naselli, la mandava al Campi e al Peranni affidandola ad un giovane e audace impiegato del ministero, Salvatore Tomasino, morto vecchio e povero, abbandonato anche dall’arte di comico da cui traeva il pane.
Il governo sentiva quell’agitarsi oscuro e misterioso di preparativi, e in quei giorni ne riferiva al re: “Lo spirito pubblico di questa parte dei Reali Dominii –  scriveva – si risveglia e si commuove, ed una agitazione latente travaglia, dove più, dove meno, le contrade dell’Isola. Sotto la funesta influenza dei rumori che corron, i faziosi di già levan la testa, e dal loro linguaggio e dal loro contegno, senza ambagi, e senza mistero, rivelasi che aspettano e sperano. Sanno gli agitatori quanto disuguale sarebbe la lotta se volessero misurarsi alle forze del Real Governo, e si ristanno; ma sperano nei moti d’Italia, su Cavour, su Garibaldi e su quella funesta pleiade di nomi che personificano da più anni la sovversiva idea unitaria”.
A moderare la rivoluzione secondo i propri intendimenti, il conte di Cavour nel febbraio spediva in Palermo, un suo emissario, Enrico Benza, che raccomandato dal La Farina al principe Pignatelli, era fatto segno a feste, che destavano i sospetti della polizia. Ma oramai anche nell’aristocrazia prevaleva il partito di insorgere, senza altro indugio; e i giovani non tenendo conto dei consigli del Benza, non celavano la loro impazienza. La polizia temeva una sollevazione per gli ultimi giorni di carnevale; e sfogando con amici, il Maniscalco invocava l’aiuto di Dio per salvare il re e il regno, temendo la “gioventù dissennata” e riconoscendo che “il paese stava sulle bragi”. Notava il luogotenente generale che “lo spirito fazioso” aveva fatto in quei giorni “rapidi progressi” nella “idea strana e mostruosa dell’unificazione italiana” alla quale lavorava “il notissimo emigrato messinese Giuseppe La Farina... primo motore della Società per l’unificazione presieduta dal Garibaldi”. Il moto non scoppiò; ma i segni dello spirito pubblico si rivelavano con frequenza. L’ultimo lunedì di febbraio, in S. Domenico, mentre il quaresimalista predicava, da una cappella volò una colomba ornata di coccarde tricolori; la stessa sera scoppiò una bomba nella via Toledo; la polizia ne sospettò autore il capofontaniere Mariano Lauriano, agitatore noto, che aveva posto qua e là bandiere tricolori, e lo trasse in arresto. Il tre di marzo i giovani dell’Università rumoreggiarono; il governo fece espellere i più turbolenti, e custodire il portico da otto gendarmi: il giorno dopo gittava nelle prigioni venti altri cittadini, ritenuti fra’più compromessi; tra i quali il Brancaccio di Carpino e Giovanni Faija.
Gli arresti non iscoraggiavano. I membri del Comitato s’univano quando in casa d’Urso, quando presso Enrico Albanese o Antonino Lomonaco-Ciaccio, e, talvolta, Francesco Perrone-Paladini; e studiavano i mezzi per insorgere con certezza di vittoria. Armi e danari. Questi e quelle erano scarsi, e si contava sugli aiuti di fuori. I più prudenti o più timidi, che non volevano precipitare gli eventi, scrissero agli esuli di Genova, per sapere se il governo del Piemonte avrebbe aiutato l’insurrezione; ma la risposta inviata dal conte Michele Amari, infaticabile e generoso nell’aiutare ogni impresa per la liberazione di Sicilia, fu desolante: dal Piemonte non era da sperar nulla fuor che “una sterile simpatia e un tacito dolore nell’avversa fortuna” salvo “a raccogliere il buon frutto nella favorevole”. 
Le stesse cose comunicava Vito D’Ondes-Reggio.
Le risposte non disanimarono i più audaci... Dalle lettere private del Maniscalco, da quelle ufficiali del Castelcicala traspare la certezza di un prossimo movimento; ed ora si sequestravano cartelli sediziosi, ora si trovavano bandiere tricolori in mano delle statue dei santi. Più grave apparì un proclama del “Popolo agli agenti della Polizia”, invitati a far causa comune col popolo: “Vittorio Emanuele e Francesco II oramai non possono insieme durare sul terreno d’Italia, come la libertà e la tirannia non possono coesistere sul suolo istesso... Scegliete tra l’onore e l’infamia, tra la libertà e il servaggio, scegliete tra Maniscalco e il popolo... Unitevi a noi!”. Altri proclami si preparavano, altri circolavano stampati alla macchia o manoscritti. 



Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.
Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 544 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Il volume è disponibile:
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