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mercoledì 3 aprile 2024

Giuseppe Ernesto Nuccio: La notte del 03 aprile al cortile della Gancia... Tratto da: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano.

E sicuro ormai di aver dormito molto, moltissimo, si levò d’un balzo, attraversò la sagrestia, e imboccando il corridoio  andò a caso, nell’oscurità credendo che fosse già giorno fatto. Ma per tutto c’era silenzio. E quel silenzio lo atterrì tremendamente. Forse gravava sulla città già ruinata, pietra su pietra, e su tutti i palermitani morti in un lago di sangue. E andò come un pazzo, ancora preso da una specie di sonnambulismo torbido, misto a una visione stramba della realtà d’un passato recente che già pareva lontanissimo.
E corse ancora, sempre a caso, protendendo le mani, sbarrando gli occhi nel buio fino a quando s’abbattè in una porticina. La travide al lumicino d’una lampada appesa e riconobbe ch’era quella donde, il giorno innanzi, era sbucato in Terrasanta e dove c’era il magazzino di don Ciccio Riso. Là dunque dovevano essere a quell’ora? Di là si preparavano alla battaglia i congiurati se già la città tutta non era morta? S’accasciò prima di entrare, tanto gli tremavan le gambe, e, ascoltando, udì lo stridore d’una sega che mordeva il legno. Chi lavorava a quell’ora?... Ascoltò meglio; ma lo stridore era debolissimo, segno che era lontano. Allora sospinse la porticina e si trovò nel corridoio oscuro, pregno degli odori che uscivano dalla cucina, dal refettorio e dalla cantina.
Pispisedda camminava in punta di piedi, chè s’avvicinava al magazzino. Ora, allo stridìo s’univa un cicaleccio sommesso, e tosto il ragazzo travide due ombre sporgersi d’una parte. Allora emise un lievissimo sospiro. Gli pareva di tornare in vita. S’addossò alla parete e stette irrigidito rattenendo il respiro. A un tratto, udì una voce sommessa:
- Fermiamolo. 
Uno dei due uomini aveva parlato. Nello stesso momento apparve, in fondo, nel buio, un occhio di luce con lunghe ciglia di foco.... E le due ombre parvero addossarsi alle pareti e confondersi nel buio. Pispisedda sentiva la tempesta urlar pazza nel suo cuore spaventato. L’occhio di luce avanzava con le sue lunghe ciglia, che pareva filettassero di fuoco il nero dell’ombra densa; e ora s’udiva anche lo zoccolìo del monaco che avanzava. Ma le due ombre.... Ecco che si gettano sul monaco e gli tappano la bocca e lo trascinano con loro!
Pispisedda attratto irresistibilmente, li segue come un sonnambulo. Dove vanno? Nella panetteria del convento? nel cortile? Ed eccoli infine sbucar nel magazzino di don Ciccio Riso. Il monaco arretra spaventato, scorgendo armi e armati; ma quelli lo caccian dentro, lasciando l’uscio aperto. E lo strider della sega si fa più alto: Pispisedda travede le armi appese al muro: fucili, lance, bombe, sacchi e berretti scozzesi col nastruccio tricolore. Ma ode un cicaleccio rapido: c’è molta gente attorno al monaco, che protesta, e Pispisedda si ritrae nell’ombra per sbirciare. Nessuno può scorgerlo, chè l’oscurità l’avviluppa tutto.
Attorno al monaco si stringono molti a scongiurarlo:
- Per carità; vossia non gridi. Lo terremo per poco con noi. Ci benedica piuttosto. – Ma il monaco guarda intorno con gli occhi sbarrati; senza poter nulla dire, nulla chiedere.
- Ci benedica piuttosto – e qualcuno gli taglia il cordone, lo bacia e se lo caccia in seno.
- Ci benedica, affinchè la morte ci trovi puri di colpe.  
Ma lo strider della sega si fa più rapido.... “Che fanno dunque?” si domanda Pispisedda; e s’accosta. Ah! ecco. È don Ciccio Riso, tutto intento ad allestire un piccolo cannone; e gli altri preparan le armi, si buttano le giacche a tracolla, si provano i berretti: Pispisedda ne scorge le ombre irrequiete, che, proiettate dalla lampada a olio e dalla lanterna del monaco, corrono al suolo intersecandosi.
Pispisedda sta come impietrito! Se entrasse, che gli direbbero, che gli direbbe don Ciccio Riso? “Ah! bell’uomo che sei! Sei venuto a spiarci!”. E, quasi senz’avvedersene, anzichè procedere, si ritrae e s’addentra ancor più nell’ombra e s’accuccia e s’agguanta i ginocchi e appunta il mento sul petto. È tutt’occhi, tutt’orecchi!
Quanto sta a quel modo? Dal magazzino viene un ronzìo e un rimestìo pacati. Due o tre volte picchiano alla porta del magazzino. I rumori tacciono ad un tratto; una voce sommessa chiede: “Chi è?” e una voce più sommessa risponde: “San Giorgio!”. Così ogni volta. 
“Perchè?” si chiede Pispisedda. “Chi è San Giorgio?”. Poi pensa: “Sarà la parola d’ordine”.
Ma trasalisce. Ode una voce ferma che grida: Avanti! È la voce di don Ciccio. Pispisedda la riconosce. Ed ecco che la porta si apre: qualcuno esce; la porta si chiude. E tosto il ronzìo, il vocìo si spengono; pare a Pispisedda d’udire un ansimar multiplo di gente che attenda ansiosamente. E anch’egli sente che il cuore gli batte a sobbalzi. Che avviene? Trascorrono pochi minuti. Una eternità!... Ma ecco che s’ode uno scalpiccìo. Pispisedda scorge che tutti s’assiepano attorno a qualcuno che è entrato...


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1860, al tempo della rivoluzione. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato nel 1919 con la casa editrice Bemporad e arricchito dalle illustrazioni dell'epoca di Alberto Della Valle. 
Pagine 520 - prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Il volume è disponibile: 
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